Abbiamo apprezzato lo spirito costruttivo e attivo con cui la Delegazione della Santa Sede ha partecipato ai negoziati nel Comitato Ad Hoc (Ad Hoc Committee), incaricato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di redigere una Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ed è proprio per questo che ci rivolgiamo alle massime autorità vaticane con questa lettera aperta, convinti di poter dialogare con chi diffonde il messaggio di Cristo e difende la dignità delle persone più povere e più escluse.
L’approvazione della Convenzione il 13 dicembre 2006 a New York ha significato un sostanziale passo in avanti per i 650 milioni di persone con disabilità che abitano la terra, oltre l’80% dei quali vivono nei Paesi in cerca di sviluppo.
Le grandi violazioni dei diritti umani che devono subire sono testimoniate da alcuni dati dell’ONU: il 98% delle persone con disabilità che vivono nei Paesi in cerca di sviluppo non hanno accesso ai servizi riabilitativi e ad appropriati servizi di base, più dell’80% nel mondo non ha un impiego e solo il 2% dei minori con disabilità ha potuto accedere ad un’educazione formale.
La condizione di disabilità è causa ed effetto di povertà perché le persone con disabilità sono soggette a discriminazioni e a mancanza di pari opportunità che producono una limitazione alla partecipazione sociale e violano ogni giorno i loro diritti umani.
La visione negativa che la società trasferisce sulle persone con disabilità produce un fortissimo stigma sociale che ha conseguenze in tutti i campi della vita economica, culturale, politica e sociale. Per questo le persone con disabilità rappresentano i più esclusi fra gli esclusi, i più discriminati fra i discriminati, i più poveri tra i poveri.
La Convenzione approvata recentemente dall’ONU interviene per dare dignità e valore alle persone con disabilità e proteggerle dal punto di vista legale da trattamenti che per secoli le hanno relegate ai margini della società, segregate in istituti, escluse dall’accesso a diritti, beni e servizi.
«Questo è uno dei maggiori impegni della Santa Sede», ha affermato durante l’Assemblea Generale dell’ONU di dicembre monsignor Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite – che ha anche dichiarato: «La Santa Sede ha ripetutamente chiesto la completa e caritatevole integrazione delle persone con disabilità nella società, convinta che esse siano pienamente possessori di diritti umani inalienabili», come ci siamo permessi di tradurre («has consistently called for disabled individuals to be completely and compassionately integrated into society, convinced that they possess full and inalienable human rights»).
La Convenzione vieta infatti trattamenti discriminatori, che hanno impedito e tuttora impediscono di godere di tutti i diritti umani delle altre Convenzioni ONU sulla base dell’eguaglianza rispetto agli altri cittadini. Da qui l’inserimento di una serie di articoli che intervengono a modificare l’approccio tradizionale che relega le persone con disabilità nel campo della salute e dell’assistenza caritatevole.
In tal senso si parla dunque di diritti apparentemente inalienabili, ma spesso violati, come il diritto alla vita (articolo 10), l’uguale riconoscimento come persona davanti alla legge (12), la protezione dell’integrità della persona (17), il superamento, tramite la Vita Indipendente e l’inclusione nella comunità, di trattamenti istituzionalizzati (19), la mobilità personale (20), l’accessibilità (9 e 21), il rispetto per la famiglia e la casa (23), per la privacy (22), l’accesso in eguaglianza di opportunità alla salute (25), all’educazione (24), al lavoro (27).
Basta poi scorrere i princìpi stessi posti alla base della Convenzione (articolo 3), per capire quale rivoluzione essa intenda mettere in atto: dignità; autonomia individuale; libertà di scelta; indipendenza delle persone; non discriminazione; piena ed effettiva partecipazione ed inclusione nella società; rispetto delle differenze e accettazione della disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità; eguaglianza di opportunità; accessibilità; uguaglianza tra uomini e donne; e, per i bambini con disabilità, rispetto per l’evoluzione delle capacità e del diritto a preservare la loro identità.
In questo nuovo approccio culturale, le organizzazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari hanno rivendicato il diritto (riconosciuto dall’articolo 4) di essere protagonisti del processo di inclusione sociale, che deve garantire loro la piena partecipazione alle decisioni che riguardano la loro vita (Niente su di noi senza di noi è stato lo slogan dell’International Disability Caucus (IDC), che rappresentava nel Comitato Ad Hoc sessanta organizzazioni internazionali e nazionali).
