Praticamente invisibili. Cancellati da un equivoco diagnostico che per anni ha negato la forma adulta del disturbo pervasivo dello sviluppo. Catalogando gli autistici adulti come psicotici o disabili mentali da istituzionalizzare. E lasciando sole le famiglie a gestire situazioni difficili, senza terapie adeguate o prospettive per il futuro. Sono state proprio alcune associazioni di familiari, supportate da specialisti, a dire basta.
Convinte che, se dall’autismo non si guarisce, migliorare la vita di chi ne soffre è possibile e doveroso. E che le istituzioni non possono ignorare il problema.
«A soffrire di un disturbo autistico più o meno grave è una percentuale della popolazione che va dallo 0,5 al 6 per mille, a seconda del criterio utilizzato: un vero esercito di desaparecidos», denuncia Francesco Barale, ordinario di Psichiatria all’Università di Pavia e presidente della Fondazione Genitori per l’Autismo.
«All’età di 18 anni, finito il percorso di integrazione scolastica che in Italia funziona, questi pazienti scompaiono. Dopo, c’è il nulla», conferma Giampaolo La Malfa, presidente della Società Italiana per lo Studio del Ritardo Mentale (SIRM). Proprio quando i problemi dell’adolescenza si sommano a quelli della sindrome, e le famiglie hanno bisogno di una prospettiva anche assistenziale. L’alternativa spesso è un’esistenza da semi-reclusi, crisi affrontate a colpi di sedativi, una vita da vagabondi. E anche nei casi in cui si trovi una soluzione dignitosa, il rischio è quello di compromettere i risultati ottenuti nell’infanzia. «Ma si possono fare progressi a qualsiasi età, purché si tenga conto delle caratteristiche del disturbo», spiega Barale.
Qualcosa intanto comincia a muoversi. Soprattutto in due regioni, la Lombardia, che già anni fa ha tentato con grande difficoltà un’analisi epidemiologica, e la Toscana, che ha varato a fine 2008 nuove linee guida sull’autismo che prevedono interventi interdisciplinari su tutto l’arco della vita e la creazione di centri di riferimento.
«Una volta si pensava all’autismo come a una specie di gabbia, oggi sappiamo che sono persone con una loro modalità di espressione delle emozioni», spiega La Malfa. «Si tratta di un disturbo che ha basi biologiche, ma questo non esclude l’opportunità di un approccio psicologico evolutivo». Partendo da iniziative che servono a limitare la disabilità: oggi il 50 per cento circa degli autistici non parla – è una delle caratteristiche del disturbo, insieme alla difficoltà di relazioni sociali e ai comportamenti stereotipati – ma una diagnosi precoce potrebbe ridurre di molto questa percentuale. Il condizionale è d’obbligo perché il termine “disturbi dello spettro autistico” riunisce persone con deficit cognitivo e grave mancanza di autonomia – il 70 per cento dei soggetti – e i cosiddetti autistici ad alto funzionamento o Asperger che hanno soprattutto problemi relazionali e comunicativi.
E la risposta può venire dalla Rete: «Per chi soffre di disturbi dello spettro autistico, internet è come il linguaggio dei segni per i sordi. Un modo per comunicare senza il vincolo della presenza fisica che è ansiogena», sostiene Enrico Valtellina, filosofo e ricercatore Asperger. Ecco allora il fiorire di blog che raccontano vite da autistici come Neurotypicals are Weird (“i normali sono strani”), Ballastexistenz (“vite zavorra”, un termine usato dai nazisti per definire i disabili), o l’italiano Nonavevoleparole.
«Sarebbe sbagliato dare dell’autismo un’immagine edulcorata basata su personaggi come Temple Grandin, l’antropologa su Marte raccontata da Oliver Sacks, docente universitaria e scrittrice. I soggetti ad alto funzionamento sono solo il 3 per cento, le persone che riescono a sviluppare i propri talenti in modo socialmente accettabile come la Grandin una minoranza», precisa Cinzia Raffin, direttore scientifico della Fondazione Bambini e Autismo. «La maggioranza di queste persone ha gravi difficoltà – moltissimi soffrono di epilessia – che vanno rispettate e capite». Per esempio aiutandole a muoversi in una società troppo caotica per loro: «A Firenze l’ospedale di Careggi ha istituito un percorso facilitato per disabili che hanno bisogno di esami clinici», spiega La Malfa. «Per gli autistici spesso è difficile accedere a programmi di prevenzione o anche a visite mediche». E molti dei sintomi più drammatici, come agitazione o autolesionismo, nascono spesso da malesseri fisici non riconosciuti, mentre i problemi frequenti di depressione sono legati a difficoltà di interazione con l’ambiente. Un tema affrontato dalla comunità Asperger, che chiede di vedere riconosciuta la propria neurodiversità, come prevede la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, appena ratificata dal nostro Paese.
Resta la necessità di costruire quella che le associazioni chiamano realisticamente “prospettiva dopo di noi”: opportunità per chi, anche da adulto, non potrà essere autonomo. In Toscana l’Associazione Agrabah ha avviato un progetto di Farm Community, un’azienda agricola con alloggio e un programma di lavoro assistito. Se ne parlerà il 17 aprile a Pistoia, in una giornata dedicata Alla scoperta del continente autismo. «Vogliamo offrire ad adolescenti e giovani adulti un’attività lavorativa in un ambiente non stressante, che permetta loro di sviluppare le proprie potenzialità e quando possibile di raggiungere un certo grado di autonomia», spiega il presidente Ugo Caselli.
