A Gardaland hanno ragione

di Carlo Giacobini
La spiacevole vicenda di Gardaland riguardante alcune persone con sindrome di Down, alla quale Superando.it ha già dedicato due diversi contributi, ci spinge ad elaborare qualche riflessione più approfondita che va oltre la fruibilità di accattivanti spazi ludici

È sconsolante, per chiunque, trovarsi nel “paese dei balocchi”, con la mente e il corpo protèsi al divertimento più sfrenato, e incontrare un fastidioso intoppo che quella gioia è in grado di raggelare. Questo è accaduto a Gardaland, questo è toccato ad un gruppo di persone con sindrome di Down.
La vicenda delle persone Down che non hanno potuto accedere alle attrazioni di Gardaland contiene in sé numerosi e diversi risvolti... La sindrome di Down è una condizione genetica che comporta una disabilità intellettiva. È una condizione “visibile”, perché contraddistingue anche fisiognomicamente le persone che ne sono interessate. E questa peculiarità non è irrilevante, giacché identifica, con svelta deduzione, la diversità, diversità che non si coglie con altrettanta faciloneria in chi – con pari problemi – non ha tratti somatici così evidenti.
Se a Gardaland si fossero presentate persone con disabilità intellettiva o magari con reale disagio psichico, ma con lineamenti comuni, forse non sarebbe accaduto nulla di spiacevole e avrebbero tranquillamente potuto vomitare la colazione sull’ottovolante… Ma passiamo oltre: è superfluo ripetere le condivisibili considerazioni di amarezza già ben espresse da altri.

Ci sono risvolti più subdoli del fatto in sé. I responsabili di Gardaland hanno predisposto un regolamento che stabilisce – invocando la sicurezza degli impianti – che talune attrattive siano interdette alle persone con disabilità psichica e mentale (rimane il dubbio di come gli addetti riescano infallibilmente ad accertare il disagio psichico dei clienti).
Nell’episodio in questione le persone con sindrome di Down sono state considerate soggetti con disabilità psichica e quindi esclusi da alcuni divertimenti. Di qui sono giunte le maggiori contestazioni: le persone con sindrome di Down non sono malati psichici, si tratta di una disabilità intellettiva… fanno sport… attività… sono integrati. Tutto giusto, noto, condivisibile. Però…

Però sotto il profilo normativo (purtroppo) i giostrai di lusso non hanno tutti i torti. Prendiamo la “bibbia normativa” sulla disabilità, vale a dire la Legge 104/92 che tutti invocano a proposito e non, quando si tratta di rivendicare dei diritti, denunciare soprusi, reclamare.
Essa definisce la «persona handicappata», recitando così al terzo articolo: «è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva […]».
In quale “categoria” rientra la persona con sindrome di Down o con disabilità intellettiva? Fisica, no; sensoriale, nemmeno. Psichica? Per carità!

Allora, delle due l’una: o il Legislatore si è “dimenticato” delle persone con difficoltà intellettive oppure queste non rientrano fra quelle tutelate dalla Legge quadro sull’handicap (la 104, appunto) e non possono godere dei benefici previsti.
Qualcuno potrà obiettare: «Sì… ma quella norma risale al ’92!».
Sarà anche datata, ma rappresenta comunque il riferimento principe di buona parte dei servizi – quelli che ci sono – e dei benefici – quando esigibili – a favore delle persone con disabilità. Tutte le disabilità!
Comunque sia, abbiamo anche riferimenti più recenti. Riguardano le agognate agevolazioni fiscali sulle auto (IVA agevolata, detrazione IRPEF, esenzione bollo auto). La Legge 388/2000 prevede ad esempio, all’articolo 7, comma 7, che «le agevolazioni […] sono estese ai soggetti con handicap psichico o mentale di gravità tale da aver determinato il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento».
Le persone con sindrome di Down o con altra disabilità intellettiva ne hanno diritto? Se non sono “soggetti con handicap psichico o mentale”, no: niente agevolazioni auto.

A questo punto una replica un po’ volgare potrebbe essere: «non vi dà mica fastidio rientrare in quella categoria quando si tratta di avere dei benefici?», ma un’affermazione di questo tenore sarebbe superficiale e ancora una volta non porrebbe l’attenzione su un aspetto serio che riguarda la nostra normativa: l’incertezza e l’approssimazione delle definizioni, la contraddizione lessicale e di contenuti, la mancanza di aderenza a ciò che in questi anni è stato elaborato a livello scientifico, riabilitativo, pedagogico, culturale. E non solo nel campo della disabilità intellettiva.

Di volta in volta il Legislatore (anche un po’ per colpa di lobby che guardano più al beneficio immediato che all’assieme dei problemi) ricorre a terminologie disomogenee: non autosufficienti, disabili gravi, disabili gravissimi, mentali e psichici (intendendo anche gli intellettivi). E senza definire cosa significhino e come si “misurino” non tanto le minorazioni, quanto i bisogni, le necessità, il disagio, le difficoltà e le capacità residue.
Un esempio per tutti: a quindici anni dall’approvazione della Legge 104, non sono ancora stati definiti, o meglio indicati (giacché nella produzione scientifica ne esistono in quantità), i criteri e le scale per quantificare e qualificare la condizione di handicap. Ogni USL fa per sé. Ognuno per sé e dio per tutti, con la conseguente disomogeneità di trattamento.
E tutto questo è fonte di problemi che vanno ben oltre di un giro in giostra.

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