Stiamo davvero facendo abbastanza?

Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo un'altra opinione - prodotta da alcuni componenti dell'ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi) - che prende spunto dalla vicenda di Eluana Englaro, in coma da sedici anni, per la quale nei giorni scorsi la Corte d'Appello di Milano ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione forzata. Le nostre pagine restano naturalmente aperte ad ogni altra motivata riflessione sull'argomento

Oriella Orazi, Riflessione, olio su telaAncora una volta la cronaca – proponendoci una sentenza che autorizza la morte di Eluana Englaro per fame e per sete – ci porta ad affrontare il difficile e delicato tema dell’eutanasia.
Con queste brevi considerazioni basate sulla nostra esperienza di famiglie con figli affetti da cerebrolesione gravissima, non pretendiamo di fornire alcuna risposta alle complesse e delicate questioni umane sollevate da situazioni di tale gravità, né tantomeno di esprimere alcun giudizio sullo specifico caso in questione.
Vogliamo però offrire una riflessione sul tema dell’eutanasia che, crediamo, non deve necessariamente essere vissuto come ineludibile, ma dovrebbe essere invece ispirato da una propensione alla vita.
In altri termini, la domanda che ci dobbiamo porre non è tanto: «Ha una persona in condizioni di gravità estrema il diritto di morire?», quanto piuttosto: «Cosa possiamo fare per prevenire queste situazioni?».

Le esperienze di numerose persone (alcune delle quali presentate anche dai media, ma, a quanto sembra, facili da scordare) dimostrano che il desiderio di vivere non dipende tanto dalla gravità della situazione biologica, quanto piuttosto dalla ricchezza della rete di relazioni che avvolge la persona e la sua famiglia.
In una società attenta soprattutto alla prestanza fisica e ai risultati individuali, tendiamo a dimenticare che l’essere umano è innanzitutto un essere di relazione, un essere sociale; che l’essenza della qualità di vita è determinata soprattutto dai legami d’affetto.
Chi è affetto da disabilità, chi soffre, i suoi familiari, percepiscono con maggiore intensità e chiarezza l’essenzialità di questi legami e – quando viene a mancare il sostegno della rete di affetti – si sentono schiacciati dal peso della patologia, che diventa insopportabile fino al punto di arrivare a desiderare la morte.

Il vero interrogativo posto da fatti di cronaca come questo – l’interrogativo fondamentale per la vita di tutti noi – è perciò: «Stiamo facendo abbastanza per costruire legami d’affetto e reti di sostegno e solidarietà?».
La nostra esperienza ci porta purtroppo a rispondere a questa domanda in modo negativo. Tanta è la solitudine da cui siamo avvolti nella nostra spasmodica ricerca di apparire e di emergere, che alcuni arrivano a desiderare la morte anche se apparentemente sani e senza problemi.
Non deve quindi meravigliare se molti non riescono a cogliere il valore della vita di una persona con disabilità, specialmente se gravissima. Vita che, al contrario, ha un valore incommensurabile quando valutata secondo la dimensione umana più vera e più profonda, quella delle relazioni e della solidarietà.

Dario Petri (ABC Triveneto) – Presidente della Federazione Italiana ABC
Gianfranco Mattalia (ABC Piemonte)
Mauro Ossola (ABC Lombardia)
Giorgio Genta, Alessandro Ludi (ABC Liguria)
Egidio Cavicchi, Vittorio Gnesini (ABC Emilia Romagna)
Marco Mirai, Marco Espa (ABC Sardegna)
Alfonso Amoroso (ABC Lazio)
Aldo Tambasco (ABC Campania)

In questo stesso sito prende spunto dalla vicenda di Eluana Englaro anche il testo di Fulvio De Nigris, intitolato Stati vegetativi e dignità di fine vita: subito una nuova Commissione Ministeriale, disponibile cliccando qui.
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