Residenzialità, vita indipendente e diritti delle persone con autismo: un’analisi critica

di Gianfranco Vitale
«Il dibattito sul futuro della residenzialità e della vita indipendente per le persone con disabilità, in particolare per quelle nello spettro autistico, è oggi più che mai centrale», scrive Gianfranco Vitale, che prendendo spunto da un recente intervento pubblicato sul tema dal nostro giornale, ne propone un’analisi critica «per collocare le questioni affrontate in una cornice più ampia, giuridicamente solida, eticamente coerente e culturalmente aggiornata»

Particolare di persona che spinge una carrozzinaIl dibattito sul futuro della residenzialità e della vita indipendente per le persone con disabilità, in particolare per quelle nello spettro autistico, è oggi più che mai centrale. L’intervento pubblicato su queste stesse pagine a nome dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori di persone con Autismo), [“Le residenze non sono istituti, ma modelli abitativi progettati a misura dei bisogni assistenziali delle persone”, N.d.R.], seppure animato da un intento difensivo nei confronti dei diritti e dei bisogni delle persone con autismo grave, solleva questioni che meritano un’analisi critica e articolata. Non tanto per smentire le esperienze richiamate, quanto per collocarle in una cornice più ampia, giuridicamente solida, eticamente coerente e culturalmente aggiornata.

Premetto: sono solo il padre di un uomo autistico di 44 anni (io ne ho 76), classificato di “livello 3”, che vive in un residenziale (…per combinazione gestito dalla stessa Cooperativa finita nelle indagini della Magistratura per i fatti gravissimi avvenuti di recente a Luserna San Giovanni, in Piemonte). Diciamo che di residenzialità un po’ me ne intendo, pur essendo consapevole di non raggiungere i livelli eccelsi di Giovanni Marino, al quale – prima di entrare nel merito della discussione – mi limito semplicemente a ricordare, a proposito di cosa significhi definirsi rappresentativi delle perSone autistiche (con tanto di “S” maiuscola), che la scorsa estate mio figlio è stato ricoverato per 48 (QUARANTOTTO) giorni in psichiatria senza che mi sia stato possibile recapitargli un rigo di solidarietà scritto dall’usciere della grande ANGSA.
Per facilitare dunque la lettura del mio intervento, replicherò per punti (5) alle considerazioni dell’Ingegner Giovanni Marino, che di ANGSA è Presidente Nazionale.

1. La falsa dicotomia tra residenze e vita indipendente
Uno dei nuclei centrali della sua riflessione è la contrapposizione tra strutture residenziali e percorsi di vita indipendente, letta nei termini di un conflitto tra servizi strutturati e “interventi monetari” scarsamente regolati. Tale rappresentazione è riduttiva e rischia di alimentare una polarizzazione improduttiva.
È invece necessario riconoscere, lo ha ribadito molto bene la dottoressa Simona Lancioni nei suoi articoli pubblicati anche su queste pagine, che la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD, ratificata dall’Italia con la Legge 3 marzo 2009, n. 18) stabilisce il diritto delle persone con disabilità di scegliere dove e con chi vivere (articolo 19), senza essere obbligate a vivere in strutture specifiche. Questo non implica una delegittimazione delle soluzioni residenziali, ma piuttosto l’affermazione del diritto alla scelta e alla pluralità delle opzioni disponibili.
La Legge 112/16 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, nota anche come “Legge sul Dopo di Noi”) ha rafforzato questa visione, promuovendo percorsi che tengano conto delle preferenze, delle autonomie residue e del contesto familiare, offrendo anche forme residenziali innovative che superano l’idea tradizionale di istituto.

2.  Il rischio della delegittimazione: tra allusioni e generalizzazioni
L’intervento dell’ANGSA allude più volte al fatto che i progetti di vita indipendente siano diventati un espediente per ottenere risorse economiche ingenti e poco controllate. Affermazioni di questo tipo — se non supportate da evidenze — possono minare la fiducia in politiche pubbliche di emancipazione e inclusione, producendo stigma e sospetto.
È vero che il sistema di erogazione delle prestazioni (ad esempio il Fondo per la Non Autosufficienza, il Fondo per il Dopo di Noi, quello per la Vita Indipendente) necessita di criteri chiari e controlli efficaci. Tuttavia, questo problema non può essere risolto criminalizzando interi modelli o i destinatari degli interventi. L’analisi comparata internazionale dimostra che la qualità dell’assistenza e la trasparenza amministrativa dipendono non dal tipo di servizio, ma dal sistema di governance e valutazione (cfr. Mansell & Beadle-Brown 2012, Active support: enabling and empowering people with intellectual disabilities; European Agency for Special Needs and Inclusive Education, 2020).

