Affrontare il tema dell’auto-rappresentanza delle persone con disabilità, significa arrivare a concludere che anche se avessimo dieci lauree e un curriculum da far paura, una persona con disabilità sa di se stessa ciò che nessun’altra fonte potrà mai raccontarci, e se non glielo chiediamo direttamente, non saremmo mai in grado di dire come vuole vivere la sua vita e cosa è importante per lei
Tra i principali riferimenti normativi e applicativi in materia di partecipazione e di auto-rappresentanza delle persone con disabilità c’è l’articolo 4 (Obblighi generali) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Il comma 3 di esso recita: «Nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche da adottare per attuare la presente Convenzione, così come negli altri processi decisionali relativi a questioni concernenti le persone con disabilità, gli Stati Parti operano in stretta consultazione e coinvolgono attivamente le persone con disabilità, compresi i minori con disabilità, attraverso le loro organizzazioni rappresentative».
Vi è poi l’articolo 33 (Applicazione a livello nazionale e monitoraggio) che al comma 3 prevede che le persone con disabilità siano coinvolte anche nel processo di monitoraggio della Convenzione stessa.
Infine c’è il Commento Generale n. 7, testo elaborato dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nel 2018, che è specificamente centrato sul tema della partecipazione delle persone con disabilità. È bene specificare che i Commenti Generali non sono norme, ma servono ad applicare correttamente le disposizioni normative a cui si riferiscono fornendo, a tale scopo, precise indicazioni operative.
La Convenzione ONU riconosce la partecipazione delle persone con disabilità simultaneamente come obbligo generale e questione trasversale, e presta attenzione anche all’adeguato coinvolgimento dei minori e delle donne. Il motto Niente di Noi senza di Noi sintetizza efficacemente la filosofia e la storia del movimento per i diritti delle persone con disabilità, che si basa proprio sul principio della loro significativa partecipazione. Il concetto di partecipazione è strettamente legato ad altri due concetti: quello di autorevolezza, che consiste nel riconoscere il valore e l’affidabilità dei pensieri elaborati ed espressi dalle persone con disabilità in merito alla loro condizione, e quello, già citato, di auto-rappresentanza, ossia il riconoscere alle persone con disabilità la capacità di rappresentare sé stesse e le proprie istanze nei diversi contesti.
La questione dell’auto-rappresentanza delle persone con disabilità iniziò ad essere affrontata negli Stati Uniti d’America, all’Università di Berkeley, in California, già negli Anni Sessanta, con la nascita del movimento per la Vita Indipendente delle persone con disabilità.
In Europa la diffusione di questa filosofia si deve all’intraprendenza di Adolf D. Ratzka (1943-2024), medico e fondatore dell’Istituto per la Vita Indipendente di Stoccolma (Svezia), scomparso lo scorso luglio. In un celebre intervento in cui propone una definizione del concetto di Vita Indipendente, Ratzka prende le distanze dal modello medico di disabilità che considera la stessa disabilità un problema dell’individuo e «usa etichette diagnostiche che tendono a dividere le persone disabili in molti diversi gruppi». Dunque si chiede: «Come possiamo migliorare la nostra situazione?» Questi sono alcuni passaggi della sua articolata risposta: «Dobbiamo spezzare il monopolio dei professionisti non disabili che parlano a nome nostro, definire i nostri problemi e suggerire le soluzioni per le nostre necessità. Dobbiamo costruire organizzazioni efficaci che rappresentino il punto di vista delle stesse persone disabili. I governi debbono riconoscere le nostre organizzazioni come partner nella definizione delle politiche sulla disabilità. […] Ma una cosa deve essere molto chiara: siamo noi gli esperti. […] Nella lotta per i nostri diritti possiamo essere più efficaci quando ci aiutiamo a vicenda a cambiare i nostri atteggiamenti verso noi stessi. Vedere te stesso come una persona profondamente normale [profoundly ordinary person, N.d.R.] è difficile quando ti è sempre stato detto che sei diverso, che non puoi fare questo e non puoi fare quello. In questa lotta abbiamo bisogno di parlare con qualcuno con cui possiamo identificarci, con persone che si trovano in una situazione simile. Lo chiamiamo supporto tra pari. Supporto tra pari significa condividere i frutti della propria esperienza». (Adolf D. Ratzka, La Vita indipendente e le nostre organizzazioni: una definizione, intervento esposto alla conferenza Our Common World, organizzata da Disability Rights Advocates Hungary a Siofok, Ungheria, il 9-11 maggio 1997, testo pubblicato sul sito dell’Independent Living Institute).
Il problema che si pone è quello di riconoscere l’autorevolezza delle persone con disabilità, un tema che, come abbiamo visto, riguarda le stesse persone con disabilità, ma anche tutte le altre persone.
Più o meno tutte le persone con disabilità si scontrano con la difficoltà di non vedere riconosciuta la propria autorevolezza, ma quelle con disabilità psicosociale la sperimentano in misura molto maggiore a causa degli stereotipi e dei pregiudizi riguardo a questo specifico tipo di disabilità. Stereotipi e pregiudizi che spesso sono condivisi anche dalle altre persone con disabilità.
