A cinque anni dall’approvazione dell’ICF, la Classificazione Internazionale sul Funzionamento, la Disabilità e la Salute, abbiamo voluto rivolgere alcune domande ad Andrea Micangeli, ingegnere meccanico biomedico che da oltre un decennio si occupa di progettazione e tecnologie per la disabilità e parallelamente lavora nell’ambito delle fonti di energia rinnovabile e della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo.
Sembrano campi d’azione lontani tra loro…
«Direi solo in apparenza. Sempre più spesso, infatti, il progettare per tutti si coniuga con la sostenibilità ambientale, tenendo quindi ugualmente in considerazione le persone e il luogo in cui esse vivono e operano.
Relativamente alla cooperazione internazionale, invece, il compito principale di figure come la mia è quello di contrastare l’eventualità che si arrivi in un Paese presentandosi come dei donatori che trovano di fronte a sé soggetti totalmente passivi, una probabilità che aumenta, nel caso in cui questi ultimi abbiano una disabilità. Se già nel nostro Paese, infatti, nella realizzazione di un progetto per persone con disabilità si rischia di attribuire loro – benché siano le dirette interessate – un ruolo inoperoso, in un Paese in via di sviluppo, cui noi attribuiamo per cattiva abitudine un ruolo inattivo, il rischio di non riuscire a concretizzare il proprio progetto diventa molto alto».
L’ICF, tra le altre cose, si è rivelato uno strumento importante per la sua attività…
«Senza dubbio. Dal mio punto di vista l’ICF, il documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) diffuso nel 2001, ha segnato un cambiamento evidente sia nel linguaggio quotidiano che nella progettazione. Si tratta infatti del testo cui si deve la cancellazione della parola handicap dal vocabolario internazionale, sostituita dalla parola disabilità. E tuttavia, neanche il termine persona con disabilità è sufficientemente completo e corretto, poiché la vera rivoluzione portata dall’ICF si può parzialmente sintetizzare nell’espressione: persona con alcune disabilità in un determinato contesto.
Precedentemente venivano classificati gli handicap. L’ICF, invece, considera il funzionamento e l’ambiente nel loro complesso: non più quindi la persona, ma le situazioni di vita, diventando così uno strumento universale, in quanto applicabile a chiunque.
Se la parola handicap – presente nella precedente classificazione ICDH (Classificazione Internazionale della Disabilità e della Salute) – fosse stata mantenuta anche nell’ICF, sarebbe stato impossibile scardinare la sequenza terminologica tipica di quel documento e cioè malattia-menomazione-disabilità-handicap. Inoltre, essendo questa progressione incentrata solo sulla singola persona e sui suoi problemi, senza considerare la dimensione sociale e con una totale mancanza di multidisciplinarietà, non sarebbe stato nemmeno possibile allontanare qualsiasi tipo di classificazione dal corpo della persona».
Da un punto di vista pratico, questo cosa determina?
«Partendo dalla mia esperienza personale, analizzando ad esempio la progettazione di una casa, sarà fondamentale che io capisca se quanto vado proponendo alla persona con disabilità sia effettivamente consono al complesso di elementi in cui la persona stessa vive e quindi se ha delle entrate, un lavoro, un accesso a un credito e così via.
Sono considerazioni molto delicate che, se trascurate, possono determinare da un lato – guardando a criteri troppo ampi – il rischio di “dimenticarsi” proprio delle persone con disabilità. Dall’altro che un finanziamento espressamente rivolto ad esse non arrivi perché chi ne decide l’assegnazione – se il progetto viene inserito in un contesto troppo esteso da un punto di vista sociale, ambientale, familiare, scolastico – non lo giudichi più come effettivamente rivolto alle persone con disabilità.
Pur proiettandosi verso un modello sociale, l’ICF non arriva comunque a sposarlo pienamente, rimanendo al centro tra questo e quello medico-sanitario dell’ICDH, da cui storicamente proviene. Per questo il modello dell’ICF viene detto biopsicosociale, dalla definizione di salute dell’OMS che identifica quest’ultima con il benessere biopsicosociale della persona».
E al raggiungimento di questo benessere, se vogliamo, contribuisce anche l’Universal Design o progettazione universale…
«Sì, perché lo svantaggio nella disabilità è in gran parte causato dalla mancanza di risorse, opportunità e soprattutto di adattamenti ambientali. All’Universal Design si arriva attraverso una profonda riflessione sull’impatto che l’ambiente esercita su ciascuno di noi e sulle capacità che esso ha di influenzare le nostre vite, che è partita dagli Stati Uniti già tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con i primi passi verso la rimozione delle barriere architettoniche. Evolutosi poi negli anni Settanta, tale approccio entra in una fase in cui non vengono più presi in considerazione solo gli ostacoli fisici, bensì tutti gli aspetti della vita.
La prima volta che si utilizza l’espressione Universal Design è nel 1985, ma è alla fine del triennio di lavoro 1994-97 che vengono definiti i sette princìpi alla base della progettazione universale [vedi l’elenco in fondo all’articolo, N.d.R.], applicabili nella realizzazione di qualsiasi tipo di prodotto e ambiente (naturale, costruito, virtuale), destinato all’utilizzo da parte del maggior numero di utenti possibile, senza la necessità di adattamenti specifici.
Così, come l’ICF classifica delle esperienze, delle condizioni ambientali, attribuendo loro un’ipotetica connotazione universale che può interessare, prima o poi, qualsiasi essere umano, allo stesso modo, nell’ambito dell’Universal Design, per chi realizza qualsiasi tipo di prodotto, assume sempre più importanza il seguente concetto: devo basarmi sui princìpi della progettazione universale perché non sono ancora una persona con disabilità, ma sono comunque consapevole che un giorno potrei esserlo anch’io, magari solo in determinati contesti, e allora potrei giovarmi di questo prodotto senza richiedere modifiche e interventi aggiuntivi».
*Testo pubblicato dal n. 159 di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Per gentile concessione di tale testata.
– Equità d’uso
– Flessibilità d’uso
– Uso semplice e intuitivo
– Informazione percepibile
– Tolleranza all’errore
– Basso sforzo fisico
– Misure e spazi adatti all’avvicinamento e all’uso