Dopo le polemiche spesso scomposte lanciate negli ultimi tempi dai “crociati anti CF” [CF sta per Comunicazione Facilitata, N.d.R.], fa piacere leggere qualcosa di ragionato e cauto, com’è il caso del contributo di Flavio Fogarolo, intitolato Comunicazione Facilitata a Scuola: abusi e incomprensioni, recentemente pubblicato da «Superando.it», nel quale, senza pretendere di stabilire a-priori ciò che è vero e ciò che è falso e senza chiudere gli occhi rispetto a evidenti mistificazioni da un lato (la CF manipolata dal facilitatore), o a forzature dall’altro (l’atteggiamento assolutamente negativista di molte ASL), propone un confronto condivisibile tra Scuola, Famiglia e Facilitatori, esclusivamente rivolto all’accertamento dell’autenticità della comunicazione.
Ciò premesso e dando per scontato che chi si occupa in modo serio e scientificamente controllato (uso appositamente questa espressione, che cercherò nel corso dello scritto di giustificare) di CF ha proprio come interesse primario quello di sottoporre a verifica le sue procedure e di fugare qualsiasi dubbio riguardo alla paternità dei messaggi prodotti con tale tecnica, vorrei comunque affrontare alcuni punti critici che nell’intervento di Fogarolo non trovo convincenti.
Non solo WOCE*
Senza ripercorrerne qui la storia e il dibattito che ne è seguito dopo la sua “scoperta” – per cui rinvio ai documenti presenti nell’archivio del sito della nostra Associazione (Vi comunico che penso) – diciamo che le verifiche sulla validità della CF si sono concentrate proprio sulla questione della paternità dei messaggi.
Qui il fronte è diviso: gli studi sperimentali dimostrano infatti che le risposte fornite dalla persona facilitata sono frutto del facilitatore, tranne un residuo di risposte sicuramente autentiche, perché fornite con facilitatore non informato o contro-informato, variabile secondo alcuni studi dal 10 al 30% (la bibliografia completa di queste ricerche è anch’essa consultabile nel sito della nostra Associazione, all’intervento di Giulia Pavon); gli studi “naturalistico-osservativi”, cioè in condizioni di uso abituale della tecnica senza gruppi controllo, confermano, invece, l’autenticità dei messaggi.
Questa difformità di risultati è interpretata di solito come dimostrazione della non validità della CF. Se guardiamo bene, però, è esattamente il contrario: come si spiega che anche nelle condizioni sperimentali più rigide, quindi non le più adatte per comunicare spontaneamente, rimanga un residuo di messaggi scritti validi, sicuramente autentici e prodotti da persone non in grado di comunicare vocalmente le stesse cose?
Ci sono tuttavia due filoni di ricerca che proverebbero la validità della CF con metodi diversi e innovativi: quello inglese sul tracciamento oculare e quello italiano sull’impronta linguistica.
Il primo (si veda uno studio di Andrew Grayson, Anne Emerson, Patricia Howard-Jones e Lynne O’Neil, pubblicato nel 2012), utilizzando una sofisticata attrezzatura come l’eye-tracking (“tracciamento oculare”), ha potuto dimostrare sperimentalmente che la paternità del messaggio era senz’altro da attribuire alle persone con disabilità facilitate, in quanto costoro guardavano le lettere che avrebbero di lì a breve digitato prima di effettuare alcun movimento e prima del facilitatore.
Il secondo (si veda soprattutto Il delta dei significati, a cura di Lorenzo Bernardi, Carocci 2008) ha dimostrato con metodi linguistici e statistici, al di là di ogni ragionevole dubbio, come l’impronta linguistica delle persone facilitate sia costante anche col variare dei facilitatori e significativamente diversa sia da quella dei facilitatori stessi che da quella dei gruppi controllo. Il campione esaminato in questo caso era davvero ampio (alla fine del libro è detto chiaramente che i dati sono disponibili presso l’Università di Padova per chiunque li voglia consultare per scopi scientifici) e comprendeva persone con disabilità di varia età, con facilitazione alta e con almeno tre facilitatori diversi.
