Luca Pancalli, proviamo a tracciare un bilancio a freddo dell’esperienza paralimpica cinese. Si sapeva che i padroni di casa si stavano preparando da anni a questo evento non solo a livello logistico, ma soprattutto a livello atletico e agonistico e che avrebbero fatto la parte del leone nel medagliere. L’Italia è riuscita comunque a riportare ottimi risultati, anche al di sopra delle aspettative, visto un livello competitivo così elevato. Come delegazione potete essere soddisfatti dell’andamento dei Giochi…
«Sembra quasi di avere assistito ad un film già visto, nel senso che era stato tutto ampiamente previsto. Sia il risultato della Cina – che peraltro aveva già sbalordito durante le perecedenti Olimpiadi di agosto – sia i risultati delle altre nazioni.
Personalmente, ad esempio, avevo preventivato l’eccellente piazzamento dell’Ucraina, perché ovviamente monitoriamo e conosciamo il lavoro che si sta compiendo negli altri Paesi. Soprattutto, nel mondo dello sport abbiamo un’importante cartina tornasole, che è rappresentata da competizioni quali i Mondiali, gli Europei e quant’altro, là dove hai l’opportunità di vedere e verificare.
Per quanto riguarda casa nostra, sicuramente non posso non ritenermi soddisfatto, nel senso che considerato il livello tecnico-agonistico che abbiamo trovato, e che comunque ci aspettavamo, il risultato è stato più che soddisfacente. Avevamo una previsione di quindici medaglie – un po’ pessimistica perché ovviamente è sempre pericoloso lanciarsi coi numeri – e le diciotto medaglie arrivate da sette delle dodici discipline cui partecipavamo, dal punto di vista della valutazione e della politica sportiva sono sicuramente soddisfacenti.
Consideriamo poi che – come credo sia avvenuto spesso nel mondo dello sport – abbiamo subìto magari qualche torto e qualche ingiustizia, e qualche incidente di troppo, come i risentimenti muscolari dei due saltatori in lungo che purtroppo erano sicuramente in possibilità di arrivare in zona medaglia; o anche come l’incidente occorso al ciclista Viganò, che a trenta metri dal traguardo è svenuto per un colpo di calore e per disidratazione. Senza questi imprevisti saremmo potuti andare anche molto meglio, ma è chiaro che il risultato tutto sommato è più che positivo».
Come giudichi l’accoglienza ricevuta a Pechino?
«Alla grande. La Cina, chiuso il capitolo olimpico, ha saputo sbalordire il mondo, perché indubbiamente ha realizzato qualcosa di eccezionale dal punto di vista organizzativo, ma anche da quello della passione che è stata percepita intorno al mondo paralimpico.
Vero è anche che i numeri cinesi sono “altri numeri” – Pechino è una città con 18 milioni di abitanti – ma avere per tutto il periodo delle Paralimpiadi degli stadi e dei palazzetti completamente pieni, tutti i giorni, beh, un po’ di differenza la fa, e si è sentita. Soprattutto gli atleti l’hanno sentita».
Dal punto di vista strettamente organizzativo, quindi, non avete incontrato difficoltà né logistiche né dovute a problemi con le autorità cinesi.
«Una precisione teutonica, nel senso che veramente l’organizzazione è stata un orologio che ha funzionato perfettamente. Sono stati eccezionali, pur ovviamente nella severità della sicurezza e dei controlli, perché oramai l’evento paralimpico è una manifestazione che si impone agli occhi del mondo come seconda soltanto alle Olimpiadi, anche per l’attenzione mediatica che essa determina».
C’è stato un momento che ti ha dato delle emozioni particolarmente forti durante questa esperienza di Pechino 2008?
«Direi tutto. So che ha colpito molto la cerimonia di apertura, anche se ricca di messaggi che forse per i nostri Paesi che hanno percorso un processo di crescita culturale sui temi della disabilità molto più accelerato di quanto non sia avvenuto in Cina, quei temi e quelle sollecitazioni possono apparire un po’ retro, solilidaristico-pietistiche. Bisogna però considerare che quella cerimonia e i messaggi di essa non erano rivolti al mondo, ma alla Cina stessa, perché i cinesi hanno voluto cogliere in pieno questa occasione. E mi auguro che effettivamente possa essere così per il futuro, perché ovviamente anche su questo si è giocata la scommessa di affidare l’organizzazione di Giochi così importanti ad un paese come la Cina.
