«L’evento del 25 giugno al CNEL sull’amministrazione di sostegno – scrive Vincenzo Falabella in questo suo approfondimento – è stato l’occasione per lanciare una proposta ambiziosa: trasformare l’amministrazione di sostegno stessa da strumento di sostituzione a strumento di condivisione, dove la persona con disabilità non sia oggetto di decisioni, ma soggetto attivo del proprio progetto di vita. E in questo gli Enti di Terzo Settore possono avere un ruolo di primo piano»
Il 25 giugno presso la sede del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) si è tenuto un evento di grande rilevanza sociale e giuridica dal titolo Amministrazione di Sostegno e Terzo Settore. Sinergie per un Sistema Integrato di Protezione Giuridica e Sociale, organizzato dall’Osservatorio Inclusione e Accessibilità dello stesso CNEL, coordinato da chi scrive, in collaborazione con la Fondazione Terzjus, iniziativa che grazie anche alla partecipazione di autorevoli esponenti istituzionali [se ne legga già ampiamente in Superando, N.d.R.], ha rappresentato un’occasione unica per riflettere su uno degli istituti più innovativi e al tempo stesso controversi del nostro ordinamento, quale l’amministratore di sostegno [a quest’ultimo Superando sta recentemente dedicando molto spazio, come si può leggere ad esempio a questo e a questo link, N.d.R.].
Durante l’incontro è stato anche presentato il rapporto di ricerca Terzo Settore e Amministrazione di Sostegno. Questioni, scenari e prospettive, un “Quaderno di Terzjus” prodotto su incarico della Fondazione Ravasi Garzanti e curato da Antonio Fici, noto giurista esperto in Diritto del Terzo Settore e tematiche sociali e da Mario Renna, studioso con una consolidata esperienza nel campo delle politiche di welfare e inclusione (il rapporto si può richiedere accedendo a questo link).
Si tratta di un lavoro rigoroso e atteso, che offre una riflessione approfondita su uno strumento giuridico di grande valore sociale, ma ancora poco sfruttato nel suo pieno potenziale. Grazie alla competenza accademica del professor Fici e all’esperienza operativa del professor Renna, il documento non si limita a una mera analisi normativa, ma offre spunti concreti per migliorare l’applicazione dell’amministrazione di sostegno, con particolare attenzione al ruolo degli enti non profit.
Strumento utile non solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti coloro che credono in un diritto più vicino alle persone, lo studio analizza con equilibrio sia le criticità che le opportunità, proponendosi come punto di riferimento per istituzioni, operatori del diritto e attori sociali. Attraverso dati, casi concreti e prospettive di riforma, vi vengono accesi i riflettori su un tema delicato, dove la tutela delle persone vulnerabili si intreccia con le sfide applicative e culturali. Più che un semplice documento, quindi, si può parlare di un invito al dialogo, un’occasione per ripensare l’amministrazione di sostegno non come mero adempimento, ma come leva per l’inclusione e l’autonomia della persona, grazie a una sinergia più stretta tra mondo giuridico e Terzo Settore. Il tutto all’insegna di un confronto quanto mai necessario, perché proteggere “i fragili” significa, prima di tutto, costruire risposte insieme.
Tra analisi e proposte, emerge dunque una visione chiara: norme più accessibili, formazione diffusa e reti territoriali solide possono trasformare un istituto nobile in una vera opportunità di vita.
L’amministratore di sostegno tra innovazione e vecchi paradigmi
Introdotto nel 2004 con la Legge 6/04, l’amministratore di sostegno avrebbe dovuto segnare una svolta epocale nel modo di concepire la tutela giuridica delle persone con disabilità, abbandonando definitivamente il modello paternalistico dell’interdizione e dell’inabilitazione, per abbracciare una logica di sostegno alla capacità decisionale. Eppure, a quasi vent’anni dalla sua introduzione, l’amministrazione di sostegno rischia di essere snaturata dalla prassi applicativa. Troppo spesso, infatti, i tribunali – anziché privilegiare la volontà e l’autodeterminazione della persona – finiscono per concentrarsi quasi esclusivamente sulla tutela del patrimonio, trasformando quello che dovrebbe essere uno strumento di emancipazione in una sorta di “tutela mascherata”.
