Con un recente provvedimento, la Corte di Cassazione ha confermato la validità del licenziamento di un dipendente di un Punto Blu della Società Autostrade, per avere offeso pesantemente una collega con disabilità, deridendola e umiliandola a causa della sua condizione fisica. Un provvedimento eccessivo? In realtà le offese di questo tipo nei confronti delle persone con disabilità sono considerate nell’ordinamento giuridico come fatti fortemente discriminanti
È certamente degna di attenzione la decisione della Corte di Cassazione Civile (Sezione Lavoro), che con l’Ordinanza n. 20036 del 18 luglio scorso, ha confermato la validità del licenziamento di un dipendente di un Punto Blu della Società Autostrade, per avere offeso pesantemente una collega con disabilità, paragonandola a una gallina, riproducendone il gesto e il verso; così, deridendola e umiliandola a causa della sua condizione fisica.
Il comportamento è stato ritenuto dai giudici della Suprema Corte assolutamente contrario ai doveri fondamentali del lavoratore; in particolare, la Corte ha dato grande importanza alla lesione della dignità della persona con disabilità, evidenziando che la condotta incriminata è inaccettabile e, pertanto, non può essere ammessa neppure sul posto di lavoro. Inoltre, l’autorevole Magistratura ha ribadito il principio giuridico per cui il rispetto delle persone, soprattutto se appartenenti alle categorie più vulnerabili, sia un valore fondamentale da tutelare e promuovere in tutti gli àmbiti, compreso quello professionale.
Di primo acchito, l’estremo provvedimento disciplinare può sembrare ai più eccessivo, ma in realtà non lo è: le offese di questo tipo nei confronti delle persone con disabilità sono considerate nell’ordinamento giuridico come fatti fortemente discriminanti. Qualsiasi forma di discriminazione nei confronti di una persona con disabilità, o di un suo familiare, è ritenuta infatti una violazione della normativa dei diritti umani.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09 stabilisce all’articolo 2 (Definizioni): «Per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso Il rifiuto di un accomodamento ragionevole».
Oltre poi al superiore panorama sovranazionale, bisogna tenere in considerazione il nostro sistema legislativo che all’articolo 2087 del Codice Civile recita: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Inoltre, è necessario ottemperare al Decreto Legislativo 216/03 che garantisce l’attuazione del principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dalla disabilità, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, sia nel settore pubblico, sia in quello privato, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non rappresentano un motivo di discriminazione.
In quest’ottica, dunque, sia le molestie, concepite come comportamenti indesiderati, sia il mobbing, specialmente nei confronti delle persone con disabilità o fragili, vengono ritenute forme di discriminazione vera e propria. In particolare, il mobbing si definisce come una violenza psicologica che può essere esercitata sul lavoratore, sia dal datore di lavoro, sia dai colleghi, sotto forma di maltrattamenti, vessazioni, aggressioni, umiliazioni, intimidazioni, persecuzioni, mortificazioni e offese. È proprio in questi casi che può rientrare il caso citato sopra. Infatti, nonostante il contegno disdicevole in questione possa sembrare poco grave ai meno attenti e suscitare infantile ilarità, esso dev’essere sanzionato nella giusta misura, perché provoca pesanti conseguenze a livello psicologico sulla vittima, soprattutto se prolungato nel tempo. Sussiste inoltre la possibilità che il colpevole assuma via via altre condotte persecutorie nei confronti dello stesso collega.
Una simile situazione, come si può facilmente immaginare, comporta sicuramente la seria compromissione delle capacità lavorative e l’autostima della vittima a danno della salute e della personalità, manifestandosi in problematiche psico–fisiche come stress, ansia, fobie, attacchi di panico, disturbi del sonno, problemi al sistema digestivo, emicranie, assunzione di droghe e alcool.
Considerata la complessità e la gravità di questo genere di atti commessi, è giusto pensare che il datore di lavoro se ne occupi seriamente e, se del caso, prenda i dovuti provvedimenti. In particolare, una volta avuta notizia dell’ipotesi di illecito, va intrapreso repentinamente il relativo accertamento ai sensi della Legge 300/70, normativa che tutela la dignità e la libertà di ogni lavoratore e la libertà dell’attività sindacale.
Tenendo ben in considerazione tutti questi fattori, risulta fondamentale raccogliere e conservare, possibilmente in ordine cronologico, tutto il materiale scritto a disposizione: eventuali lettere di contestazione, mail offensive, comunicazioni trasmesse per messaggistica, whatsapp, Instagram e Facebook, ordini di lavoro non attinenti al ruolo della persona. Molto importante è anche la documentazione medica comprendente i certificati, sia del medico di base che di quello competente, attestanti la data dell’insorgenza dei disturbi e la prescrizione dei farmaci, sia degli specialisti, psicologo, psichiatra, Centro di Salute mentale, Clinica del lavoro e la perizia medico-legale. Inoltre, risulta importante raccogliere anche le testimonianze dei colleghi di lavoro, pur tenendo in considerazione la loro possibile reticenza.
In questi casi, di fondamentale importanza è la figura dell’avvocato esperto di diritto del lavoro; il dipendente (con e senza disabilità) che si ritenga discriminato può infatti rivolgersi a lui, per verificare la sussistenza dei presupposti per agire giudizialmente, al fine di ottenere la tutela dei propri diritti.
Dal punto di vista legislativo, come si vede, il fenomeno della discriminazione è piuttosto ampiamente trattato. Si profilano, pertanto, due fattispecie discriminatorie, così come fissate dalla Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni): quella diretta, quando una persona è specificamente trattata meno favorevolmente di altre in una situazione analoga; e quella indiretta, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio.
Si può concludere affermando che se la coscienza sociale ha fatto passi da gigante circa la giusta considerazione dell’aspetto in questione, nondimeno è avvenuto dal punto di vista legislativo, come pure da quello processuale: tutto ciò deve contribuire a contrastare sempre più l’intollerabile fenomeno.
*Il presente servizio è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Le offese a una collega con disabilità: un caso di licenziamento che trova fondamento nella legge”, e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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