Considerando l’investimento sull’organizzazione dei Giochi Paralimpici, il mio auspicio è che questo sia avvenuto per lanciare e disegnare il futuro di un’attenzione maggiore ai diritti dei disabili in quel Paese».
In un convegno nel 2006 a Torino, si parlava di una sorta di “eredità paralimpica dei Giochi Invernali”, e degli effetti postivi che questo evento avrebbe avuto nel capoluogo torinese sotto molti aspetti. Ritieni che si potrà parlare di un “effetto Paralimpiadi” almeno a Pechino?
«Io credo che ci siano forti possibilità. Mi raccontavano in Cina che da cinque anni a questa parte, ad esempio, hanno esteso l’assistenza sociale a tutte le persone con disabilità, che prima non avevano; è stato inoltre svolto un grande lavoro di reclutamento in vista delle Paralimpiadi, il che vuol dire provare a tirar fuori i ragazzi dalle scuole, dalle campagne, dagli istituti, con la creazione di tanti istituti per l’avviamento allo sport. Certo, si tratta dell’incipit, in un Paese nel quale partiamo da una situazione paragonabile a quella italiana degli anni Cinquanta».
In una dichiarazione rilasciata a un anno dall’inizio dei Giochi, una delle più famose atlete paralimpiche inglesi, Dame Tanni Grey-Thompson, aveva dichiarato di aver riportato l’impressione, visitando Pechino, di essere la prima persona con disabilità che molti vedessero a passeggio…
«Ed è proprio esattamente così. Ripeto, non per nulla ho parlato di incipit, di un processo – mi auguro – di crescita nell’attenzione dal punto di vista della promozione di una nuova cultura, in un Paese che da questo punto di vista – voglio ribadirlo – è come l’Italia degli anni Cinquanta. Devo dire che le premesse ci sono tutte.
L’investimento che è stato fatto è grandioso, anche in termini di comunicazione. Girare per le strade di Pechino e notare tutti i megaschermi sui grattacieli o nei negozi o nei pub che in continuazione mandavano immagini delle Paralimpiadi rappresenta un grande investimento sulla popolazione.
Tu incontravi questa gente che per strada si fermava a vedere o la partita di tennis, o il nuoto o l’atletica che in quel momento andava in diretta. C’era un canale dedicato 24 ore su 24 della TV in chiaro, interamente centrato sulle dirette delle varie gare, per cui, sai, questo mi dà da pensare che non finisca tutto lì. O per lo meno questo è l’augurio da uomo di sport: che si possa effettivamente cogliere la grande opportunità che lo sport ha regalato in questo caso, per costruire qualcosa di importante per il Paese».
C’è poi da dire che la Cina, a differenza dell’Italia, ha ratificato [il 1° agosto 2008, N.d.R.] la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità…
«Esattamente. Sono segnali. Non sempre è detto che ai segnali corrisponda qualcosa, ma sono segnali importanti che vanno colti per quello che rappresentano e ovviamente letti in positivo e non in negativo».
Prima hai accennato alla comunicazione e al riscontro che hanno avuto i Giochi presso gli organi d’informazione cinesi. In Italia mi sembra si possa dire che almeno il servizio pubblico abbia dato alcune risposte, o ti aspettavi di più?
«Mah, direi che un successo si è ottenuto nel momento in cui non siamo più noi che protestiamo, ma è qualcuno al di fuori del nostro mondo che chiede/scrive che avrebbe voluto maggiore attenzione alle Paralimpiadi. E questo, se vuoi, è un risultato della politica che ho condotto fino ad ora, nel senso che bisogna evitare sempre “categorializzazioni” e “sindacalizzazioni” delle richieste.
Da parte mia, venendo da lontano, sono totalmente soddisfatto di quello che ha fatto la RAI, perché sarebbe stato inimmaginabile pensare un po’ di anni orsono a quattro ore e mezza di diretta sul canale satellitare (per carità, satellitare, ma sempre quattro ore di diretta). Anche il sito era ben curato.