La deriva patrimonialistica e il tradimento dello spirito originario
All’articolo 408 il Codice Civile è chiaro: l’amministratore di sostegno deve agire «nel rispetto della volontà della persona», intervenendo solo laddove strettamente necessario e sempre in modo proporzionato. Nella realtà, però, accade frequentemente che i giudici – spesso per eccesso di cautela o per carenza di informazioni – attribuiscano all’amministratore di sostegno poteri troppo ampi, arrivando in alcuni casi a sostituirsi completamente alla persona nelle decisioni più importanti della sua vita.
Nato dunque per tutelare, l’istituto si è trasformato, in una serie di casi, in uno strumento di controllo e coercizione, svuotando completamente la volontà della persona che dovrebbe invece proteggere. Emblematici, ad esempio, sono casi come quello del professor Carlo Gilardi, denunciato anche dal programma televisivo Le iene, come quello di Carlo, un uomo con disabilità fisica, ma perfettamente capace di intendere e di volere, al quale fu stato imposto un amministratrore di sostegno contro la sua volontà, privandolo della libertà di gestire i propri soldi e di decidere della propria vita. O quello di Simona, una donna autosufficiente che dopo una controversa nomina dell’amministratore, si è vista negare persino la possibilità di scegliere dove vivere e con chi relazionarsi. Questi casi non sono isolati: sempre più spesso, infatti, l’amministratore di sostegno viene utilizzato come uno strumento di interdizione mascherata, dove la persona viene sottoposta a un regime di limitazioni sproporzionate, senza che vi sia una reale necessità.
Spesso, dietro queste situazioni, si nascondono conflitti familiari, interessi economici o semplicemente un’applicazione superficiale della legge da parte dei tribunali, che nominano amministratori senza valutare adeguatamente le reali capacità residue della persona.
Si tratta di una deriva che contraddice platealmente i princìpi sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), la quale all’articolo 12 stabilisce che gli Stati devono riconoscere «la piena capacità giuridica delle persone con disabilità su base di uguaglianza con gli altri», garantendo che i sistemi di sostegno rispettino «la volontà, le preferenze e i diritti dell’individuo».
La Convenzione ONU, dunque, imporrebbe di ascoltare la volontà dell’individuo prima di qualsiasi intervento, ma la realtà è che, in troppi casi, l’amministratore di sostegno viene deciso sulla persona, senza la persona. Questi abusi tradiscono lo spirito originario dell’istituto e rendono urgente una riforma che ponga fine a queste distorsioni, restituendo voce e autonomia a chi rischia di perderle proprio in nome di una protezione che troppo spesso si trasforma in oppressione.
Il contrasto tra le nobili finalità dell’amministrazione di sostegno e la concreta applicazione di essa emerge con drammatica evidenza dall’esame della giurisprudenza e dei dati recenti: va pertanto ribadito come quello che doveva essere uno strumento di emancipazione rischia spesso di trasformarsi in un meccanismo di controllo, svuotando di significato il principio cardine dell’autodeterminazione. In tal senso
Un caso deciso nel 2021 dal Tribunale di Roma rappresenta un emblematico spartiacque: si tratta infatti di una pronuncia che ha revocato un provvedimento di amministrazione di sostegno imposto senza adeguata valutazione delle reali capacità dell’interessato, fissando un principio chiaro: l’amministrazione di sostegno non può e non deve configurarsi come una forma mascherata di interdizione. In quella vicenda il giudice romano ha sottolineato come la misura debba sempre mantenere un carattere proporzionale e rispettoso della volontà della persona, specialmente quando emergono conflitti familiari che potrebbero distorcere la finalità dell’istituto.
E tuttavia, i numeri raccontano una realtà preoccupante! Secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, infatti, nel 65% dei casi l’amministrazione di sostegno viene utilizzata principalmente come strumento di gestione patrimoniale, trascurando completamente la dimensione esistenziale e relazionale della persona. Una deriva che tradisce lo spirito originario della legge, facendo emergere che ben un terzo delle segnalazioni ricevute dagli enti non profit riguarda provvedimenti emessi senza nemmeno incontrare la persona interessata, in palese violazione, pertanto, non solo della legge nazionale ma anche, come detto, dei princìpi sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Questa preoccupante tendenza rivela un sistema che troppo spesso:
– privilegia la logica della sostituzione decisionale rispetto a quella del sostegno;
– trascura il dovere di ascoltare la persona e di valutarne le effettive capacità residue;
– finisce per strumentalizzare uno strumento nobile per finalità estranee alla tutela dei diritti.
