La percezione della famiglia del divenuto adulto*

di Luisella Bosisio Fazzi**
Un intervento frutto di una lunga esperienza "sul campo", per riflettere sulle relazioni che intercorrono tra il percorso riabilitativo, la persona oggetto di questo atto e la sua famiglia. E anche la richiesta di riconoscere tali relazioni come bisogni e domande all'organizzazione terapeutico-riabilitativa cui non si può fare a meno di rispondere

Disegno di ragazzo in riva al mareSono un genitore di un ragazzo diventato disabile quand’era ancora un neonato. Aveva quattro mesi e mezzo e quindi posso dire di aver fatto esperienza, con mio marito, del significato che può avere questo evento in una coppia-famiglia-rete familiare/amicale.
Nel corso di questi diciotto anni ho lavorato all’interno dell’Associazione Genitori della Nostra Famiglia, assieme a genitori di bambini con differenti disabilità. Differenti nell’eziologia, nel livello di gravità e nel loro sviluppo.
Ho conosciuto e cerco di dedicare particolare attenzione alle persone con disabilità da esiti di TC [trauma cranico, N.d.R.] e alle loro famiglie ed ora, alla fine di questo lungo periodo, mi occupo delle problematiche inerenti le politiche europee e internazionali nell’ambito della disabilità, quale presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità) e rappresentante dell’Italia presso l’European Disability Forum (EDF).
Non ho fatto questa carrellata per sottolineare il lavoro svolto (speriamo sufficientemente di qualità), ma per mostrare – attraverso le mie esperienze passate – i punti che andrò ad evidenziare e quindi aprire un varco sulla percezione della famiglia riguardo ad un proprio familiare che da bambino sia diventato (o stia diventando) adulto, rispetto a:
– Vissuto della storia riabilitativa fino a quattordici anni.
– Presa di coscienza della realtà.
– Rapporto con le istituzioni.
– Riconoscimento del protagonismo del figlio con disabilità.

Quindi, vorrei cercare di riflettere sulle relazioni che intercorrono tra il percorso riabilitativo, la persona oggetto di questo atto  e la sua famiglia, chiedendo anche la necessità  di  riconoscere queste relazioni come bisogni e domande all’organizzazione terapeutico-riabilitativa alle quali non si può non rispondere. 

In un seminario del dicembre 2005 sull’Appropriatezza in medicina riabilitativa, avevo esordito chiedendo all’auditorio di confrontarsi con me sul significato stesso di appropriatezza, per poter procedere poi nell’analisi del tema assegnatomi partendo da un linguaggio comune. Un linguaggio comune che discende dalla condivisione e dall’affermazione dei principi di salvaguardia della dignità della persona umana e del suo bisogno di salute.
Ebbene, appropriatezza, per noi famiglie, significa:
– Equità nell’accesso alle prestazioni e ai servizi.
– Qualità delle cure.
– Appropriatezza rispetto alle specifiche esigenze.
– Economicità nell’impiego delle risorse.

Gli ulteriori significati, che qui accenno solamente, potrebbero essere ad esempio:
– La disponibilità (quantità sufficienti).
– L’accessibilità, con  quattro dimensioni che si sovrappongono:
   non discriminazione (i beni, i servizi e le facilitazioni sanitarie devono essere accessibili a tutti, specie ai settori più vulnerabili ed emarginati della popolazione, in base al diritto o di fatto, senza discriminazioni basate su ogni fattore per cui ciò è vietato)
   accessibilità fisica
   accessibilità economica
   accessibilità alle informazioni
– Accettabilità intesa come rispetto dell’etica.
– Qualità intesa come appropriatezza scientifica. 

Fatte queste premesse passo subito alla mia proposta di riflessione, seguendo quell’elenco di momenti importanti e vitali di una famiglia che vede al proprio interno un figlio con disabilità.

1. Vissuto della storia riabilitativa fino a quattordici anni
La famiglia, quando un suo componente è in difficoltà, è il primo elemento che viene direttamente coinvolto e contemporaneamente è il primo ambiente in cui dev’essere organizzata una risposta al problema.
La diagnosi di disabilità è sempre un evento altamente destabilizzante e a volte può assumere un’elevata potenzialità distruttiva e disorganizzatrice dell’intero nucleo  familiare.
Non possiamo generalizzare poiché ogni evento è differente dall’altro, ma certamente la storia di quella persona, di quella famiglia e dei suoi componenti dipenderà dal tipo di famiglia protagonista di quell’evento.
Una famiglia che sia in grado di resistere alle spinte negative che l’evento ha provocato, nonostante i suoi eventuali limiti, può essere intesa come risorsa.
Al contrario, quando il luogo famiglia è pervaso da sensi di colpa, demotivazione e frustrazioni, essa può generare rapporti deteriorati sia nel suo interno sia verso l’esterno. Può dunque diventare un luogo dove le relazioni sono complicate da equivoci e disagi che interrompono o non permettono un atteggiamento accogliente e disponibile al dialogo e che impediscono di ricevere, quando esiste, un aiuto.
Ecco allora che l’ambiente famiglia è importante per la comprensione della comunicazione riguardante la diagnosi e la prognosi. Ed è importante sapere quanto quella famiglia ha capito e creduto e quanto di quella comunicazione non ha capito o non ha creduto. Questo è il momento in cui i genitori devono affrontare la verità e distinguere tra il desiderio e la realtà.
Fino ai quattordici anni è il periodo in cui nella famiglia si attivano le alleanze terapeutiche e si programma il percorso riabilitativo; è anche il momento in cui si capisce la potenzialità di coesione e solidarietà della rete familiare e amicale; è il periodo sul quale, però, verso la sua fine, incombe il grosso rischio che porta la consapevolezza del significato del “prendersi cura” e la limitatezza della “cura” stessa. Si tratta quindi del momento che precede la:

