Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità)

di Donata Scannavini
«Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale – scrive Donata Scannavini -. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, ma vorrei qui cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza personale»

Donna con disabilità in chiesaHo 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, l’Annunciazione di Milano, non avendo io mai cambiato abitazione.
Ripensando alla mia esperienza in questo àmbito, devo in primo luogo sottolineare che il fatto di essere sempre stata nella stessa parrocchia mi ha senza dubbio facilitato le cose, nel senso che la maggior parte dei parrocchiani mi conosce da sempre, mi ha vista crescere e frequentare la parrocchia stessa, prima con i miei genitori, poi da sola o con mio marito. Mi sento quindi parte della parrocchia e noto con piacere che le persone mi aiutano spontaneamente, per esempio ad entrare in Chiesa o quando devo andare a fare la Comunione.
Anche con i sacerdoti che negli anni si sono succeduti non ho avuto particolari problemi, ho avuto anche qualche incarico, nel senso che per parecchi anni ho fatto parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale.

Da queste prime righe sembra che la mia esperienza nella Chiesa sia stata sempre idilliaca, ma non è proprio così. Specie da bambina, infatti, benché i miei genitori mi esortassero a farlo, non amavo frequentare l’oratorio, percepivo nelle altre bambine e anche un po’ nelle suore, che gestivano l’oratorio stesso, una sorta di compatimento. Non venivo realmente inserita nel gruppo, non ero partecipe dei giochi e delle attività che venivano proposte – che magari avrei potuto fare anch’io con modalità diverse – ma rimanevo ai margini, con la netta sensazione che quando e chi si rivolgeva a me lo faceva per “fare un’opera buona verso la bambina handicappata”, come si diceva a quei tempi.
La situazione è nettamente migliorata durante l’adolescenza; anche grazie a una suora molto attenta a sostenermi in un periodo per me molto difficile – a 17 anni ho perso mio papà – mi sono inserita nel gruppo giovani e lì sì che sentivo di farne davvero parte, aiutata dove avevo necessità, ma per il resto considerata come tutti gli altri.

Questa in breve è la mia esperienza di Chiesa, dove comunque ho dato per scontato che l’elemento più importante è il cammino di fede che l’appartenenza a una comunità ecclesiale permette di fare e che per me è stato ed è fondamentale.
Vorrei ora cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza.

È innegabile (comunque negli anni, anche solo in vacanza, mi è capitato di frequentare altre comunità) che esista nella Chiesa una visione pietistica e inferiorizzante della disabilità e di coloro che ne sono portatori, che, a mio parere, rispecchia pari pari quella della società civile; non vedo cioè una sostanziale differenza. Magari cambiamo le modalità con cui tali visioni si giustificano e si esplicano, per cui in ambito ecclesiale, ad esempio, si vede nella persona con disabilità qualcuno predestinato (non si sa bene perché) a “portare la croce” e quindi ad essere “corredentore del mondo” con Cristo, senza neanche chiedersi se alla persona stessa stia bene esserlo o se viceversa non abbia nessuna intenzione di aderire a questo presunto piano divino.
Come nel mondo civile, però, anche in quello ecclesiale le cose stanno lentamente cambiando, banalmente anche solo per il fatto che sono sempre più numerose le persone con disabilità che frequentano gli ambienti della società civile ed ecclesiale.
Ciò che a mio parere andrebbe fatto o almeno si dovrebbe cercare di fare in àmbito ecclesiale, è portare avanti in parallelo il discorso teologico e quello pastorale. Infatti è indubbia la necessità di scalfire tutte quelle errate convinzioni, come ha sottolineato molto bene Justin Glyn nel suo saggio “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), che hanno giustificato a livello teologico questa sorta di divisione tra “noi” (senza disabilità, mi permetto di aggiungere “forse”) e “loro” (con disabilità): siamo infatti tutti immagine di Dio e la disabilità non offusca quest’immagine. A mio parere, però, è altrettanto urgente lavorare a livello pastorale e quando parlo di “livello pastorale”, non intendo solo e tanto trovare delle modalità per far partecipare tutti e tutte alla varie funzioni o al catechismo, quanto fare in modo che ognuno si senta parte attiva della comunità, che possa trovare dei propri spazi e ruoli in cui, se lo desidera, mettersi egli stesso a servizio degli altri e della comunità.
Questo, a mio parere, potrebbe avere delle ricadute anche – mi si passi l’espressione – a livello teologico; se io vedo infatti una persona con disabilità impegnata in un servizio in parrocchia secondo le proprie possibilità e capacità, mi verrà più difficile considerarla solo come “un soggetto da aiutare”, in qualche modo “diverso dagli altri”.
Il cammino da fare in questo senso è ancora lungo, ritengo però che ci siano ormai delle buone basi per arrivare anche nella Chiesa a quel definitivo “noi” che includa tutti i figli di Dio.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.
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