Prendendo spunto da un recente caso di cronaca accaduto in una casa di riposo a Latera (Viterbo), dove alcune persone anziane hanno subito maltrattamenti e si è verificato un episodio di violenza sessuale ai danni di una delle ospiti, Simona Lancione propone una riflessione sulla prevenzione dell’istituzionalizzazione, che è essa stessa una forma di violenza, e delle altre forme di violenza che si possono concretizzare all’interno di strutture che ospitano persone anziane e/o con disabilità
Anziani legati, insultati e senza cibo. Le frasi choc degli infermieri di una RSA nel viterbese, titolava così, il 22 gennaio scorso, l’Agenzia AGI (il testo, a firma di Edoardo Izzo, è fruibile a questo link), e si tratta solo dell’ultimo di una serie infinita di vicende che mostrano l’orrore che l’istituzionalizzazione è capace di produrre.
Nel testo si parla di maltrattamenti e di un episodio di violenza sessuale ai danni di una ospite all’interno di una casa di riposo per persone anziane a Latera, in provincia di Viterbo, mentre ulteriori elementi – situazioni di malnutrizione, somministrazione di farmaci ansiolitici e frequenti episodi di contenzione fisica – sono al vaglio degli inquirenti. «L’indagine, iniziata nella primavera del 2024, è partita dalle confidenze di alcuni ex operatori della struttura, i quali si sono rivolti alla stazione [dei] carabinieri di Capodimonte raccontando una serie di abusi perpetrati ai danni degli anziani a opera di loro colleghi – riferisce Izzo –. Sotto il coordinamento del procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, e con la direzione del PM, Flavio Serracchiani, sono state installate telecamere all’interno della struttura e disposte intercettazioni ambientali. Dagli accertamenti, spiega una nota delle Forze dell’Ordine, è emerso “un quadro allarmante, preoccupante, pericoloso, contrassegnato da una gestione inumana dell’anziano, soggetto notoriamente vulnerabile, esposto ad attacchi gravemente lesivi del suo equilibrio psicofisico, già compromesso dall’età e dal naturale decadimento fisico e cognitivo”» (la formattazione riportata nel testo non corrisponde a quella originale).
La vicenda ha portato a disporre tre ordinanze di custodia cautelare in carcere e tre ordinanze di sospensione dall’esercizio delle funzioni per sei operatori socio-sanitari della struttura accusati di maltrattamenti e violenza sessuale.
Le dinamiche illustrate sono tristemente simili a quelle che si riscontrano in altre vicende che la cronaca ci restituisce con una certa frequenza, pertanto, più che soffermarsi sui dettagli di questa bruttissima storia, potrebbe risultare utile riflettere sulla prevenzione dell’istituzionalizzazione e delle altre forme di violenza che si possono concretizzare all’interno delle strutture che ospitano persone anziane e/o con disabilità.
L’istituzionalizzazione, con le sue modalità segreganti, costituisce di per sé una forma di violenza nei confronti delle persone con disabilità di qualunque età. Essa è incompatibile con il complesso delle norme nazionali e internazionali del diritto antidiscriminatorio, al cui interno figura anche, tra le altre, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dal nostro Paese con la Legge 18/09). Che si tratti di una forma di violenza lo ha ribadito, nel settembre 2022, anche il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, l’organo preposto a monitorare l’applicazione della Convenzione, nelle sue Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza” (disponibili, in lingua italiana, a questo link; a tal proposito si segnala anche l’approfondimento pubblicato su queste stesse pagine).
Dunque la prima risposta da mettere in campo, oltre a quella di predisporre un piano di deistituzionalizzazione per le persone che attualmente vivono in istituti variamente denominati, dovrebbe essere quella di vietare che ulteriori persone vengano istituzionalizzate. In merito a quest’ultimo aspetto va rilevato che, sebbene l’Italia stia predisponendo misure atte a tale scopo – si pensi, ad esempio, alle disposizioni sull’attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato previste dal Decreto Legislativo 62/24 –, il nostro welfare ha ancora un’impostazione prevalentemente familistica e quando, per diversi motivi, la famiglia o il/la caregiver non ci sono o non sono (più) in grado di prestare assistenza alla persona che ne ha necessità, la risposta pubblica continua ad essere segregante.
È quanto emerge anche da una recente intervista rilasciata da Ciro Tarantino, professore di Sociologia del Diritto presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nonché curatore dell’opera collettiva Il soggiorno obbligato. La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione (il Mulino, 2024, liberamente fruibile online a questo link, mentre a quest’altro link è disponibile una sua presentazione).
