Cresce il numero di persone con disabilità che vivono in ambienti segreganti, ad esempio in Francia, in Polonia, ma anche in Italia. Il volume “Il soggiorno obbligato. La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione”, scritto a più voci, raccoglie strumenti analitici e operativi per prevenire e contrastare l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità nel nostro Paese. Ne abbiamo intervistato il curatore Ciro Tarantino, professore di Sociologia del Diritto presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Può sembrare un paradosso. Da una parte cresce il numero di persone con disabilità che vivono in ambienti segreganti ad esempio in Francia, in Polonia, ma anche in Italia, come evidenzia un recente studio di Eurofound, agenzia dell’Unione Europea del quale ci siamo già occupati recentemente, dall’altra, diventa sempre più urgente la sfida della vita indipendente per le persone con disabilità.
Tra le mani ci è capitato lo scorso anno, e se n’è parlato anche sulle nostre pagine, un libro scritto a più voci e di libero accesso nel web (a questo link), che può aiutarci a capire: è Il soggiorno obbligato. La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione, edito dal Mulino, che raccoglie strumenti analitici e operativi per prevenire e contrastare l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità in Italia.
Abbiamo intervistato il curatore del volume, Ciro Tarantino, professore di Sociologia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, dove insegna Sociologia della Disabilità ed Etica Sociale.
Come è possibile prevenire e contrastare i processi di istituzionalizzazione, anche dove sembra non esistere un’alternativa concreta al cosiddetto “soggiorno obbligato” (penso anche semplicemente a conversazioni/racconti di vita quotidiana, in cui figli o nipoti non riescono a prendersi cura di familiari, non più autosufficienti, e quindi sono costretti ad optare per strutture sociosanitarie)?
«Prima di tutto chiariamo sinteticamente l’espressione soggiorno obbligato: con la formula mi riferisco a tutti quei casi in cui la persona è collocata in una particolare sistemazione abitativa contro la propria volontà e/o non avendo avuto a disposizione una valida e concreta alternativa. Siamo, cioè, in quell’area di fenomeni tutelati dal noto articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità e, soprattutto, dal meno richiamato articolo 14 che – ricordo – , al comma 1, lettera b), chiede che si garantisca che le persone con disabilità “non siano private della loro libertà illegalmente o arbitrariamente, che qualsiasi privazione della libertà sia conforme alla legge e che l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà”. Parliamo, dunque, di casi in cui sono compresse le due libertà – quella personale e quella di scelta – che compongono i pilastri su cui si regge la Convenzione stessa.
L’Italia, nel corso degli anni, ha accumulato molteplici saperi e ha elaborato moltissime pratiche in grado di prevenire e contrastare, con estrema efficacia, le forme di collocamento involontario delle persone anziane e/o con disabilità. Molti strumenti, quali la progettazione personalizzata capacitante e gli elementi connessi, quali il budget di progetto, vengono sperimentati ormai da un quarto di secolo. Non a caso la Legge Delega 227/21 in materia di disabilità li ha posti come perno di un nuovo sistema di welfare. E ricordo che la Legge Delega è l’attuazione della Riforma 1.1 del PNRR (Missione 5 – Componente 2) che prevedeva appunto l’adozione di una Legge quadro per le disabilità “nell’ottica della deistituzionalizzazione e della promozione dell’autonomia delle persone con disabilità”. Il problema, semmai, è l’inverso: che cosa, nel 2025, giustifica ancora eticamente e scientificamente l’istituzionalizzazione involontaria delle persone con disabilità?»
Nel volume una parte è dedicata a storie di istituzionalizzazione che potremmo definire assolutamente ordinarie, in nulla riconducibili al “caso limite”: c’è un elemento in comune in tutte queste storie? E cosa possiamo imparare?
«Nel corso della ricerca sono state raccolte molteplici traiettorie esistenziali, poi ne sono state estratte alcune paradigmatiche, per comprendere quelli che possiamo definire i “determinanti sociali dell’istituzionalizzazione”. Direi che tutte le storie, per quanto estremamente diverse, hanno in comune il verificarsi di uno o più punti di frattura: quelli che, materializzando una formula di Ernesto De Martino, abbiamo chiamato “crisi della presenza”. Si tratta, esattamente, di quei momenti a cui faceva cenno lei prima in cui il sistema di cura familiare – se disponibile – entra in crisi per le più diverse ragioni che nel volume proviamo a ricostruire.