3. Residenze e diritti: sì alla qualità, no alla difesa ideologica
Il testo di cui si parla difende la qualità delle residenze per persone con autismo grave, e in molti casi questa difesa è legittima. Le recenti Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità sul trattamento delle persone adulte nello spettro autistico riconoscono l’importanza dei “modelli abitativi su misura”, inclusi anche contesti residenziali protetti. E tuttavia, è necessario distinguere tra modelli ad alta intensità assistenziale e vecchie logiche istituzionali. Il rischio di segregazione non è insito nella forma residenziale, ma nella sua gestione, dimensione, obbligatorietà, e soprattutto nella mancanza di progettazione personalizzata.
Non basta affermare che una residenza “non è un istituto”; occorre garantirlo con pratiche trasparenti, accesso ai territori, relazioni sociali significative e progettualità orientata allo sviluppo della persona. Trovi il tempo, l’eccellente Presidente Nazionale dell’ANGSA, di verificare de visu, anziché per sentito dire, quanto sia scadente la qualità del servizio in almeno il 70-80% delle strutture residenziali italiane.

4. La svalutazione della Convenzione ONU e dei diritti di scelta
Particolarmente grave e sorprendente ritengo sia la posizione dell’ANGSA sull’approccio della già citata Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, giudicata letteralmente come «una stupidaggine» nella sua definizione sociale della disabilità. In realtà, tale definizione — che concepisce la disabilità come «risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e le barriere comportamentali e ambientali» — è il frutto di decenni di elaborazione teorica e giuridica (consiglio di leggere M. Oliver, Politics of Disablement, 1990; OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ICF Framework, 2001).
Questa concezione non cancella i bisogni complessi, ma chiede che la società non si limiti a gestirli con soluzioni “custodialistiche” (invento sul momento questo termine, scusandomi con i puristi della lingua). Negare la validità di questo paradigma equivale a rifiutare la stessa evoluzione del concetto di cittadinanza e diritti umani per le persone con disabilità.
Allo stesso modo, definire «temerario» il principio della scelta su dove e con chi vivere, sancito dalla Legge 227/21 (Delega al Governo in materia di disabilità), significa opporsi non solo alla legge, ma all’intero impianto etico del welfare inclusivo. Il Progetto di Vita personalizzato, di cui la stessa Legge 227/21 è fulcro, è uno strumento per superare logiche standardizzate, non un vezzo ideologico.
A questo punto è imbarazzante che non sia l’ANGSA ad autodefinirsi “temeraria” per la sciocchezza che sostiene.

5. Sostenibilità e priorità: un falso dilemma
L’intervento di Giovanni Marino si chiude con un messaggio preoccupante: la disabilità, e in particolare l’autismo, sarebbero una realtà “più vera” di altre, meritevole di concentrare su di sé tutte le risorse. Tale visione è contraria al principio di universalismo selettivo del welfare: risposte personalizzate, ma fondate su parità di accesso e valutazione dei bisogni individuali.
La contrapposizione tra disabilità diverse, e il tentativo di misurarne il “peso” comparativo, è eticamente inaccettabile e politicamente sterile. Le persone con disabilità, di qualsiasi tipo (QUALSIASI TIPO), devono essere destinatarie di politiche fondate su diritti esigibili, valutazioni multidimensionali e criteri di equità.

In conclusione, il contributo dell’ANGSA richiama giustamente l’attenzione sulla necessità di tutelare i soggetti più fragili e le loro famiglie, ma lo fa spesso in chiave difensiva e divisiva. Oggi più che mai serve un approccio che riconosca la coesistenza delle diverse esigenze e la legittimità di più modelli abitativi, senza dogmi e senza ideologie.
È fondamentale sviluppare Linee di Indirizzo Nazionali aggiornate sui criteri di accreditamento, sui controlli di qualità e sulla personalizzazione dei servizi, così come auspicato dallo stesso Istituto Superiore di Sanità. Ma questo percorso deve avvenire senza negare diritti, senza screditare i percorsi di autonomia, e senza temere il confronto con i paradigmi internazionali.
Le residenze non sono il male; la vita indipendente non è un’illusione; i diritti non sono un lusso. Servono equilibrio, trasparenza, responsabilità e ascolto. Solo così sarà possibile costruire un sistema giusto, sostenibile e davvero inclusivo.

Oltre alle note normative e bibliografiche citate via via nel testo, con i relativi link, segnaliamo anche, per completezza di lettura, la Legge 134/15 (“Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico”) e il Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) del 12 gennaio 2017 (Nuovi Livelli Essenziali di Assistenza), articolo 60 (G.V.).

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