È gridare nel deserto dire che il sistema di welfare dovrebbe coinvolgere diversamente famiglie, territori e comunità?

di Guido Trinchieri*
«A proposito del “Dopo di Noi” delle persone con disabilità – scrive Guido Trinchieri – il sistema di welfare dovrebbe ragionare su un diverso coinvolgimento delle famiglie, dei territori e delle comunità, ad esempio puntando sulle “Fondazioni di Comunità” (o “di Partecipazione”), già attive in diverse aree del territorio nazionale, possibile soluzione particolarmente versatile, capace di coinvolgere la persona con disabilità e/o la sua famiglia, unitamente agli altri soggetti pubblici e privati»

Ombre di adulto e ragazzo davanti a un tramontoChi scrive ha convintamente dato il proprio contributo alla Legge 112/16 [nota anche come “Legge sul Dopo di Noi”, N.d.R.] con incontri, convegni, articoli e audizioni sia alla Camera che al Senato, ben sapendo di lavorare ad uno strumento importante per il mondo della disabilità, in particolare per genitori allo stremo che cercano alternative all’inevitabile abbandono dei propri figli a cui vorrebbero garantire il diritto ad una vita dignitosa, indipendente dalla famiglia e dal tipo di disabilità.
«Le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione» (articolo 19 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità): per coloro che sono privi della capacità di autodeterminazione, non in grado di scegliere… – e ce ne sono! – l’applicazione di questo principio sacrosanto, Legge dello Stato [Legge 18/09, N.d.R.], dovrebbe imporre lo studio consapevole e corale di quell’“accomodamento ragionevole” di cui parla la stessa Convenzione ONU. A chi sentenzia che tutti sono in grado di scegliere, chiedo di interrogare Emilio e Daniele e illuminarmi in merito ai loro desiderata…

Sui limiti e sui problemi connessi all’applicazione della Legge 112/16 si sta versando il classico fiume di inchiostro con un approccio spesso teorico. La realtà è che sono stati avviati pochi progetti, sconclusionati, discontinui, quasi tutti finalizzati ad un “Durante Noi” che non ha alcuna prospettiva di continuità, stabilità e durabilità, destinati ad un’esigua minoranza chiamata ad allenarsi per una corsa per la quale non esiste la pista! Ma per tutti gli altri cosa si propone se non l’istituzionalizzazione?

La disciplina che elabora i dati che consentono allo Stato di assumere decisioni si chiama appunto statistica. Vediamo cosa ci racconta su questo argomento.
La Nota ISTAT del 31 maggio 2017, che illustra le principali informazioni sulle persone con disabilità e sui servizi per la disabilità, con particolare riguardo ai temi di interesse della Legge 112/16, dice che:
1. Circa la metà delle persone con disabilità grave, con meno di 65 anni, non riceve aiuti dai servizi pubblici; pertanto, il carico dell’assistenza grava completamente sui familiari conviventi.
2. Sulle circa 52.000 persone coinvolte, il 19% (pari a circa 10.000 persone), non può contare su alcun aiuto. Si tratta di un segmento di persone con gravi disabilità, in condizioni particolarmente critiche, per le quali il “Dopo di Noi” è già iniziato.
3. La platea dei potenziali destinatari di interventi per il “Dopo di Noi” è costituita da un totale di circa 127.000 persone, di cui 38.000 persone con gravi disabilità prive di entrambi i genitori, 89.000 persone che vivono con genitori anziani (di età superiore ai 64 anni).

Prendendo come riferimento, ad esempio, il finanziamento di 78,1 milioni di euro di cui alla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 62 del 13 marzo 2021, con una semplice divisione si evidenzia che i fondi resi disponibili dalla Legge 112/16 equivalgono a circa 615 euro annui pro capite. Anche tenendo conto del Fondo Nazionale Politiche Sociali, del Fondo Nazionale per Non Autosufficienze e di ipotetiche altre linee di finanziamento regionali, statali ed europee… resta evidente la forte sproporzione fra i bisogni e le esigue risorse pubbliche disponibili.
In questa situazione è velleitario – anzi direi quasi insultante -, parlare di deistituzionalizzazione, in una situazione in cui la maggioranza delle strutture residenziali è di carattere comunitario (mediamente oltre il 90%, mentre solo il 9,6% è di tipo familiare).
Il vivace dibattito in atto sul “Dopo di Noi” sembra altresì concentrarsi sulla difesa corporativa di pochi, statuendo procedure discriminatorie a discapito di soluzioni solidaristiche ed universalistiche proprie del sistema democratico.
Vorrei che le Istituzioni, ma anche le Federazioni, le Associazioni, le persone con disabilità… smentissero, su base scientifica, questa analisi; ne sarei felice! Potrei vivere serenamente gli anni che la sorte vorrà aggiungere ai miei inquieti settantacinque. Se invece, più realisticamente, dovessimo prendere collettivamente coscienza che “il re è nudo”, ci dovremmo porre il problema di come invertire la rotta.

