Ho terminato da poco la lettura del libro Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte** (Erickson, 2011) e mi sento di raccomandarlo caldamente a tutti coloro che sono rimasti colpiti (o interessati, preoccupati, incuriositi…) dalle prime anticipazioni di stampa su questa ricerca firmata dall’Associazione TreeLLLe e dalla Caritas Italiana, con il sostegno della Fondazione Giovanni Agnelli.
Bilancio e proposte, dunque, dice il titolo: personalmente sono stato molto favorevolmente colpito dal bilancio, assai meno dalle proposte. Ho trovato infatti i primi capitoli del libro – quelli dedicati appunto al bilancio – molto interessanti, e condivisibili, perché finalmente troviamo analizzate in modo chiaro, senza ideologie, le pesanti criticità di questo nostro sistema di integrazione.
Non possiamo continuare a raccontarci che abbiamo le migliori leggi del mondo, che se qualcosa non va è solo colpa dei tagli, che per risolvere gli eventuali problemi basta organizzare tanti bei corsi di formazione… In realtà, dice la ricerca, abbiamo messo in piedi un sistema costoso e complesso, che assorbe enormi risorse, ma non è in grado di “garantire” una qualità almeno decorosa del servizio, per cui accanto a ottimi esempi di integrazione, continuano a sopravvivere, e ad essere sostanzialmente tollerati, indecorosi disservizi.
La prima criticità che si denuncia deriva dalla rigidità del nostro sistema di integrazione che ha individuato di fatto come unica, o quasi, risposta alla disabilità nella scuola la figura dell’insegnante di sostegno. È il «binomio indissolubile», come lo chiama la ricerca (p. 136), che caratterizza pesantemente il modello italiano di integrazione, una specie di simbiosi «insegnante di sostegno + alunno con disabilità “certificato”». Questa coppia inseparabile assorbe quasi tutte le risorse destinate all’integrazione, non solo economiche, ma anche organizzative e specialistiche ed è alla base di un ampio consenso.
Eppure, è evidente che gli alunni con disabilità non sono tutti uguali e che la calibratura dell’intervento non può dipendere solo da fattori di tipo quantitativo (più o meno ore di sostegno alla settimana). Ci sono effettivamente alunni che non hanno alcun bisogno di un insegnante vicino, ma di altre figure che consentano loro, ad esempio, di poter usufruire di quello che l’insegnante di classe spiega per tutti. Pensiamo ai ciechi e ai sordi, per i quali una figura di mediatore sarebbe molto più utile, almeno nella scuola secondaria.
Ciechi e sordi sono pochi (anche se ovviamente quando si parla di disabilità si parla sempre di minoranze), ma assai numerosi, come dimostrano tutte le statistiche, sono gli alunni disabili con difficoltà prevalentemente scolastiche, lievi ritardi, problemi di apprendimento di vario tipo, e per loro sarebbe molto più efficace poter disporre di interventi diversificati, anche nel tempo.
Ad esempio, poter organizzare un percorso che porti a un potenziamento del metodo di studio e in questo caso un intervento intensivo, ma di breve durata (due-tre mesi), sarebbe molto più vantaggioso e meno dispendioso rispetto a un insegnante assunto, anche se per poche ore, “solo per lui”, per tutto l’anno scolastico. Oppure potremmo pensare a delle attività pomeridiane, al recupero per piccoli gruppi, a tanti altri piccoli interventi che il sistema attuale – basato sull’assunzione di alcune persone con orario settimanale fisso, identico da settembre a giugno – assolutamente non consente.
Ma anche per gli alunni più gravi in tanti casi ci chiediamo se sia effettivamente l’insegnante di sostegno la figura più adeguata o non sia meglio, piuttosto, un educatore o qualcuno che sappia intervenire, ad esempio, anche nella gestione dei problemi di comportamento.
L’automatismo che porta dalla certificazione alla presenza in classe di un insegnante di sostegno è probabilmente anche alla base dell’estensione della domanda, e questa è un’altra delle criticità che vengono ben descritte nella pubblicazione, anche con puntuali statistiche.