Ora il problema è che il sistema di welfare, nel suo assetto ordinario, raramente interviene per evitare o alleviare questi momenti poiché prima scarica il carico assistenziale su famiglie e caregiver e poi, dopo averli spremuti fino all’estremo – spesso chiedendo di annullare le proprie esistenze –, sancisce con l’istituzionalizzazione l’insostenibilità della situazione.
Anche nelle situazioni più complesse, di norma, c’è invece molto tempo per intervenire e molte soluzioni prospettabili, volendolo. Tra l’alternativa secca fra una domiciliarità forzata e l’istituzionalizzazione coatta, esistono molte forme di abitare possibile, più o meno assistito, se solo si vuole lavorare nel rispetto di diritti, bisogni e desiderata di tutti. Davvero nel 2025 non siamo in grado di prospettare forme di assistenza di qualità nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali?»
Come i servizi – e penso ai centri diurni ad esempio – possono e devono essere uno strumento veramente a disposizione delle persone con disabilità per l’elaborazione e la realizzazione del loro progetto di vita e uscire dalla logica dell’assistenzialismo e dell’imposizione dall’alto dell’educatore?
«Vedo due questioni principali. In primo luogo, bisogna liberarsi dalla tirannia dell’offerta. In molti territori è l’offerta disponibile di servizi che chiede alle persone di adattarsi, non è invece – come dovrebbe essere nella logica normale delle cose – la domanda che produce un’apposita gamma di servizi. Questo è un problema antico e strutturale di un welfare obsoleto, alquanto standardizzato e ancora poco flessibile rispetto alla personalizzazione dei servizi. Il caso del centro diurno, che lei cita, è significativo: in molti casi, esistendo storicamente un centro diurno sul territorio, la persona con disabilità viene indirizzata a frequentarlo come un automatismo, senza nessuna riflessione in merito a bisogni, aspettative e desideri della persona. Il centro diventa, così, non un luogo funzionale alla persona, ma, se va bene, un “defaticatore” familiare e, molto spesso, un luogo di mera riproposizione della logica dell’intrattenimento che speravamo archiviata da almeno un trentennio».
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha stabilito l’incostituzionalità della disciplina del trattamento sanitario obbligatorio (TSO) nella parte in cui non garantisce a chi vi è sottoposto il diritto ad un’adeguata informazione e al contraddittorio. Un’altra ordinanza della Corte di Cassazione circoscrive i poteri del Giudice Tutelare nella nomina dell’amministrazione di sostegno. Stiamo andando nella “direzione giusta”, ma cosa manca affinché sia effettivo il cambiamento culturale e non solo legislativo?
«I cambiamenti legislativi sono efficaci e duraturi solo se fondati su cambiamenti culturali. In questo momento, in merito alle limitazioni di libertà, la disciplina del TSO è quella ancora oggi più formalizzata e che fornisce maggiori garanzie. Il punto, in merito alle persone anziane e/o con disabilità, è un altro: è che, molto spesso, sono soggette a privazioni e limitazioni della libertà improprie e surrettizie, cioè non conformi ai meccanismi di garanzia previsti dalle normative.
Come l’esperienza del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ci ha insegnato in questi anni, si tratta spesso di internamenti o di privazioni di fatto e non di diritto della libertà personale. Questo significa che c’è un profondo problema culturale in merito allo statuto di cittadinanza delle persone anziane e/o con disabilità: nei loro confronti viene reputato normale adottare comportamenti lesivi della dignità e della libertà che sarebbero impensabili per il resto della cittadinanza.
Ancora più drammatico è quando i servizi e le istituzioni neanche si accorgono di star comprimendo la dignità e la libertà di una persona. Sempre l’esperienza di questi anni indica come ormai improcrastinabili alcune riforme: in primo luogo, anche in ottemperanza alle ripetute richieste del Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – che vigila sull’applicazione della Convenzione omonima –, la soppressione degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. In secondo luogo, ed estremamente necessaria, la delicata riforma dell’amministrazione di sostegno, in modo che siano scongiurati i pericoli che l’assistenza si tramuti in sostituzione della volontà della persona con disabilità».
