In tutte le conferenze stampa, in tutti i dibattiti relativi alle recenti normative del ministro Gelmini sulla scuola, la giustificazione di fondo a base di tutte le motivazioni è costituita dall’espressione «queste norme sono frutto del buon senso».
Così non sarebbe di “buon senso” mantenere delle piccole classi di piccoli Comuni o di montagna; dover pagare un dirigente scolastico e uno amministrativo solo per una scuola con poche decine di alunni; tenere in piedi facoltà universitarie cui è iscritta solo qualche unità di studenti; immettere nelle classi piccoli alunni stranieri senza una preventiva alfabetizzazione linguistica italiana; continuare ad affidare i bambini della scuola dell’infanzia e primaria ad una pluralità di maestri; non sarebbe infine di “buon senso” far frequentare agli alunni della scuola del primo ciclo tante ore consecutive con il tempo pieno.
Ora, è di tutta evidenza che mantenere in vita una facoltà universitaria con meno di dieci studenti è uno spreco, senza alcuna contropartita positiva. Il buon senso si basa proprio sull’evidenza di un fatto che sembra, secondo il comune modo di valutare le cose, incontrovertibile.
E tuttavia il buon senso è un tipo di ragionamento logico a senso unico, basato com’è sull’evidenza immediata dei fatti e delle loro immediate conseguenze; non si pone problemi di andare oltre l’evidenza, per indagare se vi siano controindicazioni alla soluzione che sembra, in quelle circostanze, l’unica percorribile.
Anche agli inquisitori di Galileo sembrava di “buon senso”, perché di tutta evidenza, che fosse il sole a girare attorno alla terra. Anche agli atei impenitenti sembra di “buon senso”, perché di tutta evidenza, che Dio non esiste perché non si tocca e non si vede, senza indagare sulle ragioni profonde, diverse dalla paura ancestrale, che, come l’amore di donarsi, spingono a Credere.
Se quindi il buon senso è solo un primo modo, molto semplice, di affrontare un problema, cerchiamo di vedere se vi siano controindicazioni al suo uso, nell’affrontare i punti critici della Normativa Gelmini sulla scuola.
Ora, l’obiezione che viene rivolta dagli oppositori del ministro alla soppressione di piccole classi è che, in tal modo, si creerebbero gravissimi disagi agli alunni, a causa delle distanze da casa alle scuole site in altri Comuni.
Per questo aspetto tale obiezione merita una considerazione che controbilancia e forse supera l’evidenza del buon senso iniziale. Sembra invece logico – cioè frutto di un ragionamento che valuta i pro e i contro – accorpare più piccole scuole, senza abolire i plessi, poiché un solo dirigente può guidare una scuola di centinaia di alunni – anche se dislocata in diversi plessi – giacché ciò riduce i costi senza danneggiare la vita degli utenti.
Quanto agli alunni stranieri, gli oppositori della Gelmini hanno dimostrato con abbondanti prove ed esempi pratici che i bimbi stranieri, dopo quattro o cinque mesi dal loro ingresso nelle classi comuni, imparano l’italiano con naturalezza, proprio a causa del dialogo necessario e spontaneo con i compagni italiani, mentre se fossero chiusi in un’aula da soli fra loro, impiegherebbero molto più tempo, imparando solo dai docenti in un rapporto meno naturale di quello coi coetanei.
La forza degli esempi dovrebbe convincere i sostenitori del mero buon senso che, altrimenti, rischierebbe di diventare dogmatico e aprioristico.
Fra gli esempi, taluni di noi portano quello dell’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, avvenuta inizialmente in Italia ben quarant’anni fa e che ha mostrato, sulla base di ricerche scientifiche, che la co-educazione giova – molto più dell’educazione separata in classi speciali – all’apprendimento e alla socializzazione di tali alunni, purché questo processo si svolga con serietà, efficienza, efficacia e rispetto della normativa, cosa che talora non sempre avviene.
Quanto al ritorno al maestro unico, gli oppositori del Ministro sostengono che oggi, col pluralismo delle agenzie informative, costituite dai mass media e dall’informatica, occorre una pluralità di maestri che sappiano educare i bambini al loro uso e alla loro corretta comprensione.
A mio avviso, pur potendosi discutere su questo aspetto, le obiezioni degli oppositori non sono da rigettare come inconsistenti e comunque anch’esse dovrebbero godere del beneficio del rispetto del buon senso.