La Consulta della Regione Lazio per i Problemi della Disabilità e dell’Handicap, attraverso un approfondito dibattito interno, ha espresso prima nel Libro Verde e oggi nel Libro Bianco il proprio punto di vista e ha formulato le proprie proposte: il sistema di welfare dovrebbe ragionare su un diverso coinvolgimento delle famiglie, dei territori e delle comunità! In tal senso, si è individuato nelle “Fondazioni di Comunità” (o “di Partecipazione”), già attive in diverse aree del territorio nazionale, una possibile soluzione, con uno strumento reinventato negli Anni Novanta negli Stati Uniti, particolarmente versatile, capace di coinvolgere la persona con disabilità e/o la sua famiglia, unitamente agli altri soggetti pubblici e privati. L’affidabilità, la stabilità e l’immutabilità degli scopi statutari consentono alle famiglie di avere un interlocutore prossimo a cui affidare i propri figli, ed eventualmente i propri beni. Le Regioni dovrebbero dotarsi di appropriati strumenti normativi di supporto, di controllo e di governance per consentire alle Amministrazioni locali (Comuni, Municipi, ASL) di operare.
Il circolo virtuoso che questo modello è in grado di attivare ha buone probabilità di portare il sistema all’autosostenibilità economica, anche per marcate analogie con le antiche forme di solidarietà territoriale che hanno generato patrimoni cospicui, ancora oggi nella disponibilità delle IPAB (Istituzioni Pubbliche di Beneficenza e Assistenza). In questo meccanismo, tra l’altro, hanno le radici opere sociali e grandi nosocomi romani).

E concludo con alcuni riferimenti bibliografici sulle stesse Fondazioni di Comunità.
Molte e variegate sono le esperienze sul territorio nazionale. Presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa è attivo uno specifico gruppo di studio, particolarmente qualificato. Le Fondazioni di Comunità (o di Partecipazione) sono realtà «sia private sia partecipate dagli enti pubblici, capaci di raccogliere e vincolare il patrimonio proveniente da una comunità territoriale di riferimento al perseguimento di fini di solidarietà sociale e tutela dei diritti delle persone in condizione di disabilità, in un contesto in cui l’intera collettività è chiamata a partecipare insieme alle istituzioni alla realizzazione di percorsi di inclusione» (Carrozza, P. e Biondi Dal Monte, F., Il ruolo dell’ente locale nei servizi alla persona. Il “dopo di noi” e le fondazioni partecipate dagli enti pubblici, in E. Vivaldi (a cura di), Disabilità e sussidiarietà, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 173-210).
Le Fondazioni di Partecipazione mescolano insieme elementi tipici delle Associazioni e delle Fondazioni, in particolare la democraticità e la partecipazione (caratteristiche della dimensione associativa) con la stabilità dei fini e la tutela del patrimonio (riconducibili alla natura di Fondazione). Tali elementi favoriscono la possibilità di coinvolgere i territori e le comunità nella programmazione, gestione e finanziamento dei servizi in quanto nuovi soggetti – sia pubblici che privati – possono aderire alla Fondazione, stabilirne le modalità operative e partecipare con le proprie risorse (economiche, professionali, di tempo) alla realizzazione di essa.
Un altro tratto distintivo è il protagonismo delle famiglie (Barnes, M., Utenti, carer e cittadinanza attiva. Politiche sociali oltre il welfare state, Trento, Erickson, 1999).
La Fondazione di Partecipazione non è un servizio o un ente terzo in cui le famiglie possono “inviare” i propri familiari con disabilità, bensì un’organizzazione promossa e governata dalle stesse famiglie, uno strumento per rinforzare la propria azione di cura (intesa come care) ed estenderla nel futuro quando non saranno più in grado di occuparsi dei figli.
Infine, la Fondazione di Partecipazione non è un’organizzazione isolata, bensì una realtà integrata sul territorio e inserita nelle reti formali e informali della comunità (Folgheraiter, F., La cura delle reti. Nel welfare delle relazioni (oltre i Piani di zona), Trento, Erickson, 2006) e del sistema di welfare locale (Bifulco, L., Il welfare locale. Processi e prospettive, Roma, Carocci, 2015).

«Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali» (don Lorenzo Milani): si, c’è! Quando nel fare le parti ci si dimentica di qualcuno!

*Presidente dell’UFHA (Unione Famiglie Persone con Disabilita), vicepresidente vicario della Consulta Regionale del Lazio per i Problemi della Disabilità e dell’Handicap, trustee del “Trust Fratelli Trinchieri – Casa degli Amici”.

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