Esperienze straniere mostrano già come l’ambiente agricolo possa essere adatto a chi soffre di autismo. In Italia il progetto toscano segue l’esempio virtuoso di Cascina Rossago, nata nel 2002 in Lombardia [a tale struttura il nostro sito ha dedicato l’ampio servizio intitolato Un’isola nell’Oltrepo Pavese, disponibile cliccando qui, N.d.R.]. «La cascina offre ai suoi ospiti attività significative, che aiutano a costruire un’identità: c’è il gruppo degli stallieri e quello dei tessitori, produzione e scambi commerciali», spiega Barale. «Nell’autismo l’inclusione sociale in sé non è produttiva, bisogna creare un ambiente regolato come quello della cascina, un contenitore organizzato e prevedibile. Che aiuta chi fa fatica a creare modelli anticipatori, ed è allarmato da ogni novità».
Si tratta di progetti pilota, e l’Officina dell’Arte di Pordenone punta su un’esperienza del tutto diversa: è l’unico esempio di laboratorio non residenziale in ambiente urbano, cui sono affiancate strutture che consentono di fare esperienze di autonomia, come prepararsi i pasti, uscire a mangiare la pizza, soggiornare nella foresteria nata da poco. «Al centro di tutto c’è un laboratorio di mosaico», spiega Raffin. Che produce oggetti destinati alla vendita, ma anche ad arricchire la città, come il Mosaico della Pace realizzato su disegno di Altan.
Per gli Asperger la maggiore difficoltà è quella di gestire le interazioni sociali. «In questo caso, più che di riabilitazione si dovrebbe parlare di mediazione culturale», osserva Barale. Per superare difficoltà non immediatamente percettibili, «come il sovraccarico sensoriale, la fatica di confrontarsi con situazioni nuove, di capire le aspettative altrui, di porsi dei limiti, o rientrare in un programma di studio o lavoro», spiega Valtellina.
Negli USA fioriscono manuali che insegnano agli Asperger come affrontare il college o una riunione tra amici, con istruzioni come «chiedi alle persone come stanno, anche se non ti interessa saperlo». A Milano il Gruppo Asperger ha creato LEM (Laboratorio di Esplorazione Multimediale), una cooperativa di lavoro che crea siti internet, e lo Spazio Nautilus, un centro culturale e ricreativo rivolto anche ai giovani del quartiere popolare dove nasce. In programma feste e happy hour, ma anche pomeriggi dedicati ai giochi di ruolo, particolarmente importanti per i ragazzi Asperger perché interpretare un personaggio in un ambiente fantastico aiuta a dare voce a sensazioni che altrimenti sarebbe difficile esprimere.
Anche chi ha problemi più gravi può vivere esperienze che contraddicono l’immagine stereotipata dell’autismo, come la gioia di praticare uno sport. «Mio figlio Stefano, 16 anni tra poco e un handicap cognitivo grave, ha imparato a sciare quasi per caso», racconta Caselli. Grazie all’attenzione del padre e alla dedizione di un maestro, Gregor Demetz, che ha sfruttato l’esperienza fatta con una sciatrice non vedente. «Oggi Stefano scia disinvolto, tenendosi alla racchetta di Gregor», spiega Caselli. Non tutti ottengono gli stessi risultati, ma tra le caratteristiche dell’autismo c’è quella di alternare fasi problematiche con exploit improvvisi. «I genitori sono abituati a subire valutazioni tecniche difficili da interpretare: quando ci sono progressi che hanno a che vedere con il benessere, la qualità della vita, si notano subito e fanno bene al morale», racconta Caselli.
Resta il problema economico. «L’intervento più oneroso è il ricovero psichiatrico: ma in sette anni di vita della Cascina i nostri ospiti non ne hanno fatto un giorno», spiega Barale. E in Toscana si sta organizzando un convegno sulle buone pratiche che associano efficacia e risparmio. «La mancanza di fondi – conclude La Malfa – non dev’essere un alibi per la mancanza di idee».
*Servizio pubblicato da «L’espresso», n. 12, 26 marzo 2009 e qui ripreso per gentile concessione.
Era il 1998 quando il gastroenterologo Andrew Wakefield ipotizzò, in un articolo pubblicato su «Lancet» e basato sull’osservazione di dodici casi, che un particolare tipo di vaccino, il Mmr – orecchioni morbillo rosolia – generasse composti neurotossici responsabili del disturbo. Un’ipotesi mai accettata dalla maggioranza dei ricercatori, che hanno accusato Wakefield di conflitto di interessi e di avere manipolato i dati pubblicati. Ma che ha acceso l’attenzione sul tiomersale, indicato da alcuni studiosi, ma soprattutto dalla stampa e da familiari di bambini autistici, come possibile responsabile della sindrome. A rafforzare l’allarme, l’aumento esponenziale delle diagnosi, che potrebbe però essere causate da criteri diagnostici più efficaci. E ciò è quanto affermano molti ricercatori, secondo i quali a suscitare un allarme immotivato sarebbe stata la coincidenza temporale tra l’età in cui i bambini sono vaccinati e quella in cui solitamente emergono i disturbi dello spettro autistico. Il dibattito resta aperto.
Sempre negli Stati Uniti, qualche mese fa una bambina autistica ha ricevuto un risarcimento sulla base del fatto che le vaccinazioni potrebbero avere aggravato il disturbo mitocondriale di cui soffriva, facendo emergere la sindrome. Mentre in molti Paesi – Italia compresa – si sta cercando di eliminare il tiomersale dai vaccini o ridurne la dose.
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