L’invasione di persone con disabilità, familiari e militanti che le Nazioni Unite hanno affrontato durante le tre settimane della settima sessione del Comitato Ad Hoc – riunito a New York al Palazzo di Vetro per la discussione della Convenzione sulla Promozione e la Tutela dei Diritti e della Dignità delle Persone con Disabilità – è stata certamente inattesa. Infatti, a conclusione della precedente sessione, nell’agosto del 2005, la preoccupazione per la durata – ben tre settimane – aggiunta alle critiche condizioni meteorologiche, lasciava presagire una scarsa partecipazione da parte dei militanti dei movimenti per i diritti delle persone con disabilità, provocando ulteriore apprensione per l’importanza della seduta che avrebbe rivisto l’intero testo.
A nessuno, però, è stato concesso di rimanere estraneo alla dimensione della partecipazione articolata tra delegazioni associative e presenza delle organizzazioni non governative (ONG) nelle rappresentanze ufficiali dei governi.
I più refrattari ad una presenza così ampia e pervasiva della società civile – come vedremo – si sono sì palesati, ma hanno trovato scarsa adesione alle loro dichiarazioni di richiamo ai princìpi tradizionali dell’ONU, ove tutti gli Stati hanno il proprio spazio in maniera paritetica, mentre non ce l’hanno le espressioni della società civile.
In tal modo, le ipotesi di lavoro dell’International Disability Caucus (IDC), il coordinamento interassociativo costituito per la Convenzione, hanno goduto della massima attenzione e sono state poste al centro del dibattito tra le delegazioni governative che compongono il Comitato Ad Hoc, seppur con alterne fortune e non solo per l’opposizione degli Stati alle sue istanze.
In questo senso va segnalato che a maggior partecipazione corrisponde inevitabilmente un arricchimento di idee e pratiche non sempre collimanti in un’unica posizione. Si suscita infatti un crescente dibattito che può far emergere visioni diversificate su cosa significhi garantire l’eguaglianza di opportunità per le persone con disabilità.
E proprio da questo elemento prende spunto la nostra analisi perché – come noi auspichiamo – si corre il pericolo che esso possa diventare decisivo. Altrimenti, su alcuni nodi importanti, la mediazione potrebbe arenarsi su una fotografia istantanea del trattamento discriminatorio esistente, nonché sulle sabbie mobili della crisi delle Nazioni Unite.
Il ruolo delle organizzazioni non governative
Come detto, in questo dibattito il ruolo delle organizzazioni non governative ha decisamente assunto una centralità mai raggiunta prima nella storia delle trattative delle Nazioni Unite. Sin dall’inizio, infatti, diverse ONG hanno esercitato ogni forma di pressione su alcuni Stati latinoamericani, come il Messico e Costarica, assai vicini all’amministrazione statunitense, affinché il percorso del Comitato Ad Hoc prendesse l’avvio con la presentazione di una specifica mozione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Le varie espressioni della società civile che operano a livello internazionale ed esercitano pressioni sull’ONU e sugli Stati membri sono anzitutto organizzazioni di cooperazione internazionale che, come Handicap International, nata in Francia, sono sorte per creare strutture di riabilitazione a partire da forniture ortopediche. Il loro cambio di paradigma, dall’assistenza all’inclusione, ha reso possibile la creazione di reti formate da persone con disabilità, come Landmine Survivors Network (LSN), organizzazione con base negli Stati Uniti che opera con i propri officer in vari Paesi in via di sviluppo.
I più ricorderanno ad esempio la campagna contro le mine iniziata alla fine degli anni Ottanta con la principessa Diana, della quale LSN si rese protagonista: proprio la forza di quell’iniziativa diede alla rete l’opportunità di costruire interlocuzioni con gli Stati senza l’atavica soggezione.
Se si fa poi eccezione per Inclusion International, la principale organizzazione di familiari di persone con disabilità intellettive e relazionali, che da oltre quarant’anni si cimenta nel rappresentare le persone più gravi presso le Nazioni Unite, la chiave per parlare di diritti umani è nel cambio di paradigma delle ONG della cooperazione che si adoperano per dare l’opportunità alle persone con disabilità e ai loro familiari di parlare per se stessi. Esse hanno così agevolato l’incontro di persone disabili di Paesi in via di sviluppo con reti già esistenti, come per i ciechi (World Blind Union – WBU), i sordi (World Federation of the Deaf – WFD) e i sordociechi (World Federation of Deaf-Blind – WFDB).
