Perché diventa così difficile la comunicazione tra scuola, famiglia e servizi, quando c’è di mezzo la tecnica della Comunicazione Facilitata [d’ora in poi per lo più abbreviata con CF, N.d.R.]?
Da anni, e ancora adesso che sono in pensione, mi imbatto in situazioni di tensioni e conflitto in cui alla radice ci sono proprio profonde divergenze sull’uso a scuola di questo sistema di comunicazione. I servizi sanitari, pubblici o convenzionati, nella stragrande maggioranza dei casi rifiutano categoricamente la Comunicazione Facilitata e tagliano quindi i ponti con la famiglia, ma anche – e questo è molto grave – con la scuola che accoglie l’alunno e che si trova quindi privata del supporto all’integrazione, previsto dalla normativa vigente. E così il ruolo che la Legge 104/92 assegna agli specialisti pubblici, come ad esempio la partecipazione agli incontri di definizione del PEI (Piano Educativo Individualizzato), viene in molti casi assunto dai privati scelti (e pagati) dalla famiglia, con evidenti e pesanti commistioni di interessi e valori.
L’ASL, come abbiamo visto, spesso si ritira e la scuola è lasciata sola. Se accetta le condizioni imposte dalla famiglia, le cose in qualche modo vanno avanti, altrimenti l’alunno viene spostato da un’altra parte. La migrazione da una scuola all’altra, alla ricerca di quella più “accondiscendente”, è molto frequente in questi casi, soprattutto nella Secondaria di Secondo Grado, quando si fa maggiormente sentire, come vedremo, la questione della validità del percorso scolastico e del titolo di studio finale.
Ma cosa può fare la scuola? Deve veramente accettare qualsiasi situazione in nome del diritto della famiglia di scegliere, per il proprio figlio con disabilità, il tipo di cura e riabilitazione che ritiene più opportuno?
Dico subito che non ho sulla CF nessuna opinione preconcetta. In questi anni ho incontrato situazioni in cui appariva evidente che questo modo di comunicare funzionava, nel senso che effettivamente il soggetto esprimeva i suoi pensieri con il supporto del facilitatore, altre in cui era viceversa palese la totale ingerenza del comunicatore che usava il soggetto con disabilità come una “marionetta” al suo comando, altre ancora, infine, in cui sussisteva comunque il dubbio.
Volendo quantificare, quelli del primo tipo (CF che di sicuro funziona) sono un’esigua minoranza, ma il fatto che ci siano, o ci possano essere, obbliga a esaminare seriamente e senza pregiudizi ogni situazione, non basandoci su categorie o generiche affermazioni. Tutta la disabilità è questione di minoranze e ogni realtà va considerata per quello che è.
Dietro l’espressione Comunicazione Facilitata possiamo trovare infatti situazioni molti diverse e non possiamo fermarci all’etichetta. Non possiamo mettere sullo stesso piano un soggetto al quale il facilitatore tiene la mano sulla spalla mentre scrive al computer e uno che viene vistosamente manovrato, spostandogli quasi di peso le dita sulla tastiera. Uno che anche su argomenti scolastici sa comunicare in tanti modi, indicando con le mani, con l’espressione del viso, ad esempio, e uno che autonomamente, senza computer e facilitatore, non sa fare assolutamente nulla. O che sa rispondere – ovviamente benissimo – solo se il facilitatore era in classe al momento della spiegazione. O ancora il caso dei facilitatori “specializzati”, quelli che ne sanno di latino e quelli che ne sanno di matematica; se non c’è il facilitatore giusto, è quasi impossibile prendere un bel voto. O l’alunno che non guarda mai la lavagna o lo schermo durante una spiegazione molto visiva (matematica, storia dell’arte, geografia…), mentre il facilitatore prende appunti alla grande, e poi ovviamente sa rispondere a tutto; quando la spiegazione è prevalentemente verbale, si può obiettare che “ascolta anche se non lo dà a vedere” e non ha bisogno di prendere appunti “perché ricorda tutto”, ma come credere che possa ricordare tutto dei quadri di Caravaggio, se durante la spiegazione non ne ha mai guardato uno neppure per mezzo secondo?
