Una denuncia lucida e impietosa di come l’abilismo sia inscritto nella progettazione degli spazi e delle strutture sociali, il tutto lontano da un’idea rassicurante che l’accessibilità sia solo una questione tecnica: il libro di Ilaria Crippi “Lo spazio non è neutro. Accessibilità, disabilità, abilismo” smaschera le giustificazioni che rendono l’esclusione delle persone con disabilità un fatto accettabile e normalizzato
Una denuncia lucida e impietosa di come l’abilismo sia inscritto nella progettazione degli spazi e delle strutture sociali. Lontano da un’idea rassicurante che l’accessibilità sia solo una questione tecnica, Lo spazio non è neutro. Accessibilità, disabilità, abilismo (Tamu Edizioni, 2024) di Ilaria Crippi è uno di quei libri capaci di smascherare le giustificazioni che rendono l’esclusione delle persone con disabilità un fatto accettabile e normalizzato [se ne legga già anche sulle nostre pagine, a questo e a questo link, N.d.R.]. Crippi ci costringe a interrogarci su chi abbia il diritto di attraversare liberamente gli spazi e su chi invece venga sistematicamente escluso, mettendo in discussione le priorità e i compromessi che la nostra società accetta senza troppi scandali.
Nata a Ferrara, classe 1988, Ilaria Crippi è un’attivista con disabilità che da anni e con grande energia si occupa di accessibilità, diritti delle persone con disabilità e giustizia sociale. Con una formazione come disability manager e progettista sociale, ha approfondito i Disability Studies e la ricerca emancipatoria, intrecciando prospettive sociologiche e giuridiche. Attraverso il suo lavoro, integra le tematiche legate alla disabilità con quelle del genere e dell’orientamento sessuale, offrendo una visione intersezionale che arricchisce il dibattito sull’inclusione. Questo suo bel saggio rappresenta una riflessione acuta sulla natura culturale e politica dell’accessibilità, sfidando l’idea comune che essa riguardi solo l’eliminazione di barriere fisiche o architettoniche e non piuttosto una più ampia struttura culturale che privilegia i corpi considerati “abili”. Gli spazi infatti, secondo l’autrice, non sono neutri: sono costruiti per corpi normativi, escludendo e marginalizzando chi si discosta da questa norma. La sua analisi si sofferma sulle radici culturali dell’abilismo, mostrando come la progettazione degli spazi, delle relazioni sociali e delle pratiche quotidiane perpetui discriminazioni sottili ma pervasive.
Le chiedo quali siano a suo avviso le barriere culturali più difficili da superare quando si parla di accessibilità. «Il problema di fondo – mi risponde – è che l’esclusione delle persone con disabilità è normalizzata. Significa che non genera scandalo pensare che esse abbiano un accesso limitato all’ambiente: la consideriamo una naturale conseguenza dell’avere un corpo-mente lontano dagli standard di normalità. E invece in molti casi l’esclusione deriva da barriere nell’ambiente che potrebbero essere rimosse».
«Quando si segnala un problema di accessibilità – prosegue – la risposta immediata non è una ricerca di soluzioni, ma piuttosto una giustificazione dell’esistente: la barriera c’è perché è troppo costoso rimuoverla, perché quel palazzo è antico, perché non ci sono abbastanza persone con disabilità da giustificare il cambiamento. Questi discorsi ci ingannano, fanno apparire l’esclusione come inevitabile e razionale, nascondendo quanto invece derivi da precise scelte e priorità che diamo per scontate. Ad esempio diamo per scontato che i costi legati all’accessibilità siano un di più da sostenere se e quando è possibile; non li vediamo come una parte del costo standard, ineliminabile e da prevedere quando si decide di utilizzare un certo edificio o di realizzare un evento».