Il cambio di paradigma si consolida attraverso la presa di possesso su di sé che genera autodeterminazione: la nascita di Disabled Peoples’ International (DPI) è forse la testimonianza inequivocabile del processo in atto, assieme alla successiva genesi dell’International Disability Alliance (IDA) che raggruppa le associazioni di persone e familiari (con l’aggiunta della World Network of Users and Survivors of Psychiatry – WNUSP e di Rehabilitation International), escludendone, senza contrasti, le organizzazioni non governative di cooperazione.
Le cosiddette “sette sorelle” dell’IDA, assieme alle ONG della cooperazione, di disabili o meno – come l’LSN o Handicap International – sono state protagoniste anche nelle prime sedute del Comitato Ad Hoc, dove si è elaborato il testo base (Working Group Text), sul quale si è dibattuto fino alla sesta sessione dell’agosto 2005.
Nel tempo la partecipazione di ONG di persone con disabilità e familiari si è arricchita con le organizzazioni “regionali“, con ciò intendendo organismi di secondo livello altrimenti detti “ombrello”, rappresentanti (cross disability) un intero continente o nazione, oppure anche singole realtà interessate direttamente al dibattito di New York e anche a partecipare ad esso.
Tra queste va segnalata l’importanza della funzione di coordinamento dell’European Disability Forum (EDF), avvezzo a tale funzione, ma anche dei contributi di idee ed esperienze di livello nazionale provenienti dall’Australia, dal Giappone, dall’America Latina e dalla stessa Europa, come il Regno Unito, la Danimarca, la Svezia e l’Italia con il CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).
Così prende corpo il più ampio Caucus Internazionale (IDC), con al centro l’IDA, al quale il Comitato Ad Hoc dà l’opportunità di partecipare attivamente alle negoziazioni formali e informali, dentro e fuori l’emiciclo, portando contributi scritti e intervenendo al termine della discussione di ogni articolo.
Nelle precedenti sessioni del Comitato Ad Hoc, nonostante l’impegno economico delle Nazioni Unite, tramite il Voluntary Found, la presenza di associazioni dei Paesi in via di sviluppo era stata debole e sostenuta principalmente da organizzazioni di cooperazione internazionali, eccezion fatta per DPI. A testimonianza invece dell’importanza di quest’ultimo evento, la settima sessione ha visto numerose iniziative collaterali delle associazioni dei Paesi Arabi, tra le quali ne va evidenziata una specifica dedicata alle donne con disabilità, che qualifica la loro partecipazione in un periodo così difficile per i rapporti tra l’Occidente e gli stessi Paesi Arabi.
Proprio la loro partecipazione potrebbe rendere più complicata la posizione di delegazioni governative come quella del Sudan, con le sue forti critiche al presidente del Comitato, l’ambasciatore Don MacKay, “colpevole” di dare spazio eccessivo ai rappresentanti della società civile o addirittura di sollecitarne l’intervento e la partecipazione.
Insomma, proprio le reti civili degli Stati in via di sviluppo potrebbero determinare il salto di qualità della Convenzione e renderla di valore universale, per affermare la dignità delle persone con disabilità, i loro diritti e l’uguaglianza di opportunità. A riprova di ciò, e in controtendenza con le immagini di civili che bruciano le ambasciate e i consolati di Danimarca e Norvegia, la società civile araba ha avvicendato posizioni più neutrali – non neutre – sulle pari opportunità.
Allo stesso modo si rende necessaria anche una più robusta partecipazione da parte delle associazioni di due “ingombranti colossi” come la Cina e la Russia, la cui presenza è sempre più forte, a difesa delle peculiarità dei propri Paesi. Essi inoltre possono far pesare il loro seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la loro forza diplomatica, ciò che può realmente far ridisegnare le varie geografie politiche e alleanze interne al Comitato Ad Hoc.
Diverso appare il ragionamento riguardante il rapporto tra la rappresentanza governativa statunitense e l’ampia presenza – ovviamente anche per ragioni geografiche – di organizzazioni della società civile di quel Paese. A quanto è stato possibile verificare, le associazioni americane sono radicate nel movimento per i diritti civili che è parte – se pur critica – dell’area culturale e politica gravitante intorno al Partito Democratico. Esse pertanto non danno vita ad occasioni di dialogo con un governo di segno diverso, condannandolo, anzi, e contestandolo apertamente.