Ratzka parlava, giustamente, del monopolio dei professionisti, e chi opera nell’àmbito della cosiddetta “salute mentale” sa benissimo quanto questo monopolio sia ancora granitico, ma la questione è che davanti a una persona con disabilità psicosociale può accadere (e accade di frequente) che non solo i professionisti, ma chiunque possa arrivare a ritenersi più autorevole e competente della persona stessa, e prendersi l’arbitrio di sostituirsi e decidere per lei anche sulle scelte che riguardano la sua vita (ad esempio, sulla scelta relativa a dove, come e con chi vivere). Ciò può accadere nei rapporti con le istituzioni, nei servizi sanitari/sociali, in àmbito giuridico (anche, ma non solo, attraverso gli istituti di tutela giuridica), nelle stesse Associazioni/Organizzazioni di persone con disabilità, in famiglia o in altri contesti.
I principali riferimenti normativi e applicativi in materia di partecipazione/auto-rappresentanza delle persone con disabilità, che ho citato inizialmente, sono molto importanti ed è essenziale conoscerli. Ma è fondamentale comprendere anche che essi non hanno il potere di incidere in modo profondo sulle condotte individuali, perché in realtà ciò che orienta le nostre condotte sono le nostre convinzioni. Questo vuol dire che se siamo intimamente convinti che le persone con disabilità non siano sufficientemente autorevoli per prendere decisioni, tenderemmo a sostituirci a loro qualunque cosa dica la legge. E mentre lo facciamo ci racconteremmo che lo facciamo per il loro bene, che le persone disabili quelle decisioni non sarebbero comunque in grado di prenderle, che sarebbe tempo sprecato provare a coinvolgerle. Davanti a queste argomentazioni non possiamo nemmeno confidare sull’argine degli scrupoli di coscienza, perché chi pensa queste cose è mosso/a dalla convinzione di essere nel giusto, dunque non ritiene di doversi censurare. Ma la verità è che se l’oggetto della scelta sono le prerogative di vita di una persona con disabilità – e intendo disabilità di qualunque tipo e gravità –, il soggetto più autorevole è la stessa persona disabile e non noi. Ci vuole una grande onestà intellettuale e una giusta dose di umiltà per ammetterlo. Ritengo infatti che, se anche applicassimo alla lettera le norme giuridiche, ma non cambiassimo le nostre più intime convinzioni sull’autorevolezza delle persone con disabilità, non potremmo dire di aver costruito una società inclusiva. In una società inclusiva lo stile relazionale è la cooperazione, il “fare con”, mentre le nostre società si basano sulla competizione, e la competizione produce gerarchie tra esseri umani che si concretizzano nel “fare per” qualcuno/a. Se non prestiamo attenzione agli stili relazionali non riusciremo a modificare questi aspetti. È la stessa Convenzione ONU a dirci che la disabilità ha una matrice relazionale. La disabilità è relazione. Le cifre di una società inclusiva sono il riconoscimento e la solidarietà reciproca tra esseri umani che, pur svolgendo ruoli diversi, si pongono sullo stesso piano. Ciò equivale a dire: io ti riconosco e ti rispetto, non perché lo dice la legge (o, almeno, non solo per questo), non per farti un favore, e neppure perché sono buono/a, ma perché intimamente sento che sei un essere umano esattamente come me, e che abbiamo gli stessi diritti e la stessa dignità.
Lavorare per la diffusione di una cultura giuridica è fondamentale, ma non dobbiamo cadere nell’inganno che sia questo il solo piano su cui agire. Infatti chiunque può aderire a una legge solo su un piano formale, limitandosi a fare lo stretto necessario per non incorrere in sanzioni. Pertanto, se vogliamo essere davvero efficaci, è necessario lavorare anche ad altri livelli, su piani in qualche modo più “personali”, interrogandoci sugli stili relazionali, illuminando e divenendo consapevoli delle nostre più intime convinzioni riguardo alla disabilità, e abbandonando quelle infondate.
Questo lavoro ci deve portare a concludere che anche se avessimo dieci lauree e un curriculum da far paura, una persona con disabilità sa di se stessa ciò che nessun’altra fonte potrà mai raccontarci, e se non glielo chiediamo direttamente non saremo mai in grado di dire come vuole vivere la sua vita e cosa è importante per lei. Queste considerazioni non sono finalizzate a disconoscere il valore delle competenze professionali, mirano piuttosto di circoscriverne l’àmbito e le modalità di applicazione, perché, come purtroppo ancora accade, non possano più tradursi in arbitrio e tirannia sulle vite altrui.
È fondamentale che questi concetti siano recepiti a partire dal livello individuale perché solo così saremmo anche in grado di dare la giusta impronta alle relazioni professionali di chi lavora nei servizi che riguardano le persone con disabilità, alle nostre relazioni familiari e amicali, alle nostre Associazioni/Organizzazioni e alle rivendicazioni politiche che portiamo avanti attraverso esse, agli atti giuridici, amministrativi o d’altro tipo che, si spera, recepiranno tali istanze.
Non possiamo chiedere alla società e alle Istituzioni ciò che noi per primi/e non siamo disponibili a fare: riconoscere l’autorevolezza delle persone con qualsiasi tipo di disabilità e promuoverne l’auto-rappresentanza. Parafrasando Ratzka, deve essere inequivocabilmente chiaro che in materia di disabilità gli esperti e le esperte sono le stesse persone con disabilità.
*Responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa). Il presente testo, già apparso nel sito di Informare un’h e qui ripreso con minimi riadattamenti al diverso contenitore per gentile concessione, coincide con quello dell’intervento pronunciato in occasione del settimo congresso annuale dell’Associazione Diritti alla Follia, Milano 14-15 dicembre 2024.
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