Secondo me lo sforzo la RAI lo ha fatto e sono sempre più convinto che non siano importanti le rivoluzioni, ma molto di più i lenti processi riformatori che aiutano a costruire una cultura su questi temi. Perché vedi, i risultati ottenuti dalle rivoluzioni – ammesso e non concesso in questo caso che si fosse potuto trovare il modo di dedicare alle Paralimpiadi la stessa attenzione che era stata dedicata alle Olimpiadi – spesso determinano anche un tornare indietro con la stessa velocità con la quale si era ottenuto il risultato. Invece i processi lenti, ma inesorabilmente in avanti, sono quelli dai quali poi è difficile tornare indietro.
Oggi la RAI ha fatto un ulteriore passo in avanti importante. Certo, il bicchiere io lo vedo mezzo pieno, ma può essere visto anche mezzo vuoto. Si può fare di più e si sarebbe potuto magari fare di più, però tempo al tempo. Chi viene da lontano sa che stiamo costruendo un percorso, per cui sono soddisfatto.
Certo, mi sarei aspettato forse un po’ più di attenzione non tanto dalle testate sportive della carta stampata, ma dagli altri quotidiani. Mi sarebbe piaciuto magari poter notare una maggiore attenzione. Assistere allo svuotamento del parterre dei media italiani in occasione di un evento paralimpico, affidandosi molto più a corrispondenti delle agenzie ecc. è un po’ triste, perché credo che i nostri atleti e tutto il movimento paralimpico internazionale abbiano molto da insegnare e da regalare in termini di storie e di messaggi».
E dal confronto con la copertura riservata dai mezzi di comunicazione esteri, come ne usciamo?
«Bisogna sfatare dei miti. Il fatto che all’estero ci sia maggiore attenzione non è sempre vero. Soltanto la BBC si è distinta per la grande attenzione dimostrata, ma perché si sta facendo un lavoro di investimento per le Paralimpiadi di Londra 2012 e mi sembra evidente. E la Cina ovviamente. Gli altri Paesi avevano delle strutture dal punto di vista organizzativo e mediatico sicuramente molto forti, però noi ci difendiamo. Certo, non siamo i primi, ma non siamo nemmeno gli ultimi».
In una dichiarazione al rientro da Pechino hai invocato più risorse dallo Stato, borse di studio per gli atleti studenti, agevolazioni per i lavoratori e una serie di altre rivendicazioni. La vicinanza delle Istituzioni si è fatta sentire. Ad esempio il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con Delega allo Sport, Rocco Crimi, era con voi a Pechino…
«Dal punto di vista del sostegno non posso che essere grato – uso il plurale intenzionalmente – ai Governi, perché sia il rapporto con Giovanna Melandri che adesso con Rocco Crimi è stato positivo. Le risorse economiche ci sono state garantite e mi auguro che l’attenzione possa essere sempre adeguatamente sufficiente a quelle che sono effettivamente la portata e le potenzialità del movimento.
Personalmente sono sempre convinto che le risorse economiche siano importanti, ma che lo siano ancor più le idee, per cui mi piacerebbe essere sostenuto nelle idee, spesso per realizzare le quali non servono neppure risorse economiche.
Da questo punto di vista continuo a rilanciare una preoccupazione: un livello sportivo agonistico come quello del quale stiamo parlando richiede la possibilità che si possa mettere questi ragazzi nelle migliori condizioni di poter essere a quel livello. Oggi il livello è altissimo e non è più immaginabile per il futuro pensare di portare i ragazzi ad appuntamenti così importanti – che comunque facendo il loro mestiere di atleta onorano il Paese e il tricolore – costringendoli a prendersi mesi e mesi di aspettativa non retribuita, costringendoli ad essere a Pechino o ad Atene o a Vancouver, utilizzando le loro ferie.
Io ho avuto un ragazzo che è ripartito tre giorni prima da Pechino perché aveva finito il suo periodo di ferie. Storie esemplari: Fabio Triboli, che ci ha regalato tante soddisfazioni nel ciclismo, è un ragazzo che fa il metalmeccanico e quando stacca dal lavoro alle cinque del pomeriggio va a correre in bicicletta; Paolo Addesi, che è stato il gregario protagonista del successo di Triboli nella cronometro su strada, è un ragazzo che guida i TIR. La notte non dorme e il giorno si allena.