In Che cosa giustifica ancora il “soggiorno obbligato” delle persone con disabilità? – questo il titolo dell’intervista curata da Carmela Cioffi per il presente giornale (disponibile a questo link), Tarantino, tra le altre cose, fa riferimento ad alcune «ambiguità che il Decreto Legislativo 62/2024 lascia proprio in tema di libertà personale e di prevenzione e contrasto dell’istituzionalizzazione», ed aggiunge un’ulteriore considerazione: «Il problema è che non mi pare che il mondo dell’associazionismo – nel suo complesso e con le dovute eccezioni – in questo momento dimostri una specifica sensibilità per queste tematiche. Mi sembra, piuttosto, che siamo in un momento in cui il tema viene silenziosamente rimosso dall’agenda politica, senza la forza e il coraggio di esplicitare le ragioni di questo accantonamento subdolo».
Se dunque in Italia si fa ancora ricorso all’istituzionalizzazione, oltre a chiedere all’associazionismo e alle Istituzioni che il tema venga urgentemente reinserito nell’agenda politica, si pone anche il problema di prevenire le forme di violenza addizionale, quelle che vanno a sommarsi alla segregazione e che sono state riscontrate anche nella casa di riposo di Latera.
Alcuni degli elementi che rendono possibili queste violenze addizionali sono rappresentati dal fatto che talvolta alle persone ospitate nelle strutture non è data la possibilità di comunicare con l’esterno, e che, davanti agli episodi di violenza, gli operatori o le operatrici tendono ad essere conniventi. Non è un caso che anche l’indagine di Latera abbia presso avvio dalle «confidenze di alcuni ex operatori», la qual cosa sembra indicare che finché hanno lavorato nella struttura costoro non hanno intrapreso azioni di contrasto alla violenza (sia nel senso di intervenire personalmente, sia nel senso di rivolgersi alle Forze dell’Ordine).
Dunque, per rimuovere questi ostacoli, sarebbe opportuno che, oltre all’attività di vigilanza attribuita all’Autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone con disabilità, recentemente istituita, venisse disposto a livello normativo che non possano essere limitati o impediti alla persona con disabilità ospitata in una struttura il diritto di ricevere visite negli orari stabiliti, né le comunicazioni con l’esterno, né le verifiche da parte di Associazioni di persone con disabilità o comunque impegnate nella promozione e tutela dei diritti umani. Mentre per contrastare gli atteggiamenti di connivenza sarebbe opportuno prevedere interventi formativi obbligatori rivolti a tutto il personale di dette strutture sui temi della prevenzione e del contrasto alla violenza, con particolare attenzione al genere (ciò perché tutta la letteratura scientifica disponibile mostra che le donne sono più esposte alla violenza rispetto agli uomini).
C’è poi un ulteriore aspetto degno di attenzione. Poiché questi episodi di violenza addizionale non di rado vengono documentati attraverso la disposizione di intercettazioni ambientali e l’installazione di telecamere all’interno delle strutture (come abbiamo visto anche nel caso in esame), vi è chi ritiene che tali dotazioni debbano essere disposte in modo permanente a scopo preventivo.
In merito a questo aspetto possiamo osservare che mentre disporre tali misure in presenza di elementi oggettivi che configurano indizi di reato rientra nell’àmbito di uno Stato di diritto, la possibilità di disporle anche in assenza di indizi di reato si configurerebbe come un intervento arbitrario. Detto in modo più chiaro, a parere di chi scrive, questa proposta presenta delle criticità sia sotto un profilo giuridico, sia su un versante che potremmo definire di razionalità rispetto allo scopo.
Poiché il tema è molto ampio, in questo spazio evidenziamo brevemente solo alcuni aspetti che appaiono più rilevanti.
Sotto il profilo giuridico, disporre intercettazioni ambientali e sistemi di videosorveglianza permanenti esproprierebbe la persona con disabilità ospitata in una struttura della possibilità di decidere in autonomia se vuole o meno limitare o rinunciare alla propria privacy, la qual cosa contrasta con il principio di autodeterminazione, che costituisce uno dei pilastri portanti della citata Convenzione ONU, e con l’articolo 22 (Rispetto della vita privata) della stessa.
Va poi osservato che se la misura non è stata scelta dalla stessa persona con disabilità che vi è sottoposta, ma è stata introdotta attraverso un automatismo che agisce anche in assenza di indizi di reato, si sta operando con modalità sostitutive della persona, adottando un atteggiamento paternalistico verso la stessa, la qual cosa è vietata dall’articolo 12 (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge) della Convenzione ONU.