Due pronunciamenti ufficiali
Sulla Comunicazione Facilitata abbiamo avuto in Italia due pronunciamenti ufficiali, entrambi del 2011, che possono offrire alle scuole importanti indicazioni per gestire il problema, ma che, purtroppo, sono ben lontani dal chiudere ogni discussione in merito.
Il primo, che parte da un’Interrogazione Parlamentare al Governo (Interrogazione 5-05231, De Torre, Sull’uso di facilitatori della comunicazione per gli studenti con disabilità presso le istituzioni scolastiche autonome), è la risposta del sottosegretario all’Istruzione Elena Ugolini nel dicembre del 2011.
Il caso sollevato riguardava la possibilità di seguire un percorso di studi valido per il conseguimento del diploma alle superiori, usando appunto il sistema della Comunicazione Facilitata, e partiva dal contenzioso avviato da alcune famiglie del Friuli. Dopo avere giustificato, in base ai risultati delle verifiche ispettive, le scelte della scuola friulana in merito ai casi specifici oggetto dell’Interrogazione, il Sottosegretario concludeva con delle valutazioni generali molto categoriche sulla validità delle prove sostenute con la CF: «[…] si ritiene che non possano essere considerate valide le prove equipollenti, svolte in corso d’anno e al termine del secondo ciclo, con l’aiuto di un facilitatore; ciò in quanto la presenza di questi durante le prove potrebbe far emergere dubbi in merito alla loro validità ed autenticità, non consentendo alla commissione di valutare le reali abilità, conoscenze e competenze acquisite dagli studenti al termine del percorso di istruzione».
Le prove, quindi, non possono essere considerate valide perché la presenza del facilitatore fa emergere dubbi? È una posizione quanto meno discutibile, perché non tiene conto del tipo di facilitazione effettivamente attivata e, soprattutto, perché eventualmente compito degli esaminatori è quello di individuare delle strategie idonee a chiarire quei dubbi, non semplicemente di prenderne atto e considerarli come ostacoli insuperabili che portano all’esclusione.
Anche l’interprete del Linguaggio dei Segni che assiste un candidato sordo può fare emergere dubbi (quanto ha aiutato, integrato, corretto, rispetto a quello che effettivamente il candidato ha detto?) e in questo caso la Commissione cercherà eventualmente di approfondire con qualche domanda specifica; nessuno penserà mai che un dubbio di questo tipo possa rendere nulla la prova. La scuola non ragiona mai come un tribunale, neppure in sede di esame.
Un aspetto secondo me curioso di quell’Atto Parlamentare è il fatto che il sottosegretario Ugolini rispondesse a un’Interrogazione dell’onorevole Maria Letizia De Torre, che invocava maggiore disponibilità verso gli alunni disabili che usano la CF. Ora bisogna ricordare che De Torre, qualche anno prima, era stata a sua volta Sottosegretario all’Istruzione e questo la dice lunga sulla coerenza delle posizioni ministeriali su questo tema che pure dovrebbe essere gestito su base tecnica, non politica: se cioè un’Interrogazione simile fosse stata presentata nel 2008, quale sarebbe stata la risposta?
La figura dell’assistente alla comunicazione, anche all’esame, è prevista da tempo dalla nostra normativa: «Per gli alunni handicappati sono consentite prove equipollenti e tempi più lunghi per l’effettuazione delle prove scritte o grafiche e la presenza di assistenti per l’autonomia e la comunicazione» (Legge 104/92, articolo 16, comma 3). Ai tempi della 104 non c’era la CF, ma penso sia difficile oggi affermare che il facilitatore della CF, che ha il compito ovviamente di “facilitare” la comunicazione e non certo l’esame, non possa essere considerato a priori come un assistente alla comunicazione.
In effetti quella risposta non ha assolutamente impedito a vari candidati di sostenere negli anni successivi, dal 2011 a oggi, esami con la CF, sia a scuola che all’università (pensiamo solo a quello studente laureatosi nella primavera scorsa a Padova [se ne legga anche su queste pagine, N.d.R.]).