Questione chiusa? Tutt’altro, perché ancora non c’è nessuno studio sperimentale che sia riuscito a dimostrare quali siano i meccanismi sottostanti in grado di spiegare perché, quando e per quali patologie la CF può funzionare.
Su questo campo di studio è attualmente impegnata una ricercatrice della nostra Associazione, in collaborazione con i succitati Grayson e Emerson. Ovviamente daremo conto dei risultati, qualunque essi siano, sul nostro sito – e non solo, si spera – non appena saranno disponibili.
Ciò che possiamo dire finora è che:
a) la CF è una tecnica comunicativa (non sappiamo se possa essere assimilabile a un trattamento riabilitativo, per cui ci limitiamo a chiamarla tecnica comunicativa) che va appresa;
b) è una tecnica “evolutiva”, nel senso che si passa – nei limiti del possibile, in base alle residue capacità motorie – da una facilitazione bassa (mano-polso) a una sempre più alta (braccio, spalla), fino alla semplice presenza, senza alcun tocco, del facilitatore dietro la persona disabile;
c) l’approccio alla tecnica, cioè prima di passare alla CF vera e propria con tocco, inizia con l’apprendimento del gesto indicativo, dallo stadio più semplice (vero/falso) a quello più complesso (scelte multiple ecc.);
d) l’uso corretto della tecnica presuppone sempre una supervisione esterna al facilitatore e un progetto tarato sulla singola persona da facilitare;
e) può dare buoni risultati con persone disabili affette da varie patologie, le quali compromettano in modo determinante la capacità di comunicare vocalmente.
C’è ovviamente molto altro da dire, ma i punti a) ed e) sono quelli per noi irrinunciabili (si vedano le linee-guida pubblicate nel sito della nostra Associazione).
Come si vede, non c’è solo la strategia WOCE [Written Output Communication Enhancement, N.d.R.] che si pone il problema del controllo. Chi ha cercato strade innovative per lavorare e proporre modalità alternative di relazione con il mondo della disabilità sa benissimo che i peggiori nemici, oltre al pregiudizio, sono coloro che, ahimè, talvolta anche in buona fede, scambiano i desideri per realtà, promuovendo soluzioni miracolistiche che nulla hanno a che vedere con un’efficace opera di inclusione.
Proprio per questo, tenendo conto della difficoltà a riunire in un unico protocollo condiviso tutti i ricercatori che ruotano attorno alla CF, abbiamo dovuto registrare un marchio (“CFA Comunicazione Facilitata Alfabetica – Tecnica Alternativa del Linguaggio®”) che tuteli con chiarezza le persone che tentano di applicarla seguendo precisi criteri di monitoraggio critico del proprio operato. Ciò non significa in alcun modo che non vi siano Associazioni o strutture, come WOCE, che fanno un lavoro molto serio, ma semplicemente che noi siamo in grado di assicurare il rispetto dei nostri protocolli solo per i facilitatori che si riconoscono nelle nostre linee-guida.
La tecnica che proponiamo, con le cautele di cui sopra, si chiama CFA perché, pur facendo parte del variegato approccio ai modi alternativi di comunicare, di solito indicati come CAA (= Comunicazione Aumentativa e Alternativa), ha nella scrittura alfabetica il suo tratto distintivo, laddove le CAA, di cui pure facciamo uso, sono di carattere prevalentemente iconico.
CFA, disabilità e scuola
La lunga premessa che ho fatto era necessaria per evitare fraintendimenti rispetto a ciò che dirò ora, circa i punti che non mi convincono nell’intervento di Flavio Fogarolo.
