I “gravissimi”: che noia!

di Giorgio Genta
«L’insistenza a ripresentare periodicamente il problema dei cosiddetti “gravissimi” - scrive Giorgio Genta - ovvero quelle persone con disabilità complesse che richiedono supporti assistenziali di particolare qualità, intensità e durata, - è generata dall’assoluta mancanza di risposte pratiche alle loro esigenze. E a quelle delle loro famiglie»

Uomo di profilo con espressione pensierosaQuello tra la perseveranza e la cocciuta testardaggine è un confine sottile, molto sottile, che viene percepito in maniera diversa a seconda della più o meno positiva predisposizione all’ascoltare (o al vedere) di chi lo valuta. E l’insistenza di chi scrive a ripresentare periodicamente il problema dei cosiddetti “gravissimi” – ovvero di quelle persone con disabilità complesse che richiedono supporti assistenziali di particolare qualità, intensità e durata – è generata dall’assoluta mancanza di risposte pratiche alle loro esigenze. E a quelle delle loro famiglie.
Risposte pratiche che vadano al di la del servizio televisivo bello ed episodico, andato in onda alle 23.35, dell’articolo di mezza pagina sul quotidiano prestigioso (magari a firma di chi vanta vaste esperienze professionali di gastronomia e filosofia zen…), del discorsetto da “autunno freddo” e “campagna elettorale calda” del politico che non ha avuto il coraggio – e la convenienza, dicono i maligni – di resistere alle pressioni delle più svariate lobby professionali nel finalizzare i quattro spiccioli che restano (o che restavano? Forse ora non ce ne sono davvero più!) in fondo al “borsellino governativo” nazionale o locale. Oppure, se è stato virtuosamente resistente, ha “girato” alle famiglie solo qualche decina di euro al mese, con mille steccati burocratici e livelli reddituali interposti.

Viene talvolta il sospetto che esistano ancora persone che vedono la disabilità, specialmente quella assai grave, come un “atto di Dio” al quale Dio solo può, volendo, porre rimedio, anche in termini economici e assistenziali e mascherano questa angusta visione da carità pelosa confessionale (anche laicamente confessionale), dietro tecnicismi ed equilibrismi verbali.
Altre considerano invece la disabilità come una nuova frontiera della finanza creativa, ovvero come l’occasione di arricchirsi a danno e dolore di chi dalla vita ha avuto assai poco, strappandogli quel poco. E non si tratta della vita stessa ma – peggio se possibile – della dignità e della speranza.
Altre ancora inventano slogan fantasiosi, tipo «se tutti pagano le tasse, i servizi ripagano tutti», ma in realtà le tasse aumentano costantemente, mentre la qualità, l’intensità e l’appropriatezza dei servizi decrescono. Soprattutto per le persone con disabilità gravissima.

Cosa comporti davvero, in termini “umani”, la disabilità gravissima in famiglia è cosa ignota ai più. Anche a molte persone con disabilità che definirei “più lieve”, se avessi il coraggio di scriverlo. Questi “amici o amiche con disabilità” ritengono, del tutto onestamente in cuor loro, che non esista una scala “di peggiorità”, che si sia tutti uguali di fronte alla disabilità, che il problema eventualmente sia solo quello della necessità di un maggior supporto. Pochissimi pensano al lavoro e alla fatica esistenziale della famiglia con disabilità gravissima, che durano magari da 25-30-40 anni.
Cinquantamila ore di sonno perse (5 ore per notte per 365 notti, per, diciamo, una trentina d’anni), un milione di euro non guadagnati, una decina di patologie muscolari, ossee e intellettivo-relazionali a carico del caregiver familiare primario e della famiglia tutta. Al confronto, essere passati nel tritacarne equivale a una “grattatina” ed  essere arsi sulla graticola come San Lorenzo è una piacevole abbronzatura.
Ecco perché sarò noiosamente ripetitivo, schivato da amici e conoscenti e ripetutamente monotematico: i “gravissimi” e le loro famiglie soprattutto, prima di tutto, sempre.

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