Lei scrive che il volume è stato scritto «in un momento di fermento legislativo»: i Decreti Legislativi attuativi della Legge Delega 227/21 e in generale le recenti soluzioni normative adottate dal Legislatore hanno tenuto conto di questi studi raccolti?
«La ricerca è stata promossa dalla Presidenza del Consiglio (Ufficio per le Politiche in Favore delle Persone con Disabilità, oggi Dipartimento) in un momento in cui il Covid aveva messo in luce l’estrema fragilità del sistema di welfare italiano e prima ancora che prendesse piede l’ipotesi della Legge Delega 227/21. Non a caso, nello stesso periodo e a partire dallo stesso presupposto, la Federazione FISH aveva promosso il progetto Welfare 4.0. La ricerca si è poi materialmente svolta in un periodo in parte convergente con quello della redazione dei Decreti Legislativi di attuazione della Legge Delega. E alcuni degli estensori del rapporto di ricerca sono stati coinvolti nei lavori della Commissione di studio redigente gli schemi di Decreti Attuativi (chi scrive, Cecilia Marchisio e Daniele Piccione in funzione di coordinatore della Commissione). Oggi che il procedimento legislativo è sostanzialmente chiuso, i lettori e le lettrici potranno giudicare se e quanto le soluzioni adottate dal Legislatore siano o meno convergenti con quelle prospettate nel volume.
Se proprio dovessi riassumere una materia che è molto complessa e articolata, direi che, a fronte di una sostanziale convergenza della ricerca con l’impianto della Legge Delega 227/21, le distanze maggiori si rinvengono in alcuni punti di ambiguità che il Decreto Legislativo 62/24 lascia proprio in tema di libertà personale e di prevenzione e contrasto dell’istituzionalizzazione. Ma questo è un argomento che meriterebbe un apposito approfondimento e un dibattito, soprattutto con i movimenti di tutela dei diritti delle persone con disabilità. Il problema è che non mi pare che il mondo dell’associazionismo – nel suo complesso e con le dovute eccezioni – in questo momento dimostri una specifica sensibilità per queste tematiche. Mi sembra, piuttosto, che siamo in un momento in cui il tema viene silenziosamente rimosso dall’agenda politica, senza la forza e il coraggio di esplicitare le ragioni di questo accantonamento subdolo».
Se confrontiamo il quadro italiano con quello europeo come ne usciamo?
«Il quadro europeo e internazionale che ruota intorno all’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità è molto solido. Si pensi, a puro titolo di esempio, alle Linee Guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza rilasciate dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nel 2022, proprio mentre la nostra ricerca era in corso. Oppure al lavoro del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa, oppure al recentissimo Commento Generale n.1 all’articolo 4 del Protocollo Opzionale (Posti di privazione della libertà) del Sottocomitato ONU sulla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT). Mi sembra, piuttosto, che sia l’Italia – con la sua tradizione di emancipazione – a dover decidere se dignità e libertà delle persone con disabilità siano o meno questioni meritevoli di confronto e impegno o temi da mettere in sordina».
Il libro Il soggiorno obbligato. La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione, di libero accesso nel web, come sopra già ricordato (a questo link), è diviso in cinque parti (Geometrie esistenziali e crisi della presenza; Cartometrie e cartografie della residenzialità in Italia; Codici culturali e quadri normativi; Dispositivi di incapacitazione; Strategie di emancipazione) e contiene contributi di Matteo Schianchi, Massimiliano Verga, Natascia Curto, Cecilia Maria Marchisio, Virginia De Silva, Lavinia D’Errico, Giovanni Pizza, Ciro Pizzo, Nicola Vanacore, Daniele Piccione, Emilio Santoro, Orsetta Giolo, Daniele Amoroso, Benedetto Saraceno, Christian Loda, Maria Giulia Bernardini, Diana Genovese, Paolo Addis, Fabrizio Magani, Giovanni Merlo, Luca Fazzi, Ranieri Zuttion, Fabrizio Starace, Alceste Santuari, Filippo Venturi, Gilda Losito e Vincenzo Falabella, curatore, quest’ultimo, della postfazione.
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