Il numero degli alunni “certificati” – ossia formalmente dichiarati disabili – cresce ogni anno e oggi supera le 200.000 unità. C’è uno slittamento del significato di “persone con disabilità” verso un generico disagio psicosociale, «una deriva già presente fin dagli anni 80 quando viene messa in evidenza la confusione tra disagio ed handicap vero e proprio. In quest’ottica ogni rapporto educativo difficile può diventare un handicap» (p. 140).
La ricerca descrive poi nel quarto capitolo (I nodi critici del modello attuale) diverse altre criticità, ma personalmente ne segnalerei soprattutto una, veramente importante e determinante: l’assenza di valutazione dei processi e dei risultati.
Nessuno, infatti, sembra in grado di valutare la qualità dell’intervento scolastico per i nostri alunni con disabilità, né a livello generale, ma purtroppo neppure a livello diretto personale. A livello generale non c’è nulla. Constatano amaramente gli autori: «Nell’ormai lungo periodo di attuazione delle indicazioni e delle norme sull’integrazione, non abbiamo alcuna ricerca nazionale che abbia almeno tentato una valutazione qualitativa e sistematica di questo grande obiettivo educativo e sociale » (p. 158).
Ma anche a livello del singolo alunno, la valutazione dei risultati degli interventi educativi è assolutamente inadeguata. Essa, giustamente, va riferita al piano personalizzato e non può quindi basarsi su prove standard o generalizzate e tuttavia, quello che vediamo tante volte, purtroppo, è l’assoluta autoreferenzialità di un educatore che da solo si pone degli obiettivi (in molti casi anche generici) e da solo valuta i risultati: è questa la prassi abituale quando viene meno il lavoro collegiale (e succede spesso) e tutto viene delegato all’insegnante di sostegno, e quando i servizi socio-sanitari appaiono lontani o disattenti (e per vari motivi anche questo, purtroppo, succede spesso).
Che fare dunque per correggere questa situazione? Il quinto capitolo del libro è interamente dedicato alle proposte (Linee progettuali e proposte per un nuovo approccio all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità), proposte senza dubbio coraggiose e innovative, ma che suscitano, per quel che mi riguarda, diverse perplessità.
Colpisce innanzitutto la sostanziale abolizione della figura dell’insegnante di sostegno. Non è una riorganizzazione o rivisitazione di ruolo e funzioni, ma proprio l’abolizione. La stragrande maggioranza degli attuali insegnanti di sostegno, circa l’80%, tornerebbe a fare l’insegnante di classe. Potrebbe essere un supporto in più per l’integrazione, visto che si afferma che le risorse complessive non verrebbero tagliate, ma diventerebbe un’altra cosa. Il restante 20% si trasformerebbe invece in una figura specializzata, ma non si tratterebbe più di un insegnante di sostegno. Anzi, non sarebbe più neppure “un insegnante”, perché viene detto espressamente che non dovrebbe più avere alcun contatto diretto con i ragazzi. Avrebbe il compito soprattutto di formare e supervisionare le varie componenti scolastiche, fornendo loro competenze chiave per un’efficace didattica dell’integrazione (p. 195).
La prima osservazione che viene in mente è che qui, come si dice, si sta “buttando via il bambino con l’acqua sporca”. Se c’è qualcosa che non funziona in questa figura professionale è, come abbiamo visto, nella rigidità dell’intervento, nel fatto che per ogni esigenza di integrazione la scuola possa intervenire solo fornendo insegnanti di sostegno, potendo calibrare unicamente il numero delle ore settimanali. Ma se è un errore basare tutto su questa unica figura, è un errore anche liquidarla in questo modo, ignorando che in molte situazioni questo tipo di organizzazione funziona egregiamente, mentre non si vedono alternative credibili o praticabili.
Si propongono i CRI (Centri Risorse per l’Integrazione), che potrebbero sì svolgere un ruolo molto importante nell’organizzazione e nella verifica del servizio, apparendo però molto alto il rischio che vadano di fatto a deresponsabilizzare le scuole, togliendo loro la gestione operativa del processo di integrazione.
Anch’io vedo in un serio supporto territoriale una possibile soluzione al problema della qualità dell’integrazione, ma non certo proponendo un servizio che si sostituisca alle scuole, bensì che le affianchi, le sostenga, e possa avere anche un ruolo di “controllo” nell’aiutarle a valutare i processi di integrazione e i risultati. Ma per far questo non c’è assolutamente bisogno del 20% degli insegnanti di sostegno, né di una struttura organizzativa complessa e dispendiosa, con dirigenti, segreteria, tecnici e quant’altro, come indicato nella proposta.