Lo stacco tra il mondo olimpico e quello paralimpico è troppo forte. Bisogna tentare di aiutare gli atleti. Questi sono ragazzi che al di là del loro piacere di essere atleti, credo che regalino qualcosa al Paese, in termini non soltanto di onore. Lo sport, ad esempio, è trainante dal punto di vista comunicativo, per cui anche per il mondo della disabilità in genere e per il processo di crescita del Paese sulla disabilità questi sono ragazzi che svolgono del loro e io credo che debbano essere messi nelle migliori condizioni per poterlo fare.
Il Comitato Paralimpico con le proprie risorse ha fatto e può arrivare sino a dove può arrivare. Chi di loro appartiene al club del top level percepisce da parte nostra borse di studio, borse lavoro, ma certo io non ho la capacità di incidere sui permessi non retribuiti, sulle ferie. Io posso porre all’attenzione delle Istituzioni dei problemi, così come sto facendo. Come quello dell’apertura dei corpi sportivi dello Stato smilitarizzati anche agli atleti disabili e auspicare – in questo senso non servono risorse, ma voglio sostegno nelle idee – che qualche illuminazione possa far comprendere la totale sostenibilità dal punto di vista giuridico e legislativo del percorso».
Noti inoltre un calo di iscrizioni e di interesse nella pratica effettiva dello sport, questa volta di base, da parte delle persone con disabilità?
«Diciamo che il movimento cresce, ma cresce proporzionalmente troppo poco rispetto alle potenzialità, nel senso che a fronte di circa un milione di persone tra i 6 e i 40 anni nelle fasce di disabilità che potrebbero essere potenzialmente interessate all’attività motoria, gli aderenti al nostro movimento – considerando ovviamente tutto ciò che ruota intorno alla famiglia del Comitato Paralimpico – non saranno più di 70.000. C’è allora un elemento di criticità».
Potrebbe essere un segnale del cambiamento della società italiana negli ultimi venti anni…
«Bravissimo. Ci sono varie considerazioni. Una è questa senz’altro. Oggi lo sport – ed è giusto che sia così, è una grande conquista – è stato collocato nella vita di una persona disabile per quello che deve essere, cioè una scelta libera di occupazione del tempo libero, al quale deve corrispondere un diritto all’attività motoria. Io scelgo, sono titolare di un diritto, mi si devono consentire pari opportunità nell’accesso. Punto. Venti o trent’anni fa, quando cominciai io, era quasi una scelta obbligata: non avevamo nulla da fare e facevamo sport perché non c’era la consapevolezza dell’essere titolare di un diritto al lavoro, allo studio, alla famiglia. Per cui questa tua considerazione è totalmente vera.
Dall’altra parte, però, c’è anche una carenza del Paese Italia dal punto di vista proprio della cultura sportiva, non solo nel mondo della disabilità. In questo viviamo la stessa negatività. Siamo uno degli ultimi tre paesi in Europa per praticanti di attività motorie. Questo vuol dire che è proprio scarsamente diffusa la consapevolezza dell’importanza delle attività motorie nel nostro Paese e questo coinvolge abili e disabili. Per cui nella negatività troviamo un elemento di normalità».
Le nubi addensatesi dopo l’approvazione del Decreto Legge n. 93 del 27 maggio scorso – che stabiliva pesanti tagli ai finanziamenti destinati al Comitato Italiano Paralimpico – possono essere considerate superate o la situazione resta ancora preoccupante?
«No, no, il problema è stato risolto. Ci è stato anzi anche riconosciuto un milione di euro in più. Devo dire che il sottosegretario Crimi non soltanto aveva risolto il problema economico e ci aveva concesso appunto un milione in più per favorire la sostenibilità del mutuo per la costruzione della Città Paralimpica, ma poi è stato eccezionale perché quando è venuto a Pechino, devo dire che è veramente diventato uno di noi, cioè ha capito. Con grande umiltà ha girato con me tutti i campi di gara, parlando con i ragazzi, stando a mensa al villaggio con noi ecc. E ha capito le enormi potenzialità di un movimento e le difficoltà. Quindi io mi auguro che veramente si possa costruire un percorso per risolvere quei piccoli grandi problemi che abbiamo».
Quindi il prestito di 15 milioni di euro finalizzato alla costruzione della Cittadella dello Sport Paralimpico, sottoscritto dal presidente dell’Istituto per il Credito Sportivo, Andrea Cardinaletti, non vi spaventa?