Un urgente cambio di paradigma
Di fronte allo scenario che abbiamo tratteggiato, diventa quindi urgente un cambio di paradigma che:
1. rafforzi le garanzie procedurali, a partire dall’obbligo di ascolto della persona interessata;
2. introduca verifiche periodiche sull’effettiva necessità della misura;
3. promuova una formazione specifica per tutti gli operatori coinvolti, dai giudici tutelari agli amministratori stessi.
È in questo contesto che il Terzo Settore può e deve svolgere un ruolo determinante. Grazie alla sua vicinanza al territorio, alla sua capacità di ascolto e alla sua naturale vocazione alla tutela dei diritti, il mondo del non profit rappresenta infatti l’interlocutore ideale per ripensare l’istituto dell’amministrazione di sostegno in un’ottica realmente inclusiva, anche alla luce del Decreto Legislativo 117/17 (Codice del Terzo Settore) che ha fornito un quadro normativo solido per valorizzare il ruolo degli Enti del Terzo Settore nella gestione di servizi di interesse generale, tra cui rientra a pieno titolo l’amministrazione di sostegno.
In particolare, la legge su richiamata definisce criteri trasparenti per l’accreditamento degli Enti di Terzo Settore, garantendo standard qualitativi elevati, promuove la sussidiarietà orizzontale, favorendo collaborazioni strutturate tra enti pubblici e privati no-profit e istituisce il RUNTS (Registro Unico del Terzo Settore), strumento prezioso per mappare le organizzazioni idonee a svolgere funzioni di amministrazione di sostegno.
E tuttavia, nonostante questo quadro favorevole, l’effettivo coinvolgimento del Terzo Settore nella gestione degli amministratori di sostegno resta ancora troppo marginale.
Ma perché scegliere un Ente di Terzo Settore come amministratore di sostegno? Il report firmato da Noci e Renna fornisce su questo una risposta chiara, una Proposta di Legge che rappresenta un importante passo avanti nella valorizzazione del Terzo Settore come attore qualificato nel sistema di protezione delle persone fragili. L’introduzione di un elenco dedicato presso il Ministero della Giustizia garantisce infatti trasparenza, qualità e controllo degli enti che assumono incarichi così delicati come appunto quello dell’amministratore di sostegno.
Il testo normativo proposto riesce pertanto a coniugare esigenze di professionalità e continuità dell’assistenza con i principi di sussidiarietà e solidarietà propri del Terzo Settore. In particolare, l’obbligo per gli Enti di individuare un referente interno assicura un punto di riferimento stabile per il giudice tutelare, aumentando l’efficienza e la personalizzazione dell’intervento.
Infine, l’integrazione della materia tra le attività di interesse generale del Codice del Terzo Settore rafforza il riconoscimento giuridico e sociale di questa funzione, aprendo anche a nuove opportunità di collaborazione tra pubblico e privato sociale.
Come evidenziato in precedenza, l’amministratore di sostegno rappresenta una misura di protezione flessibile e personalizzabile, pensata per rispondere alle specifiche esigenze della persona con disabilità, ma nella prassi emergono spesso situazioni complesse in cui le famiglie, pur con tutta la loro dedizione, possono trovarsi in difficoltà nel gestire i vari aspetti legati al sostegno del proprio congiunto. È in questi casi che gli Enti di Terzo Settore possono rappresentare una risorsa preziosa, non in contrapposizione alla famiglia, ma come supporto aggiuntivo e specializzato.
Un ruolo di affiancamento, non di sostituzione
Gli Enti di Terzo Settore non devono essere visti come “sostituti” della famiglia, bensì come alleati in un percorso condiviso. Mentre i familiari conoscono profondamente la persona, le sue abitudini e i suoi affetti, gli enti non profit possono offrire:
° Competenze tecniche e multidisciplinari: avvocati, assistenti sociali, psicologi ed educatori formati sui temi della disabilità e della capacità giuridica possono integrare il lavoro della famiglia, soprattutto in òmbiti complessi (questioni legali, gestione patrimoniale, rapporti con i servizi socio-sanitari).
° Neutralità e mediazione: in situazioni di conflitto familiare o quando le decisioni richiedono un approccio super partes, un Ente di Terzo Settore può garantire maggiore oggettività, evitando che dinamiche personali condizionino le scelte a scapito della persona con disabilità.
