Il suo volto allegro, rotondo e cordiale ispira immediatamente simpatia. La sua comunicazione semplice e diretta mette a proprio agio. Venus Ilagan, filippina, è attualmente la presidente di Disabled Peoples’ International (DPI), l’organizzazione internazionale che tutela i diritti umani delle persone con disabilità in 135 Paesi, con lo statuto consultativo in tutti gli organismi e le agenzie internazionali, tra cui ONU, OMS, Unesco, Unicef, International Labour Organization, Consiglio d’Europa e Unione Europea.
Prima di sette fratelli, Venus è stata colpita dalla poliomielite a tre anni e per questo ora si muove in carrozzina. «La mia condizione non ha ostacolato le scelte della mia vita», ci racconta con un largo sorriso, «anzi, paradossalmente mi ha aiutato».
Il suo mestiere è quello della giornalista, che ha scelto per incontrare gente, conoscerne la vita, raccontare storie. «Ho lavorato nel “Philippine Journal” come corrispondente di cronaca nera. Raccontavo gli omicidi, le rapine della popolazione, spesso la più povera. In particolare mi interessava far emergere che anche quelli che sono considerati criminali hanno un cuore, anch’essi sono fragili e spesso teneri. La mia condizione mi favoriva perché, non potendo accedere sul luoghi dei delitti – a causa delle barriere architettoniche – la polizia e gli inquirenti mi davano tutte le informazioni che chiedevo. Così ero la più informata e spesso ero io ad aiutare i colleghi!».
Venus ci racconta che anche durante la dittatura di Marcos è stata corrispondente di guerra, nella lotta di liberazione della guerriglia, che si asserragliava sulle montagne delle Filippine. «Ci spostavamo con gli elicotteri militari, dove i posti per i giornalisti erano limitati. A me ne era sempre riservato uno». «Ma quanti giornalisti erano nelle tue condizioni?». «Naturalmente ero la prima e l’unica. Questo però mi ha dato una certa fama che mi è stata utile per il percorso successivo. Infatti da lì a poco sono diventata leader di una piccola associazione di persone con disabilità nel mio Paese, Tuguerao, e ho trovato un’attenzione diversa nelle autorità. Da quell’esperienza è poi nato DPI nelle Filippine».
«Da allora in dodici anni la tua “carriera” è stata molto rapida?». «In effetti sono entrata a far parte del Consiglio Mondiale di DPI nel 1998, due anni dopo sono stata eletta presidentessa dell’area Asia Pacifico e nel 2002 a Sapporo, in Giappone, presidentessa mondiale».
«Che cosa significa vivere la disabilità in un Paese in cerca di sviluppo?».
«Se sei una persona con disabilità in questi Paesi, la povertà ti guarda negli occhi tutti i giorni. Nelle Filippine la ricchezza è concentrata nel 10% della popolazione e la gran parte di quest’ultima vive in aree rurali. Le persone con disabilità sono circa 8 milioni e mezzo e più del 90% di esse vivono sotto la soglia della povertà; meno del 3% dei bambini con disabilità vanno a scuola e il 90% non ha un’occupazione. Nelle aree rurali i servizi sociali e sanitari sono praticamente inesistenti, perché tutto è concentrato nelle grandi città. Per quanto poi riguarda la legislazione, tutto sommato è buona, ma il problema è che essa è largamente inapplicata. Comunque il problema più grande è che il Nord del mondo non conosce – e spesso non immagina neppure – cosa significhi veramente la povertà nel Sud del mondo».
«Che differenze cogli nel concetto di povertà in un Paese ricco e in uno in cerca di sviluppo?». «In un Paese ricco le persone con disabilità sono povere per limitazione di accesso a diritti, servizi, spazi: è una sorta di impoverimento sociale. Nei Paesi poveri, invece, le persone con disabilità hanno prima di tutto il problema della sopravvivenza: una malattia, anche banale, può produrre complicazioni che possono portare alla morte. Poi c’è il problema della fame, che famiglie numerose devono affrontare. Non essendoci lo Stato Sociale, non vi sono benefit sufficienti. Infine c’è una grandissima ignoranza sui diritti e le opportunità».
«Qual è il maggiore impegno che DPI avverte in questi paesi?». «Quello di far crescere la coscienza dei propri diritti, di elevare il livello di autostima delle persone con disabilità, di diffondere informazione e formazione. DPI è un’organizzazione basata sui diritti umani e la tutela e la promozione dei diritti è rafforzata dalla possibilità di lavorare insieme. La giustizia sociale si consegue solo in gruppo, con un lavoro collettivo. DPI, inoltre, è capace di coniugare il livello internazionale con quello nazionale e locale. Molte nostre organizzazioni vengono dette grassroots, ovvero “di base”. Elaborare strategie di intervento locali per noi è essenziale per dare risposte concrete ai nostri associati. In più la nostra è un’organizzazione di self-help, con l’obiettivo di rafforzare le capacità dei nostri associati, produrre empowerment. Per questo lavoriamo molto sulla diffusione delle informazioni, sul lavoro di rete. DPI, infine, è capace di coniugare il tema dei diritti umani con i temi politici internazionali come il Millennium Development Goals (MDGs) e con questioni nazionali, come lo sviluppo locale».
«Quali sono le principali difficoltà che incontri?». «Nei Paesi poveri, dove le dittature hanno lasciato tracce pesanti, è più difficile far emergere a livello nazionale e locale la violazione dei diritti umani per le persone con disabilità: le violazioni sono state tanto grandi nei diritti fondamentali di tutta la popolazione che non sono ancora distinguibili le violazioni specifiche che la società crea alle persone con disabilità. Inoltre anche la partecipazione diretta degli interessati è problematica in Paesi dove questo ruolo di stimolo della società civile non è riconosciuto. A maggior ragione le politiche di egualizzazione delle opportunità, per persone escluse ed emarginate, diventano quasi impossibili dove non vi siano risorse economiche sufficienti per tutti».