«Noi abbiamo siglato il mutuo, ho firmato [sorride] e diciamo che a fronte di questo mutuo adesso ci sarà la gara europea per l’assegnazione dei lavori alla ditta che vincerà; i quindici milioni non spaventano, anche se pesano ovviamente. All’incirca si parla di un milione di euro per venticinque anni».
Ma si può fare?
«Io ho sempre immaginato che se non si pensa in grande non si andrà mai a realizzare in grande. Questo è un sogno che ho sempre avuto per il movimento paralimpico e ovviamente a volte bisogna anche saper rischiare. Rischio nella consapevolezza dell’importanza dell’iniziativa».
Quali aspettative hai riposto su questo progetto?
«Il bando di gara dovrebbe essere pubblicato a giorni e a gennaio ci potrebbe essere l’assegnazione e l’inizio dei lavori. Entro tre anni il progetto dovrebbe essere portato a termine e diventerà una sorta di “laboratorio a cielo aperto” riguardo a tutto ciò che si può fare sullo sport praticato dalle persone con disabilità.
Può essere ad esempio un luogo di avviamento ad uno sport per giovani disabili che vogliano sperimentare diverse discipline, per poi scegliere la propria quando tornano a casa. Avremo infatti una foresteria di centoquaranta posti letto.
Ma si può anche pensare di realizzare centri estivi integrati con bambini disabili e non disabili, in modo tale che i genitori possano lasciare lì i loro figli durante il periodo del termine della scuola. Si possono fare tante cose. Ripeto, sarà un laboratorio a cielo aperto.
A me piacerebbe, e questa è la mia intenzione, fare in modo che gran parte del lavoro che genererà questa Cittadella sia poi svolto da persone con disabilità».
In questa ottica che coinvolgimento immagini per le associazioni e le cooperative del Terzo Settore del territorio nell’implementazione delle attività della Cittadella?
«Credo che dalle cooperative sociali possa venire sul territorio un grande aiuto per la promozione dell’attività sportiva e anche per un loro eventuale utilizzo in maniera funzionale a quelle che sono le attività generate dall’attività sportiva. E sono tante le attività che vengono generate dal mondo dello sport che possono trovare poi un valido interlocutore nella cooperazione sociale.
L’importante è che si comprenda che lo sport – e l’attività sportiva – non deve essere un nemico della disabilità. Io spesso percepisco da parte del mondo dell’associazionismo quasi che lo sport fosse una cosa destinata a pochi, ma non è così. Pochi sono quelli che arrivano a certi livelli, ma è così nel mondo dello sport in generale. Se noi pensiamo a quante persone praticano nuoto in Italia e a quanti arrivano a un’Olimpiade… Questa è la regola dello sport: in pochi vincono e in tanti lo praticano.
Io vorrei avere degli interlocutori e degli alleati nel garantire che in tanti lo pratichino, perché comunque è un’attività che regala benessere fisico, migliora la qualità della vita e abbassa i costi del Servizio Sanitario Nazionale. Perché tutti coloro che praticano attività motoria con assiduità – senza stare a pensare alle medaglie paralimpiche – sono ragazzi disabili che si rivolgono meno al Servizio Sanitario Nazionale. Anche in questo manca la lungimiranza di un Paese che investe poco nel mondo dello sport. Parlo a 360 gradi e non solo per la disabilità…
I Paesi dovrebbero capire che le risorse destinate allo sport non sono risorse destinate alla competitività nello sport, ma risorse che rappresentano un investimento per la crescita culturale del Paese e una crescita generale del Paese stesso, perché poi lo sport genera PIL, genera occupazione, genera tante cose. E se questo vale come accezione per il mondo della normalità, immagina per il mondo della disabilità».
Gli atleti con disabilità che smettono di praticare l’attività sportiva e agonistica secondo te potranno andare a giovarsi del provvedimento promosso da Giovanna Melandri, riguardante il vitalizio per gli sportivi indigenti?
«Gli atleti con disabilità già accedono a questo vitalizio relativo alla Legge Onesti. Mi pare che vi abbia avuto accesso addirittura Giuseppe Trieste e altri.
Ovviamente sono delle cose importanti, ma io immagino che gli atleti che smettono di fare lo sport – ovviamente qui ci riferiamo ai grandi atleti – debbano veder loro riconosciuto un futuro, in quanto hanno regalato qualcosa al Paese.