I temi più dibattuti
Tra i temi più controversi, ve ne sono stati alcuni relativi ai princìpi di libertà ed eguaglianza (rappresentanza legale, definizione di disabilità, educazione, lavoro) e altri agli strumenti da mettere in campo (il monitoraggio e la cooperazione internazionale), oltre a due questioni aperte sulle quali le richieste del Caucus sembrano ormai avere “preso il largo”: i bambini e le donne con disabilità.
Infatti, dopo un atteggiamento ostile di larga parte delle delegazioni del gruppo africano e di quello arabo sull’inserimento di una particolare attenzione alla violazione dei diritti delle donne con disabilità – che portava con sé anche il “meno preoccupante” tema dei bambini – sembra aver preso corpo l’idea del twin-track, il cosiddetto “doppio approccio”. In altre parole, un distinto articolo per entrambi i temi e contemporaneamente l’inserimento di commi specifici negli articoli dove è necessario prevedere impegni circoscritti per i bambini e le donne con disabilità.
A problema apparentemente risolto, come spesso avviene in negoziazioni internazionali, si è contrapposta una questione più generale sulla non discriminazione affinché il passaggio sulle donne e sui bambini diventasse meno efficace: le pari opportunità devono essere garantite rispetto a norme universali oppure alle tradizioni e ai costumi del proprio Paese?
La differenza è assai rilevante. Ad esempio per i bambini, se il diritto di famiglia di uno Stato prevede che il figlio sia soggetto esclusivamente della patria potestà e non portatore di diritti tutelati dallo Stato, è ovvio che la Convenzione potrà aspirare solo ad uguagliare le opportunità tra figli già discriminati, non concretizzandosi quindi in un’azione di garanzia dei diritti universali.
Un principio di quella natura fatalmente ricorre in molti passi del testo in discussione e un arretramento rispetto all’universalità dei princìpi e delle norme internazionali potrebbe rendere complicato il dibattito e, più di ogni altra cosa, fiaccherebbe la tangibile attuazione dei diritti sanciti delle Regole Standard dell’ONU.
E d’altro canto, come rischio diametralmente opposto, si affaccia l’ipotesi che, in caso di regole e impegni eccessivamente rigorosi, molti Paesi potrebbero anche non sottoscrivere la Convenzione, rendendo in ugual modo più fragile il suo percorso di legge universale e più debole l’impegno dei 190 Paesi membri delle Nazioni Unite.
Alcuni nodi delicati
Come detto, la controversia che riguarda donne e bambini con disabilità attiene trasversalmente a buona parte degli articoli e si trasforma nel casus belli, irrompendo con veemente polemica nella discussione.
Alcuni esempi di merito che riferiscono della laboriosità della discussione sono di supporto per una migliore comprensione.
Per alcune delegazioni, promuovere il diritto alla maternità delle donne con disabilità e l’accesso ai servizi sanitari ad essa dedicati comporta automaticamente e contestualmente legittimare il diritto ad abortire, trasportando la disputa su lidi molto distanti dalle donne con disabilità che reclamano anzitutto il diritto al concepimento.
Altre delegazioni considerano poi l’idea della massima autodeterminazione possibile per i bambini con disabilità tanto quanto il concetto di best interest of the child (che però è già sancito dalla Convenzione sui Diritti dei Bambini – CRC), ovvero come un significativo indebolimento del ruolo della famiglia e di conseguenza come un potenziale ideale laicista e pericoloso per la natura della nostra società.
Altre ancora, infine, sono impensierite dall’inserimento della promozione del diritto all’esperienza sessuale, così come, sul versante più occidentale, si guarda al netto e deciso divieto alla sterilizzazione.
Seppure su fronti diversi, quindi, questi diritti vengono percepiti come irrispettosi di tradizioni e culture locali o meglio dei limiti che la comunità decide di dotarsi.
Un capitolo delicato per la netta differenziazione di approccio che comporta e per l’influenza sull’intera Convenzione riguarda due punti correlati fra di loro: la definizione di disabilità e la protezione legale.
Si tratta di materie esaminate in Italia da molti anni e che in un contesto così complesso risultano ancora più complicate nella trattazione.
I quesiti posti sulla prima questione sono: la definizione è sociale oppure medica? Va descritta una situazione oppure un’elencazione di malattie? La disabilità è una condizione umana di diversità oppure una minorazione?