Il secondo pronunciamento del 2011 è contenuto nella Linea Guida n. 21, dell’Istituto Superiore di Sanità, dedicata al Trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e adolescenti. Nel capitoletto riguardante la Comunicazione Facilitata, si accolgono infatti le indicazioni presenti in analoghe Linee Guida scozzesi del 2007 (Scottish Intercollegiate Guidelines Network-SIGN, Assessment, diagnosis and clinical interventions for children and young people with autism spectrum disorders. A National clinical guideline, SIGN, Edinburgh, 2007), bocciando in pieno questo sistema di comunicazione.
Si sottolinea in particolare la mancanza di prove sull’autenticità della comunicazione da parte del soggetto e la presenza, viceversa, di dati che dimostrano che la comunicazione è prodotta dal facilitatore. Anche in «considerazione delle implicazioni etiche sollevate da questi risultati rispetto all’integrità e alla dignità dei bambini e adolescenti con autismo», il documento dell’Istituto Superiore di Sanità conclude con questo esplicito e inequivocabile pronunciamento: «Si raccomanda di non utilizzare la comunicazione facilitata come mezzo per comunicare con bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico». Più chiaro di così!
Quindi, discorso chiuso? Assolutamente no! Il documento dell’Istituto Superiore di Sanità, infatti, è stato accolto con estremo favore dalle principali Associazioni che si occupano di autismo, a cominciare dall’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), che ha diffuso il testo “a manetta” in ogni occasione, elogiando la chiarezza delle indicazioni contenute.
Come’era prevedibile, chi diffonde in Italia i vari sistemi di cura o riabilitazione che, come la Comunicazione Facilitata, venivano più o meno sonoramente bocciati dalla Linea Guida n. 21, non ha per nulla gradito e da più parti sono arrivati giudizi critici e reazioni contrarie, in certi casi stizzite. Nel “mondo della CF”, in realtà, l’atteggiamento prevalente è stato quello di ignorare quella Linea Guida e per la scuola sostanzialmente non è cambiato nulla. Sono solo raccomandazioni, si dice, quindi non vincolanti. Riguardano la sanità e non la scuola. Sono riferibili solo all’autismo, mentre la CF si applica in tanti casi diversi. Chi decide è la famiglia e di fronte alle sue scelte la scuola non può porre rifiuti aprioristici. Eccetera eccetera.
Di fatto, constatiamo che entrambi quei pronunciamenti del 2011 non hanno prodotto alcun risultato: anche negli anni successivi, infatti,la progressiva diffusione della CF a scuola, soprattutto nelle zone dove i centri privati di supporto sono particolarmente attivi, appare inarrestabile.
Personalmente credo che le affermazioni categoriche da sole siano poco efficaci, anche se formalmente e scientificamente corrette, come nel caso dell’Istituto Superiore di Sanità.
La scuola rispetta i diritti della famiglia, ma questo non significa che debba accettare tutto quello che essa, o il centro privato di supporto, propone o impone. Accanto al diritto dei genitori di scegliere per il proprio figlio il sistema riabilitativo e il tipo di intervento che ritengono più valido, ci sono diritti, ma anche doveri, da parte della scuola, che non possono essere dimenticati.
Di sicuro la scuola non può farsi imporre metodi che non condivide, ma il problema non può porsi semplicemente in termini di “CF sì, CF no” e occorre entrare nel merito di “quale CF” venga effettivamente utilizzata.
Dalla Comunicazione Facilitata alla WOCE
Al riguardo, sono molto interessanti le posizioni sviluppate in Italia all’interno della CF stessa, che hanno dato luogo, attorno al 2007, al Protocollo WOCE (ove WOCE sta per Written Output Communication Enhancement). Un cambiamento di sostanza o è cambiato solo il nome? In teoria il WOCE potrebbe essere un bel passo avanti per superare molte delle criticità segnalate con la CF, ma l’impressione è che molto raramente vengano effettivamente condotti fino in fondo gli aggiustamenti proposti.
