Per far sì che l’inclusione non sia solo uno slogan

di Gianfranco Vitale
«L’inclusione – scrive tra l’altro Gianfranco Vitale – non può essere ridotta a slogan né ad iniziative di facciata. Le strategie e le azioni da promuovere devono tendere a rimuovere le forme di esclusione di cui le persone con disabilità soffrono nella loro vita quotidiana»
Realizzazione grafica americana dedicata all'inclusione delle persone con disabilità
Una realizzazione grafica americana dedicata all’inclusione delle persone con disabilità

Negli ultimi anni, il termine “inclusione” è entrato sempre più spesso nel nostro linguaggio quotidiano. Iniziative, eventi e progetti dedicati a questo tema stanno crescendo, e ciò è senza dubbio un segnale positivo: indica che la società si sta muovendo verso una maggiore sensibilità e rispetto per le persone con disabilità.
Sbaglieremmo, tuttavia, a ignorare che dietro questa importante svolta si nascondono, a volte, limiti, errori e contraddizioni che rischiano di trasformare l’inclusione in semplice apparenza. Non sono poche, infatti, le iniziative che, pur muovendo da buone intenzioni, finiscono per rafforzare la separazione anziché superarla. In questi casi, innegabilmente, siamo più vicini a un’esclusione travestita che ad un’inclusione vera!

Un esempio emblematico è il Disability Day, organizzato da alcuni Comuni in “imbarazzanti” orari mattutini, con parchi divertimento riservati esclusivamente a persone con disabilità e alle loro famiglie. Anche se l’intento è lodevole, queste iniziative non rischiano di isolare ulteriormente i destinatari, invece di promuovere una reale integrazione?
La vera inclusione richiede che tutti (proprio tutti) partecipino alle stesse attività, nello stesso luogo e nello stesso momento. Nessuno pretende per i nostri cari la creazione di una nuova Disneyland, ma nemmeno è accettabile l’idea di realizzare una succursale di Disabilandia!
Il Disability Day non dovrebbe realizzarsi in tre ore al mattino, com’è ormai prassi, ma svilupparsi in tutto l’arco della giornata, tenendo conto che in quella stessa occasione tutti (proprio tutti) gli avventori dovrebbero anche “accontentarsi” di giostre rallentate, di musica ad un volume accettabile, di luci un po’ meno intermittenti…
Se non si comprende l’importanza di un simile percorso, la conseguenza è che più che includere si creino muri alti, spessi e difficilmente abbattibili, che nascondono varchi e crepe di ogni genere.
L’inclusione non può essere ridotta a slogan né ad iniziative di facciata. Le strategie e le azioni da promuovere devono tendere a rimuovere le forme di esclusione di cui le persone con disabilità soffrono nella loro vita quotidiana. Penso, esemplificando al massimo e riservandomi qualche approfondimento ad hoc, all’emarginazione scolastica; al mancato apprendimento di competenze sociali e di vita; alle esperienze affettive troppo spesso relegate all’esclusivo àmbito familiare; alla scarsa partecipazione alle attività di tempo libero; alla mancanza di un lavoro che sia altro rispetto a quello “retribuito” con mancette simboliche, che rasentano lo sfruttamento, da molte Cooperative ecc.

Proviamo ad analizzare, ad esempio, il contesto scolastico. Qui emerge un modello che spesso associa il concetto di inclusione a un mero adempimento burocratico. Se è vero che l’adozione di piani didattici personalizzati è fondamentale, è altrettanto vero che essa deve essere affiancata da un cambiamento culturale che eviti di etichettare gli studenti solo con sigle (BES, DSA, NAI, PDP…) o di catalogare ad ogni costo, con fantasiosi acronimi e diciture, ogni forma di disagio, a cominciare da quello cosiddetto sociofamiliare! L’etichettatura riduce le persone a diagnosi, trascurando colpevolmente le loro potenzialità.
È fondamentale che la scuola non trasformi le differenze tra gli studenti in disuguaglianze. Le risposte di tipo medico o terapeutico a problemi sociali non devono assolutamente prevalere sull’approccio pedagogico, che rappresenta il cuore del processo educativo.
Pur riconoscendo l’importanza di diagnosticare e affrontare le difficoltà specifiche degli studenti, occorre evitare il rischio che l’inclusione venga compromessa. Se è inconfutabile che alcune difficoltà richiedono una diagnosi e un supporto adeguato, è necessario evitare che l’inclusione si blocchi a causa di una medicalizzazione eccessiva, che oltretutto mortifica e depriva della loro identità professionale gli stessi docenti fino a renderli subalterni a psicologi e neuropsichiatri.
Non si tratta di criticare gli interventi individualizzati previsti e concordati nei Piani Educativi Individualizzati (PEI), ma è fondamentale condannare qualsiasi utilizzo improprio di strumenti che finiscono per creare esclusione ed emarginazione anziché favorire l’inclusione.
La scuola deve essere il luogo in cui le differenze vengono riconosciute e valorizzate, non trasformate in disuguaglianze. Occorre contrastare l’abuso di modelli che isolano gli studenti con disabilità, promuovendo invece ambienti autenticamente inclusivi, dove ogni alunno viene rispettato nella sua unicità.
Si pensi all’uso distorto che viene fatto, non di rado, delle “aule di sostegno”. Indicate come luoghi sereni e gioiosi, esse sono – nella realtà – spazi vuoti, deprimenti, altamente stigmatizzanti, perché separano gli allievi con disabilità dai loro coetanei, negando di fatto la piena partecipazione alla vita scolastica. Sono spazi che invece di abbattere segnano confini; nascondono e celano, oscurano alla vista e coprono alla mente.
Eppure questo falso modello inclusivo è ancora oggi promosso al rango di “laboratorio” da tanti dirigenti e ispettori scolastici che, incredibilmente, lo descrivono come “inclusivo”, pur sapendo, loro per primi, che è “riempito” di soli, e tanti, alunni con disabilità!

