Per fragilità intendiamo qui la situazione in cui si trovano a vivere le famiglie a causa di carenze economiche, culturali, di salute, socioambientali o spirituali che colpiscano uno o più dei loro membri. Qualora poi si tratti di persone sole, la fragilità colpisce queste come unici membri della famiglia.
Per quanto riguarda poi le famiglie che abbiano al loro interno persone con disabilità, esse incontrano difficoltà diversificate a seconda che tale condizione colpisca uno o entrambi i genitori o uno o più figli.
La fragilità di tali famiglie è diversa pure a seconda che la minorazione sia insorta in un membro prima della costituzione della famiglia o dopo.
Nel primo caso l’adulto non disabile che accetta di vivere con una persona disabile fa una scelta consapevole e tale è pure nei casi, oggi sempre più rari, in cui a costituire una famiglia siano due persone con disabilità.
Quando invece la minorazione insorge successivamente, i problemi sono più complessi. Infatti, se ad essere colpito è uno dei genitori, si pongono immediatamente anche problemi di mancato reddito familiare o di mancate risorse di cura da parte del coniuge minorato.
Se altresì la minorazione colpisce un figlio dalla nascita, si pongono, oltre ai problemi economici, anche problemi di accettazione dell’imprevisto, talora con conclusioni drammatiche di rottura della coppia e di affidamento del piccolo al solo coniuge che lo ha accettato (in genere la madre), che rimane ancor più fragile nella gestione della vita quotidiana.
Qualora poi nessuno dei due coniugi accetti il figlio “indesiderato”, al minore si apre la via emarginante dell’istituto speciale.
Anche quando il minore con disabilità viene accettato dai genitori, i problemi divengono sempre più gravi col crescere dello stesso, sia perché l’assistenza fisica diviene sempre più pesante, sia per le lotte sempre più dure per la sua integrazione nella scuola, nel lavoro (ove possibile), sia infine per l’accoglienza e la permanenza in una rete di servizi territoriali, spesso inesistenti o malfunzionanti, che gli permettano di rimanere a vivere nel nucleo familiare e sul proprio territorio.
Qualora a causa della durezza delle lotte e della crescente fragilità della famiglia, tutte le soluzioni divengano difficili, torna ad affacciarsi come unica soluzione quella dell’ingresso nel circuito emarginante dell’istituto speciale.
Quando invece i genitori riescono a garantire la persistenza del figlio con disabilità nel nucleo familiare, la fragilità si abbatte sul figlio stesso quando i genitori scompaiono. Proprio questa è l’angoscia maggiore che colpisce i genitori che sono riusciti, tra immense difficoltà, a trattenere in casa il membro con disabilità e che pensano con terrore a ciò che avverrà dopo la loro morte. Infatti, non sempre i fratelli si sentono di accollarsi l’assistenza del congiunto con disabilità, specie se questi non è autosufficiente per cause fisiche o soprattutto intellettive.
In mancanza di soluzioni solidaristiche sociali, anche qui si apre solo il triste tunnel dell’istituto speciale.
Ovviamente tutte queste situazioni si palesano con una fragilità maggiore o minore a seconda della situazione economica, culturale, sociale e spirituale della famiglia e dell’ambiente e del contesto sociale in cui la famiglia stessa si trova a vivere. Ciascuna di tali situazioni condiziona positivamente o negativamente il contrasto della situazione di fragilità.
Testimonianze
Le comunità cristiane italiane, a seconda della maggiore o minore presa di coscienza di questi problemi e della formazione pastorale realizzata, danno testimonianze diversificate. Quelle infatti ove prevale ancora una formazione catechistica e pastorale preconciliare spingono le famiglie a mettere i loro membri con disabilità negli istituti speciali gestiti da religiosi e religiose, talora con numerosi ospiti e spesso anche assai lontani dalla residenza del nucleo familiare, con abbandono più o meno mascherato del membro minorato.
A livello pastorale, le risposte di queste comunità alle famiglie sono di carattere consolatorio, puntando solo ad annunciare loro il «valore salvifico della sofferenza e della Croce» che non sempre viene compreso o accettato dalla famiglia.
Quest’ultima, quindi, si allontanerà prima o poi dalla comunità cristiana di appartenenza e talora anche dalla fede in Cristo.
Le comunità invece che hanno recepito il messaggio del Concilio Vaticano II in genere si organizzano a livello parrocchiale per accogliere il fratello o la sorella con disabilità e la sua famiglia. Vengono quindi organizzati gruppi di volontariato per concedere momenti di sollievo alla famiglia dalla cura quotidiana, specie dove i servizi sociali sono carenti.