«La povertà è quindi il risultato di mancanza di risorse e di esclusione sociale…». «Certo, per questo cerchiamo da un lato di coinvolgere le istituzioni internazionali, come l’ONU, l’OMS, la Banca Mondiale, le banche regionali, i donatori privati e pubblici a destinare maggiori risorse alla disabilità; dall’altro lato, poi, ci impegnamo a dare maggiore visibilità ai nostri bisogni, denunciando e proponendo. Il riconoscimento della dignità politica della disabilità è ancora lontano, purtroppo, soprattutto a livello nazionale e locale…».
«Stiamo parlando qui a Perugia, in occasione della Sesta Assemblea dell’ONU dei Popoli e della Marcia Perugia-Assisi. Cosa pensi dell’esperienza di partecipazione a questi eventi da parte delle persone con disabilità?». «L’esperienza della povertà nei Paesi ricchi è ancora prevalentemente retorica. Però va segnalato che qui a Perugia la testimonianza dei diretti interessati, provenienti da più di cento Paesi, fornisce un quadro più realistico della condizione dei Paesi del Sud del mondo. Inoltre, il movimento delle persone con disabilità finora non era stato riconosciuto come interlocutore in questi tavoli di proposte: abbiamo compiuto sicuramente un percorso straordinario negli ultimi dieci anni con la strategia dei diritti umani, che unifica la nostra voce in qualsiasi Paese del mondo. La nostra esperienza di vita, trasmessa con un linguaggio culturale e politico, ci permette di essere interlocutori di queste nuove reti internazionali di solidarietà».
«Ma cosa ne pensi della riforma dell’ONU?». «Purtroppo un problema è l’uso strumentale che gli Stati Uniti fanno delle Nazioni Unite, che a volte diventano un organismo senza potere. Credo che quello che è successo recentemente a New Orleans con l’uragano Katrina sia particolarmente istruttivo: la solidarietà sociale ha bisogno di uno Stato capace di tutelare i più deboli e di garantire i diritti di tutti. In Louisiana è apparso evidente che i ricchi scappavano e i poveri morivano. Gli Stati Uniti dovranno ripensare il loro modello di Stato ultraliberistico. Noi abbiamo dato un contributo alla riforma dell’ONU, dimostrando che è possibile partecipare come società civile alla definizione di una Convenzione Internazionale sui nostri diritti di persone con disabilità». «Ed infatti è stata la prima volta che l’ONU ha riconosciuto in un documento ufficiale la partecipazione delle organizzazioni di persone con disabilità nella scrittura del testo della Convenzione…». «Sì, è proprio così. Abbiamo partecipato a pieno titolo ai lavori dell’Ad Hoc Committee di New York e siamo interlocutori apprezzati e credibili di Don MacKay, presidente del Comitato stesso. Soprattutto abbiamo contribuito in maniera significativa a far crescere nei governi la consapevolezza del valore della diversità umana come ricchezza dell’umanità. Appare necessario, infatti, superare lo stigma negativo che le persone con disabilità subiscono in tutte le società del mondo. In questo senso la Convenzione darà un contributo straordinario di strumenti legali e culturali sia per i Paesi poveri che per quelli ricchi».
«Tu hai partecipato al gruppo di lavoro che ha stilato il testo base di discussione: che ne pensi dell’attuale bozza della convenzione?». «Per quanto combatteremo nelle prossime sessioni per migliorarla ancora, posso dire che già l’attuale testo è estremamente innovativo. Temi come il riconoscimento giuridico, la vita indipendente, la prevenzione di trattamenti inumani e contro la dignità, la partecipazione sociale e alla vita di comunità, sono articoli che danno un valore particolare alla Convenzione».
«Tu sei la prima presidente donna di DPI: hai avuto particolari problemi nell’organizzazione per questo?». «Per la condizione di emarginazione e sudditanza che la donna ha vissuto per millenni, le sfide per le donne con disabilità sono sempre doppie. Allo stesso tempo, però, se affronti con impegno i compiti che ti vengono affidati, scopri che essere donna può essere un vantaggio perché a quel punto inizi ad essere rispettata per quello che fai. Nel movimento mondiale della disabilità vi sono molte presidenti donne: Diane Richler in Inclusion International, Lisa Anderson nella Canadian Association of the Deaf, Kikki Nordstrom nella World Blind Union. La donna porta nella discussione un approccio meno conflittivo, di collaborazione e di costruzione positiva».
«Cosa pensi dell’Italia, del suo movimento, del nostro modello sociale?». «Si tratta della terza volta che vengo nel vostro Paese durante la mia presidenza e ogni volta sono impressionata dal vostro approccio estremamente inclusivo: un’esperienza importante che dimostra che l’inclusione è possibile».
«E per concludere, cosa ti auguri per il futuro?». «La crescita del movimento: è quasi una conseguenza scontata del grande lavoro di riformulazione delle tematiche sulla disabilità che abbiamo realizzato negli ultimi quindici anni. Abbiamo però bisogno di nuovi leader globali, capaci di parlare il linguaggio dei diritti umani a livello internazionale, nazionale e locale. In questa direzione la prossima Convenzione, che spero venga approvata entro il 2007, darà un grande contributo ad una nuova percezione della disabilità».
Venus sorride, con una mescolanza unica di passione e serenità. Durante la Marcia Perugia-Assisi, cui abbiamo partecipato, abbiamo ritrovato lo stesso sorriso, con in più uno stupore sincero della grande partecipazione delle persone con disabilità. Forse quella grande trasformazione di cui Venus parlava è più vicina di quanto lei stessa possa immaginare!