Cominciamo con la questione dei pronunciamenti ufficiali da lui citati. Il primo è una risposta ministeriale a un’Interrogazione Parlamentare del 2011. La vicenda viene rievocata solo per la risposta fornita dal Ministero, di cui per altro Fogarolo sottolinea correttamente già un punto debole: il fatto, cioè, che la presenza del facilitatore nelle prove di verifica faccia emergere dubbi circa la validità delle stesse non è un motivo sufficiente per rifiutare la CF. Si tratta infatti, per dirla con le sue stesse parole, di «una posizione quanto meno discutibile, perché non tiene conto del tipo di facilitazione effettivamente attivata e, soprattutto, perché eventualmente compito degli esaminatori è quello di individuare delle strategie idonee a chiarire quei dubbi, non semplicemente di prenderne atto e considerarli come ostacoli insuperabili che portano all’esclusione».
Ciò che Fogarolo non dice, perché non può saperlo, è come è avvenuto l’accertamento ministeriale e il pregresso che ha portato all’Interrogazione, tutte cose che chi scrive conosce nei dettagli perché le ha seguite fin dall’inizio.
Ebbene, senza voler ripercorrere qui una vicenda complessa, mi limito solo a dire che gli alunni di cui parla l’Interrogazione Parlamentare avevano usufruito sino alla fine del biennio della scuola secondaria di secondo grado di un percorso del tutto equipollente con buoni risultati, su cui fino ad allora c’era stato accordo tra famiglie, scuola e ASL. Improvvisamente erano “regrediti” a livello di scuola dell’infanzia all’inizio del triennio (non però per l’insegnante di filosofia, si badi bene, una persona interna alla scuola e non un facilitatore “imposto” alla scuola)! Evidentemente c’era qualcosa che non andava. Ma il Ministero cosa fa? Manda come ispettore colui che era stato fino all’anno prima dirigente della stessa scuola e che già aveva messo in guardia gli insegnanti dal dare libero corso alla tecnica per il triennio! Si dirà, cose da nulla rispetto ai conflitti di interesse cui siamo abituati in Italia, ma per le persone coinvolte ciò ha significato un calvario di frustrazione ed esclusione, di cui nessuno le ripagherà. Attualmente, per fortuna (ogni tanto c’è anche un lieto fine), frequentano tutti l’Università, dopo avere ottenuto un regolare diploma di maturità in scuole che invece di arrogarsi il diritto di stabilire loro ciò che è scientifico o meno, hanno semplicemente con il buon senso (e con le cautele del caso) applicato la Legge 104/92. Ce n’è abbastanza perché ognuno possa valutare il peso da dare a questo pronunciamento ufficiale da parte scolastica!
L’altro pronunciamento ufficiale citato è quello contenuto nella Linea Guida n. 21 per l’autismo dell’Istituto Superiore di Sanità, che sostanzialmente boccia la CF come pratica non supportata scientificamente.
Rispetto a quest’ultimo documento, che apparentemente ha tutti i crismi dell’autorevolezza, faccio presente che:
a) ha subìto una serie di contestazioni anche al di fuori di quello che Fogarolo chiama «il mondo della CF». Basti vedere quella petizione del 2012, prodotta in occasione della Giornata Mondiale per la Consapevolezza sull’Autismo, «per l’integrazione sulle linee guida per l’autismo», indirizzata all’allora Ministro della Salute, al sottosegretario e al presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, «formulata da 55 associazioni di famiglie, 66 enti comprese 4 società di pediatria e 62 scuole di specializzazione, 59 centri di riabilitazione accreditati Cattolici e Laici e migliaia di operatori del settore da anni impegnati nella riabilitazione dei soggetti autistici con metodologia di diverso tipo»;
b) non fa alcun riferimento, neanche per contestarli, non dico agli studi “naturalistici”, ma nemmeno a quelli sperimentali sopra richiamati, che invece poggiano su solide basi scientifiche, anche se da essi non si ricava ancora una chiara indicazione sul campo di applicazione della tecnica;
c) non esistendo ancora una dimostrazione poggiante su dati genetici di ciò che la sindrome autistica è, in questo – come in generale in àmbito psichiatrico e psicologico – occorrerebbe essere molto più cauti circa bocciature o meno di pratiche riabilitative o terapeutiche. Moltissime di queste, infatti (tutte?), non supererebbero indenni l’esame se applicassimo il criterio epistemologico della “falsificazione” (Popper): quali sono, infatti, le asserzioni in esse contenute che possono entrare in collisione con la realtà effettuale? E se ciò non è possibile, non sono falsificabili, ovvero non sono scientifiche. Allora sono false? No, non lo sappiamo e non possiamo dimostrare né se sono vere, né se sono false. Eppure si continua a fare psicomotricità, musicoterapia, ippoterapia ecc.: perché? È semplice, perché in molti casi funzionano, producono benessere, facilitano o migliorano l’inclusione.