In un documento del 2007, Patrizia Cadei – colei che qualche anno prima aveva introdotto in Italia la CF – si pone in atteggiamento molto critico verso il modo con cui il suo metodo di comunicazione veniva usato e propone il WOCE come sistema corretto. Si tratta di un’iniziativa personale, che non vincola tutto il mondo variegato delle CF che opera in Italia, ma significativa proprio perché le criticità e le contromisure vengono segnalate dall’interno, non dai soliti “infidi detrattori”.
L’idea principale è che questo sistema vada inteso come un training, ossia un percorso che ha come obiettivo l’autonomia della comunicazione e che pertanto è fondamentale il concetto di evoluzione (sempre meno aiuto, sempre più autonomia).
I principi del WOCE, secondo Cadei, sono i seguenti: «1. La persona con disabilità della comunicazione è l’attore principale dell’intervento: intorno ad essa si tesse una trama di interventi calibrati sulle potenzialità e per minimizzare le difficoltà. 2. Si stabilisce il concetto “da facilitazioni a facilitazioni minime o nulle”. 3. Il monitoraggio del progetto non è un’opzione ma un diritto/dovere di chi intraprende il percorso. 4. L’applicazione della strategia è monitorata a livello universitario (a Roma Università degli Studi di Roma Tor Vergata)».
C’è un abisso tra questa impostazione e la CF che vediamo imperare nelle nostre scuole, dove molto spesso, purtroppo, non c’è nessuna “trama di interventi”, ma solo ore e ore passate davanti al computer con il facilitatore che tiene la mano. Pochissima attenzione viene data ad altri tipi di comunicazione (iconica, espressiva, gestuale…) e c’è spazio solo per quella direttamente finalizzata ai lavori scolastici, con il risultato che il soggetto sa scrivere della filosofia di Kant, ma non esprimere banali bisogni quotidiani.
In riferimento ad esempio al secondo principio citato, vediamo purtroppo che quasi sempre il sistema di comunicazione attivato è statico, senza evoluzione: chi è facilitato con la mano sul polso continua così per anni e anni e l’autonomia è l’ultima preoccupazione. E, infine, non c’è alcun monitoraggio esterno (terzo e quarto punto) visto che – come abbiamo scritto – i servizi pubblici non si occupano più del caso.
Se quella proposta con il WOCE fosse veramente la CF che si fa nelle nostre scuole, molti dei problemi che vengono abitualmente segnalati sarebbero risolti. Purtroppo la scuola non ha la possibilità di imporre l’adozione di questi princìpi né di intervenire se essi, pur formalmente enunciati, vengono poi disattesi. Ma di sicuro qualcosa può chiedere, anche facendo leva su queste riflessioni che, ricordiamolo ancora, nascono proprio dall’interno della CF, dalla persona che per prima l’ha introdotta e diffusa in Italia.
Cosa la scuola può effettivamente fare
Concludo con qualche raccomandazione e indicazione operativa per cercare di gestire in modo corretto la CF a scuola, prevenendo tensioni e eccessive ingerenze e chiarendo ruolo e responsabilità di ciascuno.
1. Formalizzare sempre (con un accordo, convenzione, protocollo, regolamento…) la presenza di operatori esterni alla scuola. In molte scuole, infatti, i facilitatori vengono ammessi in classe in base a semplici accordi verbali; la sottoscrizione di un documento di questo tipo, da confermare all’inizio di ogni anno scolastico, serve non solo per formalizzare e giustificare la loro presenza, ma anche per definirne i compiti e i margini di autonomia.
2. Chiedere sempre la partecipazione dei Servizi ASL agli incontri del PEI (piano Educativo Individualizzato). Se non vengono, se ne prende atto, ma questo non significa – mai e in nessun caso – che i consulenti privati della famiglia (ad esempio: psicologo del centro di CF) svolgano le funzioni che sono dell’ASL. I consulenti, su richiesta della famiglia e in accordo con la scuola, possono partecipare agli incontri come supporto alla famiglia e basta. Secondo la normativa, infatti, il PEI è definito congiuntamente da Scuola e Servizi, con la collaborazione della famiglia. Se i Servizi non ci sono, decide la scuola da sola. Con i consulenti privati della famiglia vige quindi un rapporto di collaborazione, come con la famiglia stessa, ma le decisioni le prende la scuola. Questo significa che se, ad esempio, la scuola ritiene che sia prioritario un percorso educativo sulle autonomie personali di base rispetto agli apprendimenti scolastici assisti con la CF, lo può fare.