Io credo che solo con l’1% degli attuali insegnanti di sostegno, massimo il 2%, si potrebbe organizzare un’attività di supporto molto utile ed efficace, intervenendo con un servizio di consulenza puntuale dove ci sono i problemi più specifici, ad esempio per gli alunni con autismo, con cecità o dove si fa uso di tecnologie specifiche o quant’altro, con una generica supervisione per gli altri.
La rigidità della figura dell’insegnante di sostegno si può superare solo consentendo alle scuole di organizzarsi anche in modo diverso, ma questa libertà può comportare rischi elevati per la qualità del servizio. Per questo diventa importante una struttura esterna che possa intervenire su queste scelte, garantendo il rispetto di criteri condivisi di qualità.
Altro punto molto stimolante della proposta è l’abolizione degli effetti scolastici della certificazione sanitaria (p. 196), con la certificazione, cioè, che non genererebbe più automaticamente organico aggiuntivo per le scuole e come adesso. Ogni certificato, quindi, garantirebbe almeno qualche ora di sostegno in più e le risorse – che non sarebbero più solo “sostegno” – verrebbero definite in base ai bisogni educativi, facendo ovviamente tornare in primo piano il ruolo di programmazione del CRI, perché sarebbe impensabile che ogni scuola potesse definire autonomamente i propri bisogni. Toccherebbe quindi a questa struttura territoriale individuare per ogni scuola – in base ai bisogni – la quantità e la tipologia di risorse da assegnare.
Insisto: non solo la quantità, come adesso, ma anche la tipologia, perché non sempre c’è bisogno di un insegnante di sostegno (senza però arrivare all’errore opposto e abolire tutti gli insegnanti di sostegno!).
Ma il CRI interverrebbe poi anche nella formazione, se necessario, e offrirebbe il suo supporto nella progettazione educativa, soprattutto con le disabilità più impegnative. Aiuterebbe quindi a definire obiettivi educativi e didattici il più possibile precisi, concreti, misurabili, superando l’attuale autoreferenzialità della singola scuola e rendendo possibile, almeno in teoria, un’effettiva valutazione dei risultati anche su larga scala. E solo questo sarebbe un grandissimo passo avanti.
In sintesi, credo sia molto importante, e positivo, che si inizi a parlare seriamente di una riforma del nostro sistema di integrazione. Salviamo i princìpi, l’inclusione soprattutto, ma interveniamo in modo deciso sull’efficienza, l’efficacia e quindi la qualità del servizio.
Abbiamo tanti bravissimi insegnanti di sostegno, ma anche, purtroppo, troppe situazioni decisamente penose, con insegnanti che “vivono alla giornata”, lavorando su obiettivi inconsistenti (o inesistenti), nella certezza che in ogni caso tutto quello che fanno, o non fanno, non verrà valutato da nessuno.
Discutere di queste cose, come hanno iniziato a fare l’Associazione Treellle, la Caritas e la Fondazione Giovanni Agnelli, fa certamente bene agli alunni con disabilità e alla scuola intera.
*Insegnante di scuola secondaria di primo grado, referente per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità per l’Ufficio Scolastico Provinciale di Vicenza, è esperto nel settore dell’uso didattico degli ausili informatici.
**Il libro contiene l’omonimo rapporto, presentato e discusso il 14 giugno scorso a Roma, curato dall’Associazione TreeLLLe e della Caritas Italiana, con il sostegno della Fondazione Giovanni Agnelli. «Si tratta di un testo – come ha scritto il vicepresidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) Salvatore Nocera – che propone una rivoluzionaria riforma dell’attuale sistema di inclusione scolastica in Italia, prendendo le mosse dalle numerose carenze attuali in termini di mancato coordinamento di tutti gli interventi, dell’eccessiva delega ai docenti per il sostegno, della deriva giudiziaria per l’assegnazione delle ore di sostegno e della mancata valutazione di efficacia e di efficienza dell’intero processo». Se ne legga nel nostro sito anche cliccando qui.