A ciò si aggiunga che la misura proposta allo scopo di sorvegliare il personale delle strutture avrebbe un impatto sproporzionato sulla persona che vi risiede, giacché il personale dovrebbe rinunciare alla propria privacy “solo” nel contesto lavorativo (ma non al di fuori di esso), mentre la persona con disabilità vi dovrebbe rinunciare in modo continuativo (giorno e notte).
Possiamo inoltre supporre che ulteriori osservazioni potrebbero essere fatte anche sotto il profilo della tutela dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, ma è difficile comprendere in che termini tali aspetti siano stati trattati.
E tuttavia, prima di chiederci se questa proposta sia compatibile con le norme del nostro ordinamento giuridico, forse dovremmo chiederci se essa sia razionale rispetto allo scopo, ossia se sia idonea a raggiungere l’obiettivo di prevenire la violenza addizionale. Le domande sono: siamo sicuri/e che trattare con diffidenza anche gli operatori e le operatrici che non hanno mai agito violenza aiuti a prevenirla, e che da tale atteggiamento non possa invece scaturire un clima di sospetto e risentimento generalizzato con ricadute deleterie sulla qualità del lavoro, e dunque sull’assistenza prestata persone ospitate nelle strutture? Non sarebbe più razionale rispetto allo scopo intervenire con percorsi educativi volti a coinvolgere il personale in attività di contrasto alla violenza?
Le vicende di cronaca relative ad episodi di violenza come quelli riferiti dall’AGI suscitano nell’opinione pubblica emozioni di dolore, tristezza, paura e rabbia. Contrariamente a quanto molti pensano, se queste emozioni sono vissute con consapevolezza non possono considerarsi “negative” poiché assolvono alla funzione di spingere le persone all’attivazione. Soprattutto la rabbia, che solitamente scaturisce dalla percezione di una situazione di ingiustizia, è un grado di sprigionare una forte energia. Il problema è che questa energia andrebbe canalizzata perché se indirizzata indistintamente verso chiunque rivesta un determinato ruolo o possieda una determinata caratteristica (ad esempio, tutto il personale di qualunque struttura, nel caso della vicenda citata in questo testo, ma anche tutti gli uomini, nei casi di femminicidio), ciò non solo non aiuterebbe a prevenire la violenza, ma, criminalizzando un intero gruppo di soggetti, finirebbe per creare conflitti anche dove potrebbero esserci alleanze.
Le reazioni lucide e responsabili di Gino ed Elena Cecchettin, rispettivamente padre e sorella di Giulia Cecchettin, al barbaro femminicidio di quest’ultima, avvenuto nel Padovano l’11 novembre 2023, quando Giulia aveva solo 22 anni, per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta, mostrano in modo esemplare come, anche davanti a vicende di violenza particolarmente efferata, le energie emotive possano essere orientate verso la non-violenza.
Non si tratta, ovviamente, di essere tolleranti – ci mancherebbe –: se ricorrono i presupposti, le autorità inquirenti devono avere le mani libere per agire celermente con tutti gli strumenti a disposizione, e chi commette crimini così ripugnanti va adeguatamente punito. Dobbiamo anzi batterci con più convinzione perché quando le persone ospitate nelle strutture riferiscono episodi di violenza vengano disposte tutte le verifiche del caso. Lo sottolineiamo perché abbiamo seguito una vicenda in cui una donna con disabilità psicosociale ha dichiarato di aver subìto violenze sessuali da parte di due altri ospiti delle strutture in cui ha soggiornato, ma le sue dichiarazioni sono state completamente ignorate: si tratta di un fatto gravissimo. Ma posto questo, chiunque abbia avuto modo di occuparsi di contrasto alla violenza [da oltre dieci anni il Centro Informare un’h, di cui l’Autrice del presente contributo è responsabile, è particolarmente attivo nel contrasto alla violenza nei confronti delle donne con disabilità: a tal proposito si veda l’apposita sezione tematica, N.d.R.], può confermare che il primo e più efficace strumento di prevenzione è l’intervento educativo finalizzato all’accrescimento della conoscenza e della consapevolezza del fenomeno, nonché alla costruzione di contesti di fiducia e relazioni autentiche.
*Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di riflessione è già apparso e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, insieme alla medesima immagine ivi utilizzata, per gentile concessione.
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