3. Basare rigorosamente la programmazione educativa didattica sulla certificazione: è spesso l’unico documento rilasciato dai servizi pubblici, ai quali la famiglia ha dovuto ovviamente rivolgersi per il riconoscimento formale della disabilità e l’attivazione del sostegno, e non è raro riscontrare che quanto dichiarato dalla certificazione appaia del tutto incompatibile con il percorso scolastico che si vorrebbe seguire con la CF. Ad esempio, se la certificazione attesta un ritardo mentale grave o medio e quindi la mancanza delle capacità minime di astrazione richieste per seguire il programma di studi delle Scuole Secondarie, una programmazione per obiettivi minimi è improponibile. Spesso la famiglia afferma che la diagnosi è sbagliata, che è stato certificato il ritardo mentale solo perché chi ha fatto i test non ha saputo comunicare in modo adeguato, ma per la scuola la certificazione è quella e ha valore legale solo ciò che vi è scritto. Oltretutto è la famiglia che ha portato a scuola quel documento, nessuno lo ha imposto.
4. La valutazione degli apprendimenti è di esclusiva e totale competenza della scuola. Possono entrare negli argomenti del PEI, e quindi essere discussi con la famiglia, i criteri e le modalità di valutazione, ma – soprattutto alla Secondaria di Secondo Grado – è la scuola da sola che decide se le prove sono o non sono equipollenti e solo gli insegnanti, ovviamente, decidono, somministrano e valutano le varie verifiche (per conservare la validità del titolo di studio, le prove di esame degli alunni con disabilità somministrate in modo diverso devono essere equipollenti, ossia prove che «devono consentire di verificare che il candidato abbia raggiunto una preparazione culturale e professionale idonea per il rilascio del diploma attestante il superamento dell’esame»: Ordinanza Ministeriale 37/14, articolo 17).
5. La scuola decide anche sull’autenticità delle prove. Nella valutazione, di competenza della scuola, rientra di sicuro anche il controllo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’elaborato che si valuta sia autentico, sia stato cioè prodotto da quello specifico alunno e non da terze persone. In altri contesti può apparire una banale ovvietà (pensiamo all’attenzione che pone l’insegnante per evitare che gli alunni “copino” durante le verifiche), ma parlando di CF non lo è per nulla e quindi è bene rimarcarlo con determinazione: se un insegnante non è sufficientemente convinto che il compito sia stato fatto da quell’alunno, non c’è certificazione di disabilità o comunicazione facilitata che tenga e nessuno può obbligarlo a correggere e valutare un elaborato del genere. L’autenticità non è un optional. Pensiamo a un chirurgo che si prepari a un’operazione analizzando esami radiologici e clinici di vario tipo, tutti perfetti e dettagliatissimi, ma con un piccolo particolare: non si è sicuri che siano stati fatti proprio su quel paziente o su un altro; facile prevedere che manderà tutti a quel paese e si rifiuterà di entrare in sala operatoria. Possibile che a scuola un professore debba sentirsi obbligato a correggere per forza una verifica di matematica che sa benissimo non essere stata fatta dal suo allievo, partecipando a una farsa denigrante per la scuola e la sua professionalità? Un obbligo del genere, ovviamente, non esiste.
Certo, ci sono sicuramente i casi incerti, le situazioni in cui non è chiaro quanto sia determinato dall’allievo e quanto influisca il facilitatore: qui si può sospendere il giudizio ed essere un po’ possibilisti, pur continuando ovviamente a vigilare. Ma in molti casi, dubbi non ce ne sono proprio e gli insegnanti sanno benissimo chi ha fatto veramente il compito.