Allora qual è il motivo per cui solo la CF incontra tante preclusioni? Lo “scandalo” consiste proprio nel fatto che questa ha a che fare con la parola e precisamente con la parola come veicolo del pensiero. «Se la certificazione – afferma Fogarolo – attesta un ritardo mentale grave o medio e quindi la mancanza delle capacità minime di astrazione richieste per seguire il programma di studi delle Scuole Secondarie, una programmazione per obiettivi minimi è improponibile».
Qui sta il punto: siamo proprio sicuri che gli accertamenti che siamo in grado di fare su persone prive di comunicazione vocale misurino effettivamente il loro deficit mentale e non, poniamo, solo il loro deficit linguistico? Quanti ritardi mentali, grazie al supporto di nuove conoscenze e tecnologie, si sono rivelati negli ultimi vent’anni solo difficoltà o assenza della parola vocale? Senza dover necessariamente prestar fede a ciò che “vuole” (o si crede che voglia) vedere la famiglia, è lecito almeno il dubbio?
Per quanto riguarda, poi, la mia personale esperienza (certo soggettiva, non sono un campione rappresentativo, come non lo sono del resto le impressioni di Fogarolo circa i casi – la minoranza – in cui la CF funziona e tutti gli altri – la maggioranza – in cui è una mistificazione), ho incontrato più spesso genitori scettici, che prima di arrendersi all’evidenza del pensiero profondo dei propri cari, documentato dalla loro produzione scritta, hanno continuato ad affermare che non poteva essere vero, non erano capaci di quelle riflessioni e di quelle parole. Ho visto adolescenti trattati da infanti cambiare di punto in bianco atteggiamento nel momento in cui si vedevano riconosciuti come persone pensanti. E le famose autonomie? Smettiamola, per carità, di confondere autonomia, l’essere soggetto dei propri pensieri, con autosufficienza, che è la capacità di provvedere a sé da soli che molti disabili non potranno mai raggiungere.
La Scuola allora cosa deve fare? Beh, innanzitutto se il PEI [Piano Educativo Individualizzato, N.d.R.] è frutto di negoziazione a tre (Scuola, Famiglia e ASL), ciascuno ovviamente con le proprie competenze, la Scuola non può e non deve subire il ricatto che se si parla di CF l’ASL si ritira.
Se io vado da un medico tradizionale e gli dico che per il mio dolore alla spalla mi sono curato con l’agopuntura, non mi manda mica via. È suo diritto dirmi che mi sono illuso, che si tratta per lui di un effetto placebo, ma è mio diritto star bene comunque sia e continuare a valermi delle sue prestazioni per altre cose.
Ciò significa allora che la Scuola debba farsi imporre dalla Famiglia le tecniche di integrazione? Ma, scusate, la questione non è chi impone che cosa, bensì l’obiettivo. Stabiliamo assieme protocolli osservativi per accertarci dell’autenticità di ciò che scrive la persona facilitata e se constatiamo che si tratta di produzione autonoma, come si fa a dire «non se ne fa nulla», perché la “mitica comunità scientifica” non ritiene valida la CF?