2. Presa di coscienza della realtà
Nel racconto di tutte le famiglie che ho incontrato è questo il momento peggiore, quello vissuto con grandi sofferenze. Addirittura il periodo tra i quattordici e i diciotto anni è in assoluto il più complesso. Il figlio non è più un bambino, anche se a volte il suo corpo adulto si comporta come quello di un neonato e il carico assistenziale si fa sempre più pressante. Si vedono sempre più i difetti e nel caso di disabilità intellettiva si prende coscienza che la maturità anagrafica non corrisponde a quella biologica. Finalmente sono chiare le differenze tra quei desideri e questa realtà.
Ragazzo con disabilità a scuolaSulla nostra pelle e attraverso la quotidianità prende forma il figlio reale ed è necessario riconsiderare il nostro rapporto con lui e con il contesto abituale dove la persona e la sua famiglia vive. Sto parlando della comunità sociale, del gruppo dei pari, della famiglia nei rapporti con il partner, i genitori, i fratelli.

3. Il rapporto con le istituzioni
Un altro elemento importante in questa fase della vita della famiglia e dei suoi componenti è rappresentato dal modificarsi dei rapporti con le istituzioni.
Il figlio è ormai uscito dal mondo della scuola, alcuni rapporti con il mondo esterno si sono interrotti, altri se ne sono creati e tra questi, quelli che più frequentemente provocano disagi derivano proprio dal contatto con Enti o Strutture fornitrici di servizi sanitari e sociali, con operatori e amministrazioni locali.
Spesso si tratta di relazioni difficili, piene di equivoci, generatrici a loro volta di sofferenza perché a questo punto, rispetto al mondo esterno – verso amici, lavoro, vita sociale – i coniugi spesso si sono costruiti un muro difensivo-offensivo originato da tensione, insicurezza e dal dolore provocato dalla situazione.
In brevi parole, il passaggio: affidamento alla riabilitazione > grande lavoro e impiego di risorse > grandi aspettative termina in una grande delusione.
La nostra preoccupazione è la prevenzione del peggioramento della sua condizione, è  il mantenimento di una personale autonomia ottenuta, è un buon livello di qualità di vita misurata su quella persona e su di noi.
Allora capiamo che servirebbe un progetto individualizzato e invece si entra nel vuoto determinato dalla mancanza di risorse economiche pubbliche e dei servizi.
A disposizione c’è solo un elenco di servizi senza verificare se questo elenco sia quello di cui la specifica persona ha bisogno per il suo progetto di vita personale.
Inizia così la ricerca delle strutture adeguate e quando queste non vengono trovate si rischia di azzerare ogni beneficio fino a quel momento ottenuto. 

4. Il riconoscimento del protagonismo del figlio con disabilità
Quest’ultima riflessione è il frutto del percorso che le associazioni di persone con disabilità e di famiglie di persone con disabilità hanno elaborato negli ultimi anni.
Vorrei iniziare partendo dall’affermazione che anche per le famiglie sono le persone con disabilità le protagoniste e il motto Niente su di noi, senza di noi indica il modo con il quale la comunità civile deve relazionarsi con esse quand’anche necessitassero della mediazione delle loro famiglie.
Non vuole essere questo un atteggiamento di sfida o rivendicativo, ma il frutto di un cammino che mira a riconoscere queste persone con disabilità, attraverso le famiglie, come i protagonisti attivi della loro stessa vita, detentori di diritti di scelta e di cittadinanza.
Le famiglie che provvedono alla cura e all’assistenza delle persone con elevato grado di dipendenza o non in grado di rappresentarsi da sole rappresentano un essenziale supporto alla tutela dei loro diritti e sono una risorsa fondamentale nei processi di prevenzione all’istituzionalizzazione e di deistituzionalizzazione, di promozione della vita indipendente e al sistema di servizi di supporto alla comunità.

Queste famiglie, in conclusione, chiedono sostegni mirati e più inclusivi, chiedono di rendere prioritari, di realizzare e mettere a disposizione servizi appropriati, chiedono di essere coinvolte nella definizione dei bisogni e nelle fasi di valutazione e monitoraggio degli stessi.
Chiedono poi che vengano garantiti servizi di sostegno al mantenimento nel contesto di vita familiare delle persone con disabilità, tramite un sostegno economico diretto e indiretto ai costi maggiori che la famiglia sostiene, servizi di sostegno alla più ampia e migliore inclusione sociale e al godimento dei diritti umani, in modo personalizzato e appropriato.
Serve insomma mantenere una buona qualità dei servizi attraverso lo sviluppo di adeguate formazioni e aggiornamenti per gli operatori che si prendono cura delle persone con disabilità ad elevato grado di dipendenza o non in grado di rappresentarsi da sole, al fine di assicurare il reclutamento, il mantenimento e la retribuzione di operatori di qualità.

*Estratto dall’intervento al corso-seminario L’appropriatezza in riabilitazione infantile, Bologna, 26 maggio 2006.

**Associazione Genitori de La Nostra Famiglia, Sezione di Bosisio Parini (Lecco); presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).

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