Servizi educativi per persone con disabilità intellettiva: spostare il centro

di Edgar Contesini*
«I centri educativi per persone con disabilità intellettive – scrive Edgar Contesini – devono cambiare – a partire proprio dallo sguardo di operatrici e operatori – la rappresentazione sociale e lo status della persona con disabilità intellettiva; perché non sia più il “caso” da prendere in carico (e da adattare il più possibile alla società dominante), ma un soggetto con un progetto esistenziale da affiancare nel mondo. Quello di tutti e tutte»

Persona con disabilità intellettivaLo stimolo per questo mio contributo è il testo di Giovanni Merlo apparso su Superando il 16 luglio scorso, con il titolo Libere tutte, le persone con disabilità, ma proprio tutte. Come educatore professionale che lavora da quasi trent’anni, l’articolo di Merlo mi trova in pieno accordo e vorrei portare allora un contributo alla discussione sulle proposte e sulle resistenze intorno ai richiami al cambiamento anche dei servizi educativi diurni per persone con disabilità intellettiva. Un tema che si sta rivelando perturbante e disturbante e perciò spesso silenziato ed evitato.

I centri educativi per persone con disabilità intellettiva sono senz’altro un punto fermo. Proprio fermo. Immobile. La loro quotidianità è congelata da decenni in un unico modello organizzativo e operativo, quello delle cosiddette attività, dei laboratori, scatole per contenere l’esistenza e passare il tempo, creando l’illusione di essere nel mondo.
Il centro educativo è una finzione sottile, un mondo parallelo e subdolo che appare aperto, proiettato all’esterno; ha la possibilità di prendere contatti, di attivare collaborazioni, ma finisce comunque per chiudere al proprio interno la vita della persona con disabilità intellettiva, per governarla e dirigerla, inviandola su destini progettati, noti, ripetitivi, controllabili.
Il funzionamento di esso è dettato da normative che ne ordinano gli aspetti strutturali, burocratici e quantificano in termini temporali e di rapporto numerico l’interazione educatore-educatrice/persona con disabilità, consacrando il perpetuarsi delle classificazioni e della separazione tra gruppi sociali.
Ma come possiamo parlare di vita, di libertà, se dobbiamo rispettare quanto scritto in documenti (PEI-Progetti Educativi Individualizzati compresi) che nulla hanno da spartire con l’esistenza di una persona? Se, in caso di controlli eseguiti con mentalità e metodi che sanno di rigidità stantia, dobbiamo mostrarci nell’esecuzione dei laboratori già decisi, con i loro orari, con l’elenco stabilito e dichiarato dei partecipanti? Se il destino delle persone con disabilità intellettiva è deciso sulla base di quella illusione statistica che chiamiamo diagnosi?

Il cosiddetto centro finisce per essere un mentitore che parla di libertà, di emancipazione, di autodeterminazione e di autorappresentanza, mentre nega tutto questo nei fatti, nella linea del suo mandato sociale, nella sua necessità di sopravvivere in quanto azienda, e per me educatore/educatrice, allora, nella necessità di mantenere un posto di lavoro. E chi va al centro, in realtà va al margine.
L’evidenza che Giovanni Merlo pone sulle persone “con necessità di sostegno intensivo” va presa e tenuta costantemente sotto i riflettori. Guardando ai percorsi di cui molto si parla nei convegni, che magari hanno una certa risonanza sui media e per i quali si aprono diversi bandi, si tratta per lo più di progetti certamente necessari e importanti, ma dedicati a persone con disabilità intellettiva che sono in grado di fare qualcosa: che sia sport, che sia lavoro, che sia arte, che sia svago… Tanto che sorge il sospetto che si tenda a valorizzare soprattutto la rappresentazione sociale positiva di coloro che possano avvicinarsi alla sedicente normalità, nelle azioni e nei costumi sociali.
E per chi non può fare nulla? Ma davvero nulla. Per coloro che non fanno rumore o non ne fanno abbastanza, nella stanza del servizio come nella comunità; per coloro che ne fanno troppo, di rumore, e si palesano solo con i cosiddetti “comportamenti problema” (per chi?). Figure avulse dal mondo che rimangono a carico di chi, a vario titolo, se ne deve prendere cura.
In tanti, troppi servizi, la loro quotidianità è segnata solo dal controllo e dall’assistenza. Il lavoro con loro è in realtà su di loro e sembra potersi esaurire nelle pratiche di contenimento o accudimento, secondo i casi. Lontani, troppo lontani, dai consueti modelli comunicativi, agli occhi disattenti e disinteressati i corpi finiscono per coincidere con i rispettivi organismi, che rispondono a istanze fisiologiche o psicotiche; corpi che non sono accompagnati nel mondo, ma spostati o collocati nello spazio.
La possibilità di andare oltre è lasciata troppo spesso alle iniziative individuali di educatrici ed educatori disposti a scavare, a portare all’altro una parola e un contatto che non siano solo funzionali alla gestione della persona. Anche se, certamente, dovremmo essere noi, educatrici ed educatori, i diretti fautori della libertà di altri, assumendoci anche la responsabilità e il rischio di interpretare, di decidere cosa sia libertà, cosa sia il bene per l’altra persona, il cambiamento non può rimanere ad appannaggio dei singoli, confinato nelle pratiche di servizi particolarmente attenti; se non permea la comunità, la libertà come condizione di esistenza per le persone con disabilità intellettiva rimane un’elargizione, che può essere concessa o negata secondo convenienza.
Ma perché ciò avvenga, il lavoro culturale dovrà diffondersi anche dalle varie istituzioni formative di educatori/educatrici, pedagogisti/pedagogiste, assistenti sociali, OSS ecc. Oltre alle nozioni e alle competenze, dovranno dedicare particolare attenzione alla loro critica costante, formando i futuri professionisti a quel pensare filosoficamente (nel suo senso originario) che oggi manca.
Oggi prendono servizio ancora tante operatrici e tanti operatori, a vario titolo, che acriticamente accolgono ciò che già c’è e si inseriscono nel dispositivo che trovano limitandosi a perpetuarlo. Ma in questo modo si diviene funzionari del controllo sociale, si lavora per tenere a bada la scomodità di una reale presenza comunitaria delle persone con disabilità intellettiva; noi educatori/educatrici sembriamo così dei secondini che tengono aperte le porte ma controllano che nessuno esca veramente.

I centri educativi, così come sono, non possono realmente coadiuvare la massima libertà possibile. Per farlo, devono iniziare a smantellare la loro stessa struttura. Non nel senso di chiudere, come dicono letture sbrigative e di comodo delle ultime normative di alcune Regioni, ma nel senso di cambiare – a partire proprio dallo sguardo di operatrici e operatori – la rappresentazione sociale e lo status della persona con disabilità intellettiva; perché non sia più il caso da prendere in carico (e da adattare il più possibile alla società dominante) e nemmeno la persona al centro, ma un soggetto con un progetto esistenziale da affiancare nel mondo. Quello di tutti e tutte.

*Educatore professionale, naturalista, animatore teatrale. Lavora in un CSE (Centro Socio Educativo) di Cinisello Balsamo (Milano), insegna nei corsi professionali per Operatori Socio Sanitari (OSS), tiene laboratori teatrali e naturalistici aperti a tutti e tutte.

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