Proprio dunque partendo dalla consapevolezza di quale straordinario strumento di promozione dei diritti umani sia la Convenzione, abbiamo appreso con sorpresa e con un certo sconcerto la posizione espressa dalla Santa Sede di non voler firmare, il 30 marzo prossimo al Palazzo di Vetro dell’ONU a New York, la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Abbiamo cercato anche di comprendere le motivazioni di questa scelta, ma francamente non ci siamo riusciti. Se la Santa Sede non condivide alcuni commi o addirittura alcuni articoli della Convenzione, lo strumento previsto dalla legislazione internazionale in materia di Convenzioni è quello di esprimere una riserva sul testo (o sui testi) che non si vogliono sottoscrivere, ferma restando la firma agli altri articoli.
Perché la Santa Sede pensa di non poter percorrere questa strada? Non condivide l’idea che si debba passare da un modello medico e caritativo della disabilità ad un modello basato sul rispetto dei diritti umani? Eppure papa Giovanni Paolo II ha più volte indicato che la Chiesa appoggia le battaglie per la tutela dei diritti umani in tutto il mondo. È forse preoccupata che la Convenzione possa mettere in crisi il modello caritativo e assistenziale che in Italia e all’estero ha relegato nelle istituzioni totali migliaia di persone con disabilità? (Si badi bene che non si nega qui il valore sommo della carità e quello meritevole dell’assistenza; si respinge bensì un approccio, ormai superato, legato esclusivamente allo stato di bisogno e non al diritto). Vuole difendere giustamente i diritti alla vita delle persone con disabilità al momento della nascita e si dimentica delle persone con disabilità che vivono discriminazioni, mancanza di pari opportunità, ostacoli e barriere alla piena partecipazione sociale e all’accesso a tutti i diritti di cittadinanza?
Anche noi difendiamo il diritto alla vita delle persone con disabilità – la nostra vita – sapendo che questo diritto è sempre più debole e difficile da difendere, stante l’unica, continua e incessante propaganda dell’«indegnità della vita quando è presente una disabilità».
Le Persone con disabilità accedono alla vita solo – e sottolineiamo solo – se i loro genitori sfidano questo stereotipo e resistono alle continue pressioni che i medici, detentori unici del diritto a sentenziare sulla qualità della nostra vita, fanno su di loro affinché decidano di interrompere quella vita «indegna di essere vissuta».
E questa nostra affermazione è in linea con quanto ha dichiarato l’arcivescovo Celestino Migliore, che citiamo ancora testualmente: «While there are many helpful articles in the Convention, including those that address education and the very important role of the home and the family, surely the living heart of this document lies in its reaffirmation of the right to life. For far too long, and by far too many, the lives of people with disabilities have been undervalued or thought to be of a diminished dignity and worth», da noi tradotto con: «Sebbene la Convenzione presenti molti provvidi articoli, quali quelli rivolti all’istruzione e all’importantissimo ruolo dell’ambiente domestico e della famiglia, è certo che il cuore pulsante di questo documento è la riconferma del diritto alla vita. Per troppo tempo e troppo a lungo, la vita delle persone con disabilità è stata sottostimata o ritenuta di minore dignità e valore».
Addirittura, in riferimento all’articolo 25 sulla salute – articolo che ha preceduto e causato l’affermazione di non voler procedere alla firma della Convenzione – si può leggere una dichiarazione di approvazione dell’articolo stesso: «Finally, and most importantly, regarding article 25 on health, and specifically the reference to sexual and reproductive health, the Holy See understands access to reproductive health as being a holistic concept that does not consider abortion or access to abortion as a dimension of those terms. Moreover, we agree with the broad consensus that has been voiced in this chamber and the travaux préparatoires that this article does not create any new international rights and is merely intended to ensure that a person’s disability is not used as a basis for denying a health service», da noi tradotta con: «Da ultimo, e più importante, rispetto all’articolo 25 sulla salute e, nello specifico, al riferimento riguardante la salute riproduttiva e sessuale, la Santa Sede comprende che l’accesso alla salute riproduttiva è inteso come concetto olistico che non considera l’aborto come una dimensione che gli appartiene. Inoltre, condividiamo l’ampio consenso espresso in questa sede e durante i lavori preparatori, ovvero che questo articolo non crea nuovi diritti internazionali, ma vuole semplicemente assicurare che la disabilità di una persona non sia usata quale base per la negazione di un servizio sanitario».