Promuovere davvero l’inclusione significa cambiare prospettiva: non considerare la disabilità come una malattia, ma riconoscerla come il risultato dell’interazione tra le caratteristiche della persona con disabilità e l’ambiente in cui vive, lavorando per eliminare le barriere che ostacolano la partecipazione.
Occorre rendere la disabilità una realtà che interagisce con altre realtà, perché la vera inclusione guarda oltre la disabilità come “problema personale” e si concentra sul contesto sociale, con l’obiettivo di abbattere le barriere culturali, fisiche e sociali che limitano le opportunità delle persone con disabilità.

In apparenza il nostro Paese ha dimostrato sensibilità nel disegnare processi e percorsi diretti a favorire la piena inclusione sociale delle persone con disabilità, ma, in verità, nonostante la ridondante produzione legislativa degli ultimi trent’anni, in tanti àmbiti di vita emergono e permangono significativi svantaggi delle persone con disabilità rispetto al resto della popolazione.
Questo significa che gli strumenti messi in campo non hanno ottenuto i risultati attesi, ma sono serviti, nella migliore delle ipotesi, ad attenuare le differenze o impedire che si amplificassero.
Una miriade di leggi, di cui lo Stato ipocritamente va fiero, non trova di fatto applicazione (ne cito, per brevità di esposizione, solo due, ma è bene sapere che il loro numero è almeno dieci volte più grande: la Legge 68 del 1999 su disabilità e lavoro, la Legge 328 del 2000 sul progetto di vita). Non dare attuazione alla Legge 68/99, ad esempio, da una parte ha significato tradire la possibilità di pensare alla persona con disabilità come individuo sociale, favorendone la piena integrazione sul territorio grazie a misure atte a trovare nuove motivazioni, sviluppare abilità, occasioni di socializzazione, attività formative, eccetera. Dall’altra ha significato rinnegare con brutalità e disprezzo il principio di una società equa e inclusiva.
Cosa c’è di più equo e inclusivo di un lavoro adeguato alle capacità individuali? Capirà mai questa classe politica, rozza e ignorante, che il lavoro non è solo un diritto ma è anche un potente strumento di autonomia e dignità? Fino a quando dovremo sopportare, anziché denunciare, la retorica di Servizi e Istituzioni che quando parlano di tutela dell’inclusione sociale delle persone con disabilità ricorrono solo a menzogne e omissioni?

A queste domande potrebbero e dovrebbero rispondere soprattutto le Associazioni, se per una volta fossero capaci di capire che su un tema così delicato e complesso come “l’inclusione”, oggettivamente trasversale a tutte le forme di disabilità, non ci si può ingenuamente dividere per la sola voglia di primeggiare come, in maniera infantile, avviene ogni giorno su tante altre questioni. È forse possibile distinguere tra l’inclusione della persona con disabilità fisica e quella della persona con disabilità psichica? No: l’inclusione riguarda tutti.
Per raggiungere una vera inclusione, le Associazioni, le famiglie e tanti cittadini perbene sensibili al problema devono unirsi in uno sforzo comune. Si lavori, allora, perché questo obiettivo diventi il collante capace di unire tutte le forze chiamate a fare fronte comune contro l’egoismo e la miopia di una classe politica brava solo a difendere e consolidare i suoi privilegi, ma completamente inaffidabile, insensibile e vergognosamente distante dai bisogni reali delle persone con disabilità (e, non dimentichiamolo mai, delle loro famiglie).
È tempo di superare divisioni e compromessi. La diversità è una risorsa straordinaria che arricchisce la società, e ogni persona con disabilità merita, a pieno titolo, di essere inclusa, accolta e valorizzata. Non si tratta di un privilegio, ma di un diritto primario che va difeso e promosso, in tutte le sedi, con coraggio e determinazione.

Alcune settimane fa ho promesso a Stefania Delendati, direttrice responsabile di Superando, che le avrei dedicato un articolo. Mantengo la promessa: quello che ho scritto qui è per Lei. (G.V.)

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