Domando poi a Crippi quali responsabilità, a suo avviso, dovrebbero assumersi le Istituzioni e i professionisti della progettazione per garantire un reale cambiamento. «Il punto centrale – mi risponde subito – è smettere di vedere l’inaccessibilità come qualcosa di tollerabile. Ad oggi, l’accessibilità sembra sempre sacrificabile… ed è, infatti, sacrificata in caso di conflitti con altre priorità, siano esse tecniche, estetiche, politiche. Di conseguenza, oggi un progettista che non tiene conto dell’accessibilità non viene visto come uno che ha fatto qualcosa di estremamente grave, di inaccettabile per la sua professione. Dobbiamo iniziare a pensare che creare barriere è come progettare un ponte che poi crolla, e mettere a punto tutti i passaggi della filiera, per impedire o almeno limitare al massimo la possibilità di errori: formazione obbligatoria dei progettisti, presenza di esperti di accessibilità in ogni comune e raccordo costante con le associazioni, organismi di controllo e sanzioni applicate su chi progetta ed esegue lavori in modo errato».
«Un’altra questione chiave – sottolinea ancora – è mettersi d’accordo su cosa intendiamo per accessibilità. La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità chiarisce che l’accesso deve essere garantito «su base di eguaglianza con gli altri»: questo è un cambio di approccio rispetto alle norme sull’accessibilità abitualmente tenute come riferimento dai progettisti. Il punto non è offrire alle persone con disabilità un angolino dove possono arrivare, possibilmente senza disturbare troppo, ma garantire loro un’esperienza di pari qualità: senza complicazioni aggiuntive per ottenere un posto a un concerto, senza attese sotto la pioggia finché non si trova la rampa mobile, senza dover chiedere aiuto ad altri per comprare un biglietto del treno, perché la app non è accessibile. Accessibilità non è “farci arrivare lì in qualche modo purché sia”, ma farci avere un’esperienza altrettanto facile, snella e piacevole di quella degli altri, almeno per ciò che dipende dalle caratteristiche ambientali».
Provando per un istante a immaginare una società pienamente accessibile, chiedo a Crippi quali cambiamenti concreti auspicherebbe. «In una società pienamente inclusiva – dice -, l’accessibilità non sarebbe un’aggiunta facoltativa, ma un principio di base della progettazione di spazi e servizi. Non sarebbe accettabile svolgere un’attività aperta al pubblico in un posto non accessibile, così come non sarebbe accettabile aprire un ristorante o un museo in un edificio senza il tetto o l’elettricità. Studiare l’accessibilità sarebbe obbligatorio per architetti e ingegneri, ma anche per web-designer, programmatori, organizzatori di eventi, personale sanitario eccetera. E soprattutto, le persone con disabilità non verrebbero più viste come “eccezioni” da gestire tramite soluzioni speciali, ma come soggetti che potrebbero attraversare uno spazio al pari di chiunque altro. Come persone saremmo, insomma, previste».
Ilaria Crippi, tuttavia, ci invita a ripensare non solo le strutture fisiche, ma anche i modelli culturali che definiscono chi è incluso e chi no. Un aspetto cruciale del libro, infatti, è l’approccio intersezionale, con cui esplora come la discriminazione per disabilità si intrecci con altre forme di oppressione, come quelle basate sul genere e sull’orientamento sessuale. L’Autrice analizza come questi intrecci possano amplificare le difficoltà, ma anche offrire una prospettiva unica e creativa per immaginare spazi più inclusivi e pratiche più giuste. Si tratta di un approccio che rende il libro non solo una denuncia delle disuguaglianze esistenti, ma anche una proposta di trasformazione culturale profonda.
Il saggio si rivolge a un pubblico ampio: professionisti come architetti, designer e progettisti, ma anche attivisti, persone con disabilità e chiunque sia impegnato nel campo della giustizia sociale. Crippi vi utilizza un linguaggio diretto e coinvolgente, capace di alternare analisi teoriche a esempi concreti, rendendo il testo accessibile e stimolante anche per chi si avvicina a questi temi per la prima volta. La sua narrazione non si limita soltanto a denunciare l’abilismo, ma propone strumenti critici per riconoscerlo e superarlo, invitando a immaginare un mondo in cui gli spazi siano pensati per tutti, senza gerarchie implicite tra i corpi.
Lo spazio non è neutro è quindi un’opera importante che spinge a riconsiderare le fondamenta culturali della nostra società, evidenziando quanto sia necessario un cambiamento radicale per costruire una realtà veramente inclusiva.
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