I vari interventi hanno dato l’impressione che la confusione regni sovrana, mescolando piani diversi, come quello dei diritti umani e quello dei diritti sociali ed economici.
In estrema sintesi, il primo attiene alla necessità di praticare l’inclusione sociale per porre fine ad ogni discriminazione rispetto a tutte le forme di segregazione (la tutela giuridica, i trattamenti medici obbligatori, le scuole speciali, il lavoro protetto ecc.), il secondo invece al sistema di welfare praticato (pensioni, assistenza e così via) e ai fattori redistributivi delle ricchezze prodotte.
Appare evidente come la Convenzione tratti del primo livello, aprendo con certezza a contraddizioni nei sistemi di welfare adottati, senza però che si incorra in alcun equivoco sulla fase di legiferazione in atto.
Per maggiore chiarezza, forniamo anche qui un esempio.
Secondo il testo attuale, gli Stati si impegnano a garantire che il sistema assistenziale non provochi discriminazioni per l’esosità del costo reso irraggiungibile dall’esclusione dal mercato del lavoro esistente nel contesto di vita della persona con disabilità, oltre che per l’inadeguatezza dei servizi e l’inaccessibilità fisica o della loro erogazione. Gli Stati non sarebbero quindi costretti a garantire condizioni reddituali che consentano di acquistare servizi su basi di eguaglianza con gli altri.
Per quanto poi riguarda l'”accanimento polemico” sulla definizione di disabilità, esso è il frutto della preoccupazione che il più ampio concetto di condizione umana possa tradursi in un allargamento delle persone assistite. Così è percepito in Oriente come in Occidente e ad ogni latitudine.
Per chi opera su queste politiche In Italia è facile comprendere la differenza: se si tratta dell’erogazione di servizi, si fa ricorso a definizioni come l’invalidità che apparentemente – almeno per noi – contiene le dimensioni entro limiti definibili e verificabili; se si tratta invece di garantire pari opportunità, come nell’ambito della normativa sulle barriere architettoniche o di accessibilità del web, si utilizzano definizioni più ampie – anche se considerate ingiuriose e offensive – che però fanno riferimento alla condizione di chi è discriminato non alla sua menomazione.
Nel caso della Convenzione appare perciò evidente che si debba trattare di una definizione che non deve sancire soglie di accesso affinché una comunità possa determinare con precisione i beneficiari: tutti possono vivere tale condizione umana.
Come a Serra d’Aiello!
Oltre alla diatriba della soglia d’accesso, quanto detto è strettamente legato alla considerazione che abbiamo udito sul trattamento sanitario obbligatorio. Infatti, persino alcuni Paesi occidentali avvertono l’esigenza di assicurare il limite oltre il quale è la comunità a stabilire se e quando si rendano necessari interventi farmacologici o sanitari obbligatori. In pratica come a Serra d’Aiello, in Calabria, dove le persone sono obbligate a vivere per tutta la loro esistenza in condizioni – di fatto – irrispettose della stessa Dichiarazione dei Diritti Umani.
In tal senso appare di straordinario valore l’appello di alcune delegazioni governative a non cadere nell’errore di scrivere una Convenzione contro la volontà delle persone con disabilità e piena di limiti a vivere la propria esistenza con dignità e uguaglianza di opportunità.
Educazione e lavoro
Il criterio del limite determina un’mmediata ricaduta sui lavori di New York, circa le questioni dell’educazione e del lavoro: se da un lato infatti vengono eliminate le parole alternative settings [ovvero, sostanzialmente, il concetto di “speciale”, N.d.R.], dall’altro si introducono particolarismi che consentono eccezioni, in particolare sull’educazione per ciechi e sordi e per i più gravi, riguardo al lavoro.
Proprio sul punto controverso dell’educazione si è resa pubblica e ufficiale una prima e forte divergenza nell’International Disability Caucus, attestata da ben quarantacinque minuti di interventi, in sessione plenaria che, ricordiamo, solitamente è riservata agli interventi delle delegazioni governative. Solo in occasione del Comitato Ad Hoc è stato consentito anche alla società civile di esprimersi ufficialmente nel pieno rispetto del principio Nulla su di noi senza di noi.
In quei quarantacinque minuti si sono scontrate due visioni assai diverse: coloro che chiedono eccezioni alla regola dell’inclusione nei sistemi educativi generalisti o, in via subalterna, il diritto di scelta alla scuola speciale e coloro invece che respingono tutto ciò con estremo vigore.