Maggiore struttura e continuità nel tempo
Le famiglie, per quanto amorevoli e presenti, possono trovarsi in difficoltà per:
° Fragilità personali: un genitore anziano potrebbe non essere in grado di seguire tutte le incombenze legali e burocratiche.
° Impreparazione giuridica: molte famiglie non conoscono appieno i diritti della persona con disabilità e rischiano di accettare soluzioni giudiziarie più invasive del necessario.
° Rischi di isolamento: in assenza di una rete di sostegno, il caregiver familiare può trovarsi solo nell’affrontare situazioni sempre più complesse.
Un Ente di Terzo Settore, invece, garantisce:
° Stabilità organizzativa: a differenza di un singolo individuo, un’organizzazione non è soggetta a improvvisi cambiamenti (malattie, decessi, conflitti familiari) che potrebbero interrompere il sostegno.
° Procedure chiare e trasparenti: molti enti adottano protocolli operativi che assicurano il rispetto della volontà della persona, documentando ogni decisione in modo verificabile.
Accesso a reti e risorse territoriali
Gli Enti di Terzo Settore, grazie al loro radicamento nel territorio e alle collaborazioni con servizi pubblici e privati, possono:
° Attivare percorsi personalizzati: ad esempio, collegando la persona con disabilità a servizi di assistenza domiciliare, centri diurni o progetti di vita indipendente.
° Facilitare l’inclusione sociale: attraverso laboratori, attività ricreative e percorsi di autonomia che vanno oltre la mera gestione amministrativa.
° Offrire formazione ai familiari: aiutando i caregiver a comprendere meglio i diritti e gli strumenti a disposizione.
Un approccio basato sui diritti umani
Mentre, come sottolineato in precedenza, il sistema giudiziario spesso riduce l’amministrazione di sostegno a una questione di tutela patrimoniale, gli Enti di Terzo Settore – e in particolare quelli che operano nel campo della disabilità – tendono a privilegiare l’autodeterminazione. Alcune buone pratiche già diffuse includono:
° Piani di sostegno partecipati: la persona con disabilità viene coinvolta direttamente nelle decisioni, con l’aiuto di facilitatori se necessario.
° Verifiche periodiche: l’ente monitora l’efficacia degli interventi, adattandoli alle mutevoli esigenze della persona.
° Advocacy: molti Enti di Terzo Settore segnalano ai tribunali misure eccessivamente restrittive, promuovendo revisioni a favore dell’autonomia.
L’obiettivo, pertanto, non è quello di scavalcare le famiglie, ma di supportarle laddove le loro forze o competenze non bastino.
Gli Enti di Terzo Settore possono essere nominati:
° In affiancamento al familiare amministratore di sostegno, per fornire consulenza su aspetti specifici.
° Come “ultima ratio”, quando non ci sono familiari disponibili o idonei.
° In casi di particolare complessità, dove servono competenze specialistiche.
L’evento del 25 giugno è stato quindi l’occasione per lanciare una proposta ambiziosa: trasformare l’amministrazione di sostegno da strumento di sostituzione a strumento di condivisione, dove la persona con disabilità non sia oggetto di decisioni, ma soggetto attivo del proprio progetto di vita. Alcune esperienze virtuose – come i progetti di co-amministrazione promossi da alcune Associazioni – dimostrano che un altro modello è possibile. Ora serve il coraggio delle Istituzioni per rendere queste buone prassi una realtà diffusa.
In conclusione, si prospetta una sfida che non possiamo permetterci di perdere. Quella dell’amministratore di sostegno, infatti, è una battaglia di civiltà giuridica. Se vogliamo davvero costruire una società inclusiva, dobbiamo smettere di vedere le persone con disabilità come “soggetti da proteggere” e iniziare a riconoscerle come cittadini e cittadine a pieno titolo, capaci di autodeterminarsi con il giusto sostegno.
Il report presentato il 25 giugno al CNEL e le riflessioni emerse dal successivo dibattito possono essere una pietra miliare in questo percorso, ma perché ciò accada, serve un impegno concreto da parte di tutti: Istituzioni, Magistratura, Terzo Settore e Società Civile. La strada è tracciata. Ora bisogna percorrerla fino in fondo.
*Consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), in cui coordina l’Osservatorio Inclusione e Accessibilità, presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).
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