Ed ecco allora la motivazione al rifiuto della firma: «However, even with this understanding, we opposed the inclusion of such a phrase in this article, because in some countries reproductive health services include abortion, thus denying the inherent right to life of every human being, affirmed by article 10 of the Convention. It is surely tragic that, wherever fetal defect is a precondition for offering or employing abortion, the same Convention created to protect persons with disabilities from all discrimination in the exercise of their rights, may be used to deny the very basic right to life of disabled unborn persons», da noi tradotta con: «E tuttavia, anche in presenza di questo intendimento, ci siamo opposti all’inclusione di tale frase in questo articolo, perché in alcuni Paesi i servizi di salute riproduttiva includono l’aborto, negando così l’innato diritto alla vita di ogni essere umano, affermato dall’articolo 10 della Convenzione. È sicuramente tragico che, in tutti i casi in cui una malformazione fetale costituisce una precondizione per l’aborto, la stessa Convenzione creata per proteggere le persone con disabilità da ogni discriminazione nell’esercizio dei loro diritti, possa essere usata per negare il diritto basilare alla vita della persone con disabilità non nate».
Senza voler intervenire sulla sovranità e sull’indipendenza di giudizio di alcuno, né tantomeno della Santa Sede, la lettura della frase incriminata può aiutare a far comprendere il nostro stupore di fronte al rifiuto di firmare.
Leggiamo prima il capoverso incriminato in inglese: a) Provide persons with disabilities with the same range, quality and standard of free or affordable health care and programmes as provided other persons, including in the area of sexual and reproductive health and population-based public health programmes e poi in italiano: «(a) Fornire alle persone con disabilità la stessa gamma, qualità e standard di servizi e programmi sanitari, gratuiti o a costi sostenibili, forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nell’area sessuale e salute riproduttiva e i programmi di salute pubblica basati sulla popolazione».
Il riferimento all’accesso ai servizi sanitari, compresi quelli relativi alla sfera sessuale e riproduttiva, significa finalmente riconoscere che le persone con disabilità possano avere una vita affettiva e riproduttiva e quindi riconoscere loro la possibilità di vivere questa vita – quando questa è possibile – non da eterni figli ma da protagonisti. Affermare perciò che questa Convenzione possa essere usata per negare il diritto alla vita della persone con disabilità significa pensare che la salute riproduttiva appartenga solo alle persone non disabili che possono decidere se abortire o meno.
Questa Convenzione e questo articolo di essa sono dedicati alle persone con disabilità, uomini e donne, che attualmente e normalmente non possono accedere, prima ancora che all’aborto, ai basilari servizi sanitari di prevenzione e cura delle patologie anche quelle riguardanti la sfera riproduttiva. E se per caso qualcuno sta pensando ad un via libera all’aborto sulle donne con disabilità, specialmente intellettiva, vittime di violenze e abusi sessuali, rispondiamo che purtroppo questa Convenzione non potrà fermare tali abusi e le loro nefaste conseguenze, ma certamente farà diventare colpa grave questi abusi sempre e ovunque impuniti.
Questa Convenzione non potrà fermare quei genitori che rinunciano ai loro figli perché spaventati dalla disabilità. Certamente, però, non fermerà quei genitori, uomini e donne con disabilità, che vorranno, perché messi in condizione, generare vita nonostante la disabilità loro e di eventuali loro figli.
Il nostro movimento da molto tempo sta cercando di spezzare la cortina di fumo che avvolge questi temi. Più volte, e inutilmente, abbiamo chiesto spazio sui mezzi di comunicazione per confutare le tesi del Protocollo di Groningen [testo contenente linee guida generali e specifici requisiti riguardanti l’eliminazione attiva della vita di neonati con gravi disabilità, N.d.R.] e del Collegio degli Ostetrici e dei Ginecologi Inglesi. Abbiamo scritto dichiarazioni ufficiali contro la pratica sistematica di eliminare i feti affetti da spina bifida. Abbiamo lottato e stiamo lottando affinché le persone con disabilità possano esistere e vivere, sottolineando che la disabilità non è una condizione soggettiva ma un rapporto sociale. Pensavamo che una firma unanime della Convenzione potesse essere un segnale forte alla cultura imperante che ci vede prevalentemente come “prodotti difettosi” e rifiuta di considerarci persone.
Dopo i tanti ostacoli e opposizioni che abbiamo superato durante la discussione nel Comitato Ad Hoc da parte di Paesi dove i diritti umani non sono garantiti ai cittadini, ci sembra paradossale che ora sia la Santa Sede a porre in dubbio la necessità di rimuovere le profonde ingiustizie che vivono le persone con disabilità nel mondo.
Ci auguriamo dunque che questa lettera aperta possa contribuire a far crescere nella consapevolezza dei milioni di cattolici nel mondo e della stessa Curia Vaticana, quanto importante sia questa Convenzione per le persone con disabilità.
*Presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).
**Presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
***Rappresentante Italiano presso l’EDF (European Disability Forum).