La controversia ha messo in luce due mondi associativi tra loro non complementari. Da una parte l’International Disability Alliance delle sette associazioni originarie le quali sostengono che ogni stakeholder (“portatore di interesse”) parla per sé, i ciechi per i ciechi, i disabili motori per i disabili motori e così via, con il risultato di sommare posizioni acritiche in una logica di sostanziale spartizione della rappresentanza che corre il rischio di generare separazione; dall’altra parte, invece, le associazioni “regionali”, per loro stessa natura “organizzazioni ombrello”, abituate ad un dialogo fra associazioni dalle diverse caratteristiche e contenuti, e che pertanto agiscono abitualmente in qualità di organizzazioni cross disability (letteralmente “attraverso le disabilità”), con un contributo di idee innovative di inclusione e di libertà individuali.
La forza dell’International Disability Caucus – garantita dal presidente del Comitato Ad Hoc MacKay e da molte delegazioni, tra cui quelle dell’Unione Europea – è messa quindi a repentaglio dalla mancanza di dibattito interno e di volontà di sintesi. Mentre le delegazioni promuovono la partecipazione di diplomatici del più alto grado, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (USA, Russia e Cina in particolare) si avvalgono del loro peso in modo più determinato e gli Stati in generale assumono posizioni sempre più al riparo da innovazioni, nel tentativo di tutelare esclusivamente il proprio contesto sociale e culturale.
Come conseguenza, hanno luogo alleanze del tutto impensabili: Stati Uniti, Russia, Cina, Iran, Sudan e persino l’Australia, tra le delegazioni più innovatrici fino alla sesta sessione, si sono dichiarate ad esempio contrarie alla costituzione di un’apposita commissione per monitorare l’applicazione della Convenzione, sostenendo che quelle esistenti possano già sopperire al compito. Al contrario, e in maniera unitaria, l’IDC e molte delegazioni di altri Paesi hanno affermato con preoccupazione che gli organismi esistenti non sarebbero affatto in grado di ottemperare all’importante compito e che comunque non vedrebbero la partecipazione della società civile, elemento, questo, di estrema innovazione.
La cooperazione internazionale
Assicurano gli esperti che le criticità sono originate dall’approssimarsi della conclusione e dell’approvazione della Convenzione: la storia di altre negoziazioni sembra sia stata assai più aspra e conflittuale. Questo fervido attivismo si è notato anche nelle trattative diplomatiche sulla cooperazione internazionale. Molte delegazioni, infatti, chiedono che quest’ultima sia legata all’applicazione della Convenzione, misurando l’impegno dei Paesi più ricchi verso quelli più poveri.
La proposta è stata avversata da tutti i Paesi ricchi – compresi quelli dell’Unione Europea – i quali ostacolano la logica dello scambio tra la garanzia dei diritti e le risorse economiche. Essi hanno quindi osteggiato in tutti i modi la definizione di un distinto articolo, fino a questa sessione del Comitato Ad Hoc.
Ormai però l’articolo è in discussione e si sta dibattendo solo su un determinato argomento sul quale gli Stati dovranno trovare un accordo prima della prossima sessione di agosto, al pari del monitoraggio, tema sul quale le negoziazioni incontreranno molte più difficoltà.
Il tempo breve e il compito è difficile!
Insomma, si alzano i toni e si rende necessario tenere ben salda la barra del timone: la società civile, le associazioni devono rinsaldare e potenziare la loro capacità di essere uniti, incrementando la condivisione e la partecipazione di tutti e volgendo l’attenzione in particolare alla rappresentanza dei Paesi a tasso più basso di sviluppo, come quelli cinesi, arabi, africani e slavi. La capacità di condizionamento delle loro delegazioni nel corso del prossimo dibattimento potrà infatti provocare l’adozione delle ipotesi più innovative avanzate nel Comitato Ad Hoc, per una Convenzione universale che affronti le sfide del prossimo millennio.
Da parte nostra dovremo soprattutto contribuire al dibattito, portando le nostre migliori esperienze di inclusione sociale, come la pratica dell’integrazione scolastica e la chiusura dei manicomi, all’interno delle reti che nei prossimi sei mesi discuteranno della Convenzione fuori del Comitato Ad Hoc.
Il tempo è breve e il compito difficile.
*Presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Componente della Delegazione Governativa italiana al Comitato Ad Hoc di New York.
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