Cito uno dei giudizi critici (che ci sono in rete) su Se ti abbraccio non aver paura, il romanzo che ho scritto ascoltando il viaggio di Franco Antonello con Andrea, ragazzo autistico: «Trattasi della categoria di libro messaggio di speranza piuttosto che di opera letteraria. Io credo che il dolore di una infermità così drammatica del proprio figlio, che è così profondamente personale, difficilmente possa essere veicolata dalla penna di un terzo. Una catena di espressione così lunga fa fatica a mantenere la verità. Ho trovato il reportage favoleggiante e oltremodo ottimisticamente positivo, quando l’autismo è una roba durissima. Andrea, il figlio protagonista di questa scorribanda transamericana, è bellissimo. Ma basta guardare una sua clip in rete per comprendere la perpetua odissea di chi gli sta vicino che è qualcosa di diverso dal costante sorriso e dalla costante tenerezza che accompagnano il diario di viaggio trascritto da Ervas. E alla fine non so neanche se faccia bene a chi in quest’inferno ci sia già dentro».
Vorrei che riflettessimo assieme su queste, pur legittime, osservazioni perché ci portano direttamente ad un punto: come si racconta la “disabilità”? E cosa si veicola raccontandola?
Parto dal punto di vista di chi ritiene che sia raccontabile, naturalmente. Che non vada ignorata, che non vada sottratta agli occhi e alle coscienze dei cittadini.
Il giudizio del lettore, ripeto legittimo, si costruisce affermando:
– non puoi raccontare una condizione di disabilità se non ne sei direttamente coinvolto
– l’hai raccontata troppo ottimisticamente
– raccontarla in un modo favolistico non fa bene a chi vive la vive
Non condivido nulla di questo, e non perché ho scritto questo libro. Possiamo sentire, empaticamente, lo stato emotivo degli altri e anche la sofferenza: è una precisa attitudine neuronale della specie umana. Solo quando i nostri neuroni specchio siano particolarmente appannati, possiamo mettere nei forni altri come noi, senza speciali turbamenti.
Non solo i narratori, ma tutte le persone raccontano, e condividono, le condizioni emotive degli altri. Naturalmente non possiamo immedesimarci negli altri, ma questo nemmeno quando il diverso da sé si lava le ascelle. Ognuno sente in modo unico. Dire che non si può collimare con un fatto esterno a sé è una piccola ovvietà che non porta a nulla.
Vorrei ricordare che anche nel significativo Nati due volte di Pontiggia, l’autore, che pur racconta la sua esperienza, fa parlare il dottor Frigerio: non c’era nessun ostacolo narrativo nel parlare di sé in prima persona, ma una certa distanza in queste vicende è spesso necessaria.
Quanto “ottimisticamente” è concesso raccontare la disabilità? C’è una soglia al di sotto e al di sopra della quale è accettabile? E, al contrario, andrebbe raccontata con quanta “tragicità”? Un vero racconto sulla disabilità dovrebbe essere un’enfasi di tormenti, fatiche, sensi di colpa, angosce? Si racconterebbe meglio? Solo momenti di pianto, di rabbia, di vuoto, tutte le stereotipie, la saliva, le smorfie, le parole attorcigliate, renderebbero più onore alla condizione? Sarebbe più realistico? Ci riempirebbe di più il cuore? Ci farebbe esclamare: fratello mio, voglio sollevarti dalla tua pena, dimmi cosa devo fare!
Come dice qualcuno: «la disabilità è merda e sangue». Ma tutta la vita lo è, eppure noi cerchiamo strategie per raccontarcela e raccontarla con una certa leggerezza. Se raccontassimo la vita ai nostri figli così: caro Carlo sei nato e morirai, non sai nemmeno quando o come, la vita è tutta qua. Ed è proprio così, però noi poniamo l’enfasi sul percorso, su quello che possiamo fare, cercando di farlo bene e ricavarne gratificazione.
Io credo che raccontare la “disabilità” sia un modo per portarla fuori da certe stanze chiuse e vanno cercati i modi per comunicare lo sforzo, che è in sé positivo, di affrontare la vita quando ti mette davanti scalini molto molto grandi. Io credo che vadano scelte le parole, sottolineati gli sforzi, enfatizzate le piccole conquiste.
Io sono uno di quelli che non crede che l’umanità capisca le tragedie perché viene bombardata da immagini di corpi straziati. Sono convinto che l’umanità progredisca attraverso pratiche costruttive, attraverso esperienze di collegamento tra persone, attraverso esempi positivi, attraverso obiettivi raggiunti. Che l’umanità esiti ad uccidere il proprio simile perché si è abituata ad una lunga, reale, utile, emozionante, esperienza di vicinanza e comunità.
La gente comune, se vede un “disabile” che ci prova, sente più empatia rispetto ad un “disabile” che si lamenta. Ma se si è avvicinata al problema facendo esperienze positive, poi diventa più attenta anche al lamento. Un padre che agisce con coraggio produce più effetti attorno a sé di uno che si lamenta. Con tutto il diritto di lamentarsi, benché inefficace.
Infine: non è la “disabilità” raccontata, ottimisticamente o meno, che fa bene o male a chi la vive. È il nostro livello di civiltà: noi continuiamo a ripetere, come scimmiette stupide, che andare sulla luna sia stato un grande passo per l’umanità. È stato un grande passo per la NASA. Un grande passo per l’umanità sarebbe quello di riconoscere nelle “disabilità” una delle possibilità della vita, una delle sue “confusioni”, e sentire d’istinto che sono parte della nostra specie e, come tali, parte di noi.
Senza bisogno di romanzi. O favole. Che servono solo in attesa che l’umanità cresca, ma non solo di numero.
Scrittore. Autore del libro “Se ti abbraccio non aver paura” (Marcos y Marcos, 2012).
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