La lettura di un articolo pubblicato da «Superando.it», relativo alla messa in scena a Roma da parte di attori non vedenti della Morte di Cesare [“Un evento che fa ‘vedere’ senza vedere” di Gianna Mancinelli, N.d.R.], ha suscitato in me – che pure ero già “all’interno” degli eventi narrati – l’esigenza di condividere l’esperienza di chi, in quanto ivi descritto, ha avuto parte attiva.
Sì, sono uno degli “attori” non professionisti che hanno preso parte all’esperimento condotto dall’Associazione Museum – impegnata da anni in attività di volontariato per la fruizione dei beni museali da parte delle persone con disabilità visiva, psichica e uditiva – volto da un lato a valutare le reazioni degli spettatori (privati temporaneamente dell’uso della vista), dall’altro a studiare le modalità di approccio di persone prive della vista a una situazione “artificiale”, quale quella scenica, in rapporto all’“anomala” condizione degli spettatori stessi. Ed è su questo secondo aspetto che vorrei principalmente fissare l’attenzione mia e di chi legge.
La persona priva della vista, se abituata a farlo, si muove autonomamente nell’àmbito di spazi, specie se noti – siano essi interni o esterni – utilizzando le proprie capacità di orientamento, basate essenzialmente sull’utilizzo di quelli che chiamiamo “sensi residui” e di ciò che da essi deriva.
È bene sgombrare subito il campo da una “credenza” particolarmente diffusa tra chi non conosce da vicino, per contatto diretto, la realtà di chi non vede. Non è corretto credere che gli altri sensi – altri rispetto alla vista – in presenza di questa non svolgano ugualmente le loro funzioni: le percezioni da essi derivanti sono in certa misura solamente attutite, offuscate, in parte ignorate dal cervello, sommerso da informazioni di carattere visivo; è tuttavia vero che in assenza della vista, venendo meno quel mare di percezioni/sensazioni/informazioni da essa fornite, l’attenzione del soggetto si rivolge spontaneamente, necessariamente, a ciò che proviene da altri canali.
Banale, no? Come l’uovo che Colombo pose verticalmente sulla tavola! Tuttavia, l’ignoranza di una tale banalità produce generalmente la falsa convinzione che il cieco abbia gli altri sensi più sviluppati del vedente. Ciò può anche essere vero, in minima parte, se, per dirla con Lamarck*, «la funzione crea l’organo»; ma la realtà è che la mancanza del preponderante stimolo visivo fa concentrare l’attenzione sulle informazioni provenienti dagli altri sensi: quella è la realtà percepita.
Tutto questo per dire che, nel caso in esame, gli “attori” non vedenti si venivano a trovare in una situazione paradossalmente per loro “anomala”: non potevano cioè liberamente far riferimento unicamente alle loro capacità di orientamento, ma dovevano armonizzare fattori concomitanti, sostanzialmente nuovi per loro, ovvero:
– accompagnare lo spettatore bendato al proprio posto, precedentemente stabilito, secondo un percorso determinato, evitando “ingorghi” con le altre coppie in movimento;
– cercare e seguire – anche vincendo il proprio istinto a orientarsi come sopra sinteticamente descritto – i riferimenti tattilo-plantari posti sul pavimento;
– tenere a mente e sussurrare allo spettatore, nei modi e nei tempi dovuti, la parte prevista dal copione;
– legare insieme, in altri termini, azioni innaturali in un ambiente innaturale.
Si comprende bene che coordinare e automatizzare tali “attività” può creare qualche problema: ha richiesto infatti molto esercizio e pazienza da parte di tutti.
I riferimenti tattilo-plantari non erano inizialmente previsti, ma ci si è resi subito conto che potevano essere molto utili sia nella fase iniziale – accompagnamento degli spettatori bendati al proprio posto – sia in quelle successive, in cui gli “attori” dovevano muoversi in scena, per trasferire agli spettatori bendati informazioni sullo svolgersi dell’azione, mediante il loro movimento, attraverso informazioni uditive (spostandosi in tutte le direzioni, parlando e producendo rumori), tattili (toccandoli e facendo loro toccare oggetti di scena), olfattive (proponendo loro, in momenti specifici, essenze odorose).
Vincente è stata poi la scelta – anch’essa effettuata in itinere – di predisporre la “platea-scena” a formare un quadrato di 20×20 (sedie), in modo tale che gli spettatori, a due a due, fossero posti l’uno di fronte all’altro, dividendo inoltre la stessa “platea-scena”, mediante due “corridoi” a croce in quattro settori, uguali a due a due, in modo da permettere gli spostamenti degli “attori” sempre di fianco o alle spalle degli spettatori, senza correre il rischio di camminare sui loro piedi.
Questa particolareggiata descrizione – sperando di essere riuscito con le mie parole a rendere l’effettiva disposizione degli spettatori – semplicemente per far capire che possono bastare anche piccoli, ma efficaci accorgimenti, per risolvere situazioni che, viste da fuori, sembrerebbero di difficile soluzione. Ciò spesso accade nella vita quotidiana di una persona minorata della vista: agli “altri” sembra che questa debba affrontare situazioni con difficoltà insuperabili, mentre, il più delle volte, l’ingegno e il naturale ricorso ai sensi residui consentono di vivere una vita “normale”.
Fondamentali per la messa in scena sono stati infine i defatiganti, ma al tempo stesso appassionanti, numerosi momenti delle prove e la regia, che ha avuto la capacità di guidarci, con polso fermo, con l’umiltà di chi sa ascoltare e fare tesoro anche dei suggerimenti e delle istanze provenienti da chi – gli “attori” – il mondo della disabilità visiva lo conosce per lunga consuetudine individuale e spesso anche professionale.
Confesso che la mia personale posizione, inizialmente, era piuttosto scettica nei confronti di una tale iniziativa; poi, con l’andar del tempo, la consuetudine con i colleghi, i risultati che via via prendevano corpo, ho dovuto ricredermi alla prova dei fatti. Ritengo dunque di non peccare di immodestia, di non fare una Cicero pro domo sua, se affermo che l’evento ha avuto un buon successo, perché è quanto unanimemente affermato dalla generalità degli spettatori.
Sui risultati, visti dal versante degli spettatori, non mi soffermo, perché bene è stato sintetizzato nell’articolo inizialmente citato; mi limito solo a sottolineare la loro reazione generale, di chi – in qualche modo – si è sentito più vicino alla realtà vissuta da coloro i quali la condizione di non vedere la vivono quotidianamente. Certo, è solo una pallida idea, ma può servire almeno a far sì che a tali problematiche si presti un po’ più di attenzione: esistono e possono, sanno fare, non sono marziani, sono persone che non sono in grado di vedere (con gli occhi), ma…
*Jean-Baptiste Lamarck è stato un naturalista, zoologo, botanico, enciclopedista e chimico francese, vissuto tra Settecento e Ottocento, che introdusse il termine “biologia” ed elaborò la prima teoria dell’evoluzione degli organismi viventi, basata sull’adattamento e sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti, oggi nota appunto come “lamarckismo”.