E così come gli olimpici hanno la possibilità di accedere a gruppi sportivi militari – e quindi possono trovare poi un loro futuro nei corpi militari dello Stato – io ho sempre immaginato che fosse assolutamente sostenibile immaginare la possibilità di accedere a sezioni paralimpiche che andranno costituite all’interno dei gruppi sportivi militari – o almeno quelli smilitarizzati – non già attraverso l’arruolamento nel corpo di riferimento, ma attraverso l’assunzione nel Ministero di riferimento.
Faccio un esempio: noi abbiamo le Fiamme Oro alle quali si accede attraverso l’arruolamento alla polizia; se le Fiamme Oro aprissero una sezione paralimpica, in quella sezione si potrebbe immaginare: assunzione nel Ministero degli interni, distacco al gruppo sportivo e nel momento in cui avranno terminato di rendere onore al Paese attraverso le gesta sportive, faranno i dipendenti del Ministero come gli altri vanno a fare i poliziotti.
Lo stesso si può fare per i Vigili del Fuoco tramite il Ministero degli Interni, lo si può fare con le Fiamme Azzurre per la polizia penitenziaria, tramite il Ministero di Grazia e Giustizia e lo si può fare con le Fiamme Gialle della Guardia di Finanza tramite il Ministero dell’Economia».
Com’è ben noto, nel 2006 sei stato nominato commissario straordinario della FIGC, per gestire un momento particolarmente difficile per il calcio italiano, e durante quel mandato hai dovuto affrontare i drammatici fatti di Catania e l’uccisione dell’agente Raciti. Cosa ne pensi dei recenti episodi di violenza delle tifoserie nostrane, anche a seguito della Nazionale in Bulgaria?
«Il fenomeno della violenza mi sono trovato ad affrontarlo all’epoca ed è un fenomeno ben lungi dall’essere stato debellato. Ma questo è di fronte agli occhi di tutti. Le difficoltà ci sono. La strada è stata intrapresa, ma ci sono tante cose da fare per immaginare uno scenario nuovo del calcio italiano.
Mai mi sarei immaginato che atti del genere potessero avvenire al seguito della Nazionale. La Nazionale è sempre stata un po’ “un’isola felice”, da questo punto di vista, anche se coloro che sono addentro al sistema avevano da tempo sentore che c’era fermento.
Detto questo, è evidente che la violenza fa parte del mondo calcio, ma non appartiene al mondo del calcio, nel senso che la ritengo offensiva per il sistema calcio, ma soprattutto per i milioni e milioni di tifosi e delle tifoserie organizzate virtuose. Bisogna stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio e che quattro delinquenti non inficino tutto ciò che c’è di buono nelle tifoserie organizzate virtuose.
Io ho avuto la positiva esperienza dei rapporti che ho intrapreso con le tifoserie organizzate del mondo del basket, quando scrissi il Codice Etico per la Virtus Roma e ci sono situazioni di tifoserie organizzate assolutamente encomiabili.
Bisogna capire e creare le pre-condizioni e le condizioni affinché la gente per bene che veramente crede nella propria squadra e che non ha fatto della passione sportiva un’ossessione sportiva, possa riappropriarsi dei nostri stadi e di quello che gira intorno al sistema calcio».
Dopo questa significativa esperienza alla FIGC, nel tuo futuro immagini di tornare nuovamente a ricoprire un incarico di primo piano nel mondo del calcio italiano e dello sport in generale?
«Se avessi la possibilità di vedere nel mio futuro, probabilmente tanti errori non li avrei commessi e sicuramente ne ho commessi in passato. Non lo so. Io mi ritengo un innamorato del mondo dello sport e un dirigente sportivo al servizio del mondo dello sport. Tant’è che ho praticamente precluso e limitato tutte le mie attività professionali e il mio lavoro, in quanto questo è il mio mondo, e lo vivo come spirito di servizio perché poi lo sport ha bisogno di passione.
È difficile gestire lo sport se non si ha anche la passione nel volerlo gestire in un certo modo. Non so quello che mi riserverà il futuro, ma certamente non mi tirerei mai indietro ovunque il mondo dello sport dovesse aver bisogno del mio servizio».
(Giuliano Giovinazzo)
*Intervista concessa in esclusiva per la rivista «Mobilità» e per il sito Superando.it.
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