Si sostiene inoltre la famiglia nell’integrazione del minore nelle scuole pubbliche e in quelle cattoliche che sempre più si attrezzano per l’accoglienza.
Queste comunità cristiane si adoperano poi perché le persone con disabilità, al termine degli studi, vengano inserite nel mondo del lavoro, se sono state formate e sono in grado di lavorare sulla base di progetti personalizzati. Qualora invece non siano in grado di svolgere un proficuo lavoro, si adoperano affinché le famiglie possano accedere ai servizi territoriali occupazionali, educativi e socioriabilitativi, sforzandosi anche – quando questi ultimi siano carenti – di porsi accanto alle famiglie nella cura quotidiana e nelle giuste battaglie giuridiche, assieme ad altri gruppi anche laici, per ottenere servizi territoriali che evitino il ricorso agli istituti.
Di recente, alcune comunità cristiane stanno promuovendo corsi di formazione per volontari che svolgano il compito di «amministratori di sostegno ai sensi della Legge 6/2004», per le persone non autosufficienti e stanno avviando la costituzione di «fondazioni della comunità locale», per garantire la permanenza di queste persone nella propria dimora o in piccole comunità-famiglia, dopo la morte dei genitori.
A livello pastorale, queste comunità cristiane non si limitano quindi ad annunciare «il valore salvifico della Croce», ma annunciano con la loro testimonianza anche «il valore salvifico della resurrezione di Gesù», attualizzando l’insegnamento di San Paolo («Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede»: Prima Lettera ai Corinti, capo 15, vv. 14, 17), dando anzi un senso alla Croce con la testimonianza di Gesù risorto, che si manifesta nella condivisione concreta dei problemi della vita quotidiana di queste persone e delle loro famiglie.
La nostra esperienza di fede ci induce a credere che Gesù è crocifisso in queste persone e nelle loro famiglie, ma non per rimanervi perennemente sofferente, ma per risorgere in loro e con loro fin d’ora, grazie all’impegno solidale delle comunità cristiane.
Proposte
Si propone che il Convegno Ecclesiale affronti con coraggio i problemi di queste famiglie e dei loro membri, analizzando – alla luce del rinnovamento catechetico, liturgico, pastorale e della diaconia della carità, provocato dal Concilio – gli atteggiamenti mentali e le prassi contrarie a tale rinnovamento, ancora troppo presenti nella cristianità italiana, sia nella predicazione, sia nella gestione di grossi istituti speciali per disabili e addirittura nella costruzione di «villaggi per soli disabili e loro familiari», come sta avvenendo ad esempio presso l’Oasi Maria SS. di Troina, in Sicilia.
Rilanci inoltre e sostenga le iniziative dei gruppi di volontariato e delle parrocchie che si sforzano di realizzare una promozione umana conforme ai nuovi insegnamenti del Concilio, soprattutto laddove quest’ultimo invita «a non dare per carità ciò che spetta per giustizia».
Inviti i Vescovi, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, i Fedeli laici e le Fedeli laiche a riscoprire i copiosi documenti papali che, a partire più frequentemente da Giovanni XXIII, hanno trattato dei diritti umani delle persone con disabilità e delle loro famiglie; a citarli nella predicazione ordinaria e a tradurli in opere concrete con interventi che ristrutturino i servizi che erano innovativi nei secoli scorsi, ma che oggi sono anacronistici, perché non rispettano la dignità di queste persone, perché non sono strutture di tipo familiare, come è stato denunciato, proprio in questi ultimi mesi, per l’Istituto Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello, di proprietà della Diocesi di Cosenza, in cui sono ammassate centinaia di persone con disabilità di tutte le età in condizioni disumane, denunciate dallo stesso vescovo Giuseppe Agostino nel 2004.
I consultori familiari si dotino della presenza di esperti psicopedagogici per sostenere le famiglie nel momento della nascita di un figlio con disabilità e nel suggerire interventi precocissimi di carattere educativo e riabilitativo.
La Gerarchia e la Comunità Ecclesiale tutta parli alto e forte nei confronti delle autorità civili nel pretendere la realizzazione dei servizi e le provvidenze a sostegno dell’integrazione sociale di queste persone e delle loro famiglie.
Tutta la Comunità Ecclesiale, infine, si adoperi per una piena integrazione ecclesiale, non paternalistica, ma promozionale, di queste famiglie e di ciascuno dei loro membri.
*Vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Riflessioni stese in vista di un intervento al Convegno Ecclesiale di Verona che si terrà nell’ottobre del 2006.
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