Ma vi pare che Stephen Hawking, che aveva negato l’esistenza del bosone di Higgs, non faccia più parte della “comunità scientifica” perché alla fine il bosone è stato trovato sperimentalmente? Il fatto è che la comunità scientifica, quella vera, non le commissioni ministeriali o lobbistiche, è variegata, fatta di dubbi, contrasti, punti morti e riprese, non è una specie di Spectre che controlla l’oggettività del sapere, ma un’area di dibattito tra ricercatori, che dovrebbero essere sempre disposti a ricominciare se scoprono qualcosa che contraddica le conoscenze acquisite.
E infine, forse qualcuno contesta il “traduttore” LIS [Lingua Italiana dei Segni, N.d.R.] se partecipa a un esame di un sordo segnante? E perché il “traduttore” LIS può e un facilitatore di CFA (o di WOCE o di chiunque pratichi la tecnica con i dovuti controlli) – un professionista, quindi, non lo “specializzato” di cui parla Fogarolo – no?
So benissimo quanto le Istituzioni, Scuola in primis – per aver fatto prima l’insegnante di lettere, poi l’insegnante di sostegno e il formatore, infine per molti anni il dirigente scolastico – possano essere un muro di gomma invalicabile se si chiudono nella propria autoreferenzialità. E so benissimo quanto il rispetto formale della norma, cioè la messa in ordine della documentazione formale, non la sua applicazione effettiva, possa costituire quello che gli studiosi di diritto chiamano lex contra legem [letteralmente “la legge contro la legge”, N.d.R.] , per cui non me la sentirei di dire, come fa Fogarolo, che la Scuola «debba far valere […] la propria autonomia educativa, contrastando eccessive pretese di ingerenza e rifiutando le pratiche che, dal punto di vista professionale ed etico, non sente di condividere».
La Scuola ha il dovere di formare al meglio, favorendo il massimo di sviluppo delle potenzialità soggettive di ogni alunno e non può chiudere la porta a un genitore che chiede ad essa di provare per il proprio figlio una tecnica nuova, eventualmente con il supporto di un esperto, se la scuola non dispone di personale preparato per quella tecnica, solo perché non la conosce o ne ha sentito parlar male. Verifichi, prima, e poi avvii un percorso di decisioni condivise, prese per tempo (basta con i PEI presentati a fine anno!) e non calate dall’alto.
E a proposito di PEI, dove sta scritto che se non c’è l’ASL, le decisioni le prende la scuola? Se il documento è redatto “congiuntamente” (Decreto del Presidente della Repubblica – DPR del 24 febbraio 1994, articolo 4) dai tecnici (insegnanti, operatori delle ASL) in collaborazione con la famiglia, per quale motivo il “congiuntamente” dovrebbe essere limitato alla parte tecnica? Che senso avrebbe allora la firma dei genitori? Solo per “ricevuta”?
Certo, è difficile conciliare apporti diversi in un documento che ha un rilevante valore tecnico-professionale, ma proprio in questo consiste l’arte della negoziazione: fare in modo che ciascuno porti il suo senza invadere il campo altrui. Non si tratta di contentini, ma di sostanza, sempre che la mitica partecipazione abbia un senso.
Rispetto invece alle “pressioni autorevoli” (ASL o Ministero), allora sì che la Scuola dovrebbe far valere la propria autonomia, costituzionalmente garantita. Come essa non pretende di fare le diagnosi, non deve accettare che “esterni” (rispetto alle decisioni didattico-valutative, tutti gli altri soggetti sono esterni) dicano ad essa cosa può o non può accettare come tecnica comunicativa (ché di questo si tratta, almeno finora, né più e né meno che di tecnica comunicativa, non di riabilitazione e tantomeno di terapia!) per la verifica degli apprendimenti.
Insomma, abbia il coraggio di dire “amicus (si fa per dire) Plato (= le “autorità”) sed magis amica Veritas (ma ancor più amica la Verità)”.
*WOCE sta per “Written Output Communication Enhancement” e si rifà a un sistema di Comunicazione Facilitata introdotto in Italia da Patrizia Cadei.
Presidente dell’Associazione Vi comunico che penso, già dirigente scolastico in provincia di Gorizia.
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