Sull’autenticità della CF sono stati scritti i famosi fiumi di inchiostro, predisponendo test, simulazioni, analisi lessicali e rilevazioni strumentali di tutti i tipi: peccato che alla fine, come è noto, ciascuno sia rimasto con le proprie opinioni, dato che nessuna sperimentazione ha scalfito le certezze del campo avverso. È impensabile che la scuola si metta a ripercorrere strade simili per decidere chi sia l’autore di una verifica di storia, ma nel nostro caso abbiamo degli elementi di osservazione, e quindi di decisione, che nessun esperimento potrà mai fornire: parlo della convivenza in classe, prolungata, quotidiana e per lunghi periodi e di quello che ciò comporta in termini di osservazione dei comportamenti e delle reazioni, ma anche della gestione di situazioni particolari, compresi incidenti e imprevisti.
Ricordo, ad esempio, il caso di un ragazzo che in un tema scritto con il sistema della CF parlava dei monumenti visitati durante una visita di istruzione, riferendo anche delle emozioni che aveva provato entrando nei vari luoghi. Peccato che in realtà il programma del viaggio fosse stato modificato all’ultimo momento e sostituito con un’altra meta, ma che nessuno avesse avvisato la facilitatrice la quale, non avendo partecipato alla gita e avendo visto solo il primo programma, aveva fatto quel che poteva.
Per gli insegnanti che ne sono testimoni, episodi di questo tipo contano assai più di tanti esperimenti, per costruire le proprie fondate convinzioni sulla presunta autenticità di questo modo di comunicare. A scuola, infatti, il ragazzo passa ore e ore, e inevitabilmente molti dubbi alla fine si trasformano in certezze, in un senso o nell’altro. Basta discutere brevemente con gli insegnanti che hanno in classe un alunno che fa i compiti con la CF, per vedere come la stragrande maggioranza di loro si sia fatta una precisa opinione sull’autenticità delle prove, basata non su pregiudizi, ma su prolungate e ragionate osservazioni dei comportamenti in classe dell’alunno e del facilitatore.
Ma poiché le opinioni è bene vengano sostenute da fatti, risulta sempre opportuna ogni azione utile a confermare o smentire l’autenticità. La scuola ha quindi tutto il diritto di chiedere che ogni verifica redatta con il metodo della CF sia integrata con altre prove di controllo, di qualsiasi tipo, idonee a dimostrare l’autenticità delle risposte ogniqualvolta lo si ritenga necessario. Bastano delle verifiche molto semplici, anche estemporanee e non strutturate: ad esempio, dopo una prova scritta di geografia fatta con l’ausilio del facilitatore, si mostra una cartina e si chiede di indicare qualche elemento, oppure – se indicare non è possibile – si attende un messaggio di conferma – sì o no – espresso con una modalità qualsiasi. È praticamente impossibile che un alunno non sappia fornire risposte autonome e intenzionali, di qualsiasi tipo: tutte le forme di comunicazione, anche elementari, usate nelle attività quotidiane, possono essere adottate per confermare quanto espresso con la CF.
Si auspica ovviamente che queste forme di controllo siano accettate dai facilitatori: se sono davvero convinti dell’autenticità del metodo, devono dare alla scuola gli strumenti per dimostrarla, anche in vista dell’Esame di Stato, e quindi nell’interesse dell’alunno. Quando i tecnici della CF fanno resistenza su queste procedure di controllo, sorge forte il dubbio che anch’essi in fondo non ci credano.
Un esempio: dopo avere disquisito a fondo per scritto, ovviamente con il supporto del facilitatore, sulle specificità dei vari artisti impressionisti, l’allievo non sa indicare qual è quello di un impressionista, avendo davanti un quadro di Monet e uno di Giotto. Lo stesso allievo, se deve scegliere a merenda tra una banana e una merendina, non ha nessun problema a esprimere la propria preferenza. Secondo il facilitatore sono cose diverse: se si parla di Storia dell’Arte, deve per forza esserci lui a mediare, per la merenda non serve. C’è qualcosa che non convince…
Per concludere: pur senza rifiutare a priori la Comunicazione Facilitata, la scuola non deve accettare passivamente ogni decisione presa da altri e ha tutti gli strumenti per far valere, anche in questi casi, la propria autonomia educativa, contrastando eccessive pretese di ingerenza e rifiutando le pratiche che, dal punto di vista professionale ed etico, non sente di condividere.