Il dibattito sui caregiver: considerare anche alcuni aspetti di natura molto pratica

di Maurizio Ferrari
«Oggi – scrive Maurizio Ferrari – il tema dei caregiver familiari è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a una norma che ne riconosca l’imprescindibile ruolo sociale, disciplinando le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. E tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali»

Caregiver familiare insieme a persona con disabilitàI caregiver familiari di persone con disabilità complesse hanno un ruolo sociale imprescindibile. Nel senso che la nostra società, semplicemente, non può farne a meno. E nessun caregiver familiare che conosco vuole abdicare a questo ruolo, ma ritiene a giusto titolo di dover essere adeguatamente riconosciuto e sostenuto.
Sono il padre di una giovane donna con autismo grave (“livello 3”, come dicono le classificazioni in vigore), che ha da poco intrapreso la strada della vita indipendente – ma con alti sostegni e protezioni – e per la quale mia moglie è stata caregiver “titolare esclusiva” per oltre 30 anni. Io ho fatto la mia parte come “caregiver di riserva”, ma il sistema retributivo che tuttora prevale nel nostro Paese ha indotto la nostra coppia genitoriale a fare una scelta quasi obbligata: papà guadagna di più, quindi lavorerà a tempo pieno; la mamma guadagna di meno, quindi lavorerà a tempo parziale per potersi dedicare alla figlia. Una scelta che ancora oggi provoca in noi dubbi e turbamenti, ma sulla quale non possiamo più fare nulla. Mia moglie si è dedicata all’impegno di cura con amore e abnegazione assoluti, nel profondo silenzio di un contesto sociale che dà per scontato ogni sforzo che un genitore può e deve produrre per il bene di un figlio con disabilità grave.
Il dibattito sulla figura del caregiver familiare è infatti molto recente, fino a una decina di anni fa non ne parlava nessuno. Nulla più che una questione privata, da risolvere nel nucleo familiare. Oggi il tema è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a un Disegno di Legge organico che inquadri opportunamente la figura del caregiver familiare, ne riconosca il ruolo sociale e, soprattutto, disciplini le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. Con tutte le cautele del caso…

Tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali. Che ne sarà, ad esempio, di una persona che è stata caregiver per tutta la vita, o quasi, e che si ritrova oggi a essere considerata “ex caregiver”? Perché il figlio o la figlia ha intrapreso, in un modo o nell’altro, la strada della residenzialità uscendo quindi dalla convivenza con i genitori? In altri termini, i caregiver che giungono al termine del loro “servizio permanente effettivo” appena prima che una legge sancisca il giusto riconoscimento e sostegno del loro ruolo, finiranno con un pugno di mosche in mano? Continueranno a essere invisibili? Personalmente non credo che un Disegno di Legge degno di questo nome possa trascurare questo aspetto. E ho una mia idea in proposito. Ci arrivo andando un po’ in verticale nel ragionamento.
A mio parere, un corretto sistema di sostegni deve poter agire proficuamente quanto meno su due leve: conciliazione lavoro-vita-cura e tutela previdenziale.

Riguardo alla prima leva, ci sono molte cose che si possono fare: flessibilità degli orari, estensione del lavoro da remoto, job sharing, welfare contrattuale. Non mi dilungo perché in rete è possibile recuperare i materiali della normativa vigente e delle Proposte di Legge sulla figura del caregiver familiare, con tutte le ipotesi sul tavolo in tema di conciliazione lavoro-vita-cura.
Colpevolmente più scarse sono le proposte inerenti la seconda leva, ovvero la tutela previdenziale. Nella maggior parte dei casi, infatti, leggo di contributi figurativi a carico dello Stato, equiparati a quelli da lavoro domestico, nel limite complessivo di cinque anni, cumulabili a quelli eventualmente versati per attività lavorative di qualsiasi natura. Mi sembra un’ipotesi alquanto riduttiva, buona al massimo per sanare eventuali buchi contributivi.
Ma la questione è molto più complessa. Pensiamo infatti ai cosiddetti “ex caregiver” a cui facevo cenno prima, che hanno lavorato per una vita dovendosi anche prendere cura del congiunto con disabilità complessa e che non riescono ad andare in pensione anticipatamente perché la convivenza con il figlio con disabilità è appena terminata, oppure, quando ci arrivano, si ritrovano con un trattamento pensionistico da fame perché hanno sempre dovuto lavorare part-time.
So che i puristi si scandalizzeranno, perché più volte ho avvertito una sorta di rifiuto ad accostare l’impegno di cura, totalizzante e umanamente pervasivo, alla categoria del “lavoro”, ma in tutta franchezza preferisco guardare al risultato concreto, nel momento in cui questo sia in grado di dare piena dignità e tutela al caregiver o ex caregiver in questione.

In poche parole, per non escludere nessuno, ritengo che il caregiver familiare dovrebbe essere equiparato a chi svolge lavori usuranti, purché abbia svolto per almeno 10 anni (15? 20? Se ne può discutere…) l’attività di cura di una persona con disabilità grave. Come tale, il caregiver familiare avrebbe diritto alla pensione anticipata relativa appunto ai lavori usuranti: 41 anni e 10 mesi di contributi le donne, 42 anni e 10 mesi di contributi gli uomini, indipendentemente dall’età anagrafica.
Allo stesso modo, avrebbe diritto all’APE (Anticipo Pensionistico) Sociale (63 anni e 5 mesi, con almeno 30 anni di contribuzione), purché venga resa strutturale e il requisito di cura/assistenza cambi in questo modo: non più «caregiver che al momento della richiesta assistono da almeno 6 mesi il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità», bensì «caregiver che hanno assistito per almeno 10 anni (15? 20?) il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità».

Questioni venali, terra terra, dirà qualcuno. Ne siamo sicuri? Concordo sulla necessità di una presa di coscienza collettiva e di una profonda qualificazione culturale del dibattito, ma la causa dei caregiver familiari si gioca anche e soprattutto sui punti di caduta, non solo sugli inquadramenti teorici, per quanto rilevanti possano essere.
Chi è disposto a prendere in esame queste proposte? O a farne di alternative?

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