Infine, rispetto al tempo pieno – una volta chiarito che esso dev’essere di libera scelta delle famiglie e deve riguardare un numero minimo di alunni, per evitare sprechi – esso ha delle valide ragioni a suo favore, sia di carattere pedagogico, come dimostrato dal credito internazionale delle nostre scuole del primo ciclo, sia di carattere sociale, data la necessità di conciliare il tempo pieno lavorativo dei genitori con l’impossibilità di tenere a casa da soli i figli.
Le famiglie che vogliono tenere presso di sé i figli al pomeriggio e che ne hanno i mezzi possono liberamente farlo, senza creare problemi organizzativi insormontabili ad altre.
Se allora le ragioni degli oppositori non sono destituite di un fondamento logico argomentato e talora anche di buon senso, l’irrigidimento sul mantenimento delle proposte normative deve avere altro fondamento e non sembrano lontani dal vero quanti sostengono che esso sia esclusivamente o quasi basato sulla necessità di dover tagliare sulle spese pubbliche.
Ora, i tagli alle spese pubbliche sono una necessità ineludibile; però è da chiedersi se la priorità di intervento debba riguardare proprio la scuola – e tutti gli aspetti descritti di essa – scuola che è il fondamento formativo delle nuove generazioni, tant’è vero che lo stesso Ministro ha ritenuto opportuno reintrodurre – con scelta degna di plauso, forse però non sufficiente, dal punto di vista organizzativo – l’insegnamento dell’educazione civica.
Dicevo poco sopra che il movente finanziario è l’unico “o quasi”. Dico “quasi” perché, a ben guardare, queste, come altre proposte, pur non inutili – come il ritorno al grembiule e il maggior peso al voto di condotta – sembrano maggiormente frutto di un nostalgico ritorno alla scuola che era o che fu oltre quarant’anni fa, più che di una scuola che vive le contraddizioni e le irrequietudini della presente generazione e che dovrebbe proiettarsi verso una visione di una società futura interculturale e globalizzata, una scuola per la quale – specie quella del secondo ciclo, l’università e la ricerca – invece di tagli occorrerebbero investimenti mirati a farci risalire le graduatorie che ci vedono in regresso.
Se il Ministro è convinto, come ha affermato, che bisogna «cancellare quarant’anni di errori nella scuola», il suo giudizio appare, alla luce della storia della pedagogia moderna, dogmatico perché in questi ultimi quarant’anni vi sono state conquiste indiscutibili, come il valore della personalizzazione dei processi apprenditivi, l’importanza dei rapporti scuola-famiglia, la scoperta dei rapporti interistituzionali fra scuola ed Enti Locali, conquiste che hanno dato dignità di soggetto attivo all’alunno, alla famiglia e alla scuola, come realtà inserita nel tessuto sociale del territorio.
Se un uomo di cultura come Marcello Veneziani afferma che don Milani è stato «la causa del declino e del lassismo della scuola d’oggi», dimostra insuperabili preconcetti ideologici che non gli hanno fatto cogliere l’importanza di un uomo e di un sacerdote che si è messo al servizio dei più deboli, arrivando addirittura a ipotizzare che i maestri non dovessero sposarsi per essere a servizio pieno degli alunni svantaggiati e che questi ultimi non bisognava bocciarli, ma che servisse invece lavorare con loro sino allo spasimo, fino a quando fossero divenuti padroni degli apprendimenti necessari.
E d’altra parte sostenere, come fanno gli oppositori, che la reintroduzione del maestro unico distrugga la scuola sembra eccessivo, poiché sino ai primi anni Novanta siamo stati col maestro unico e la scuola non è morta, ma anzi ha sentito il bisogno di mettersi al passo coi tempi.
Per superare lo scontro in atto nel Paese, il Capo dello Stato ha invitato tutte le parti al dialogo. Però se ciascuna di esse si irrigidisce su posizioni ideologiche preconcette e pone delle condizioni al suo inizio – come da parte del Ministro l’intangibilità delle norme emanate e da parte degli studenti la loro immediata e totale abrogazione – vengono meno i presupposti di qualunque dialogo che si è sempre basato sulla necessità logica di non ritenere dogmatiche le proprie posizioni di partenza, ma, entro certi limiti, negoziabili.
E quest’ultima considerazione mi sembra, oltre che logica, anche di buon senso.
*Vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
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