Taccuino di un giornalista costretto a casa da un banale mal di pancia. Confronto impietoso con il destino di migliaia di persone travolte dal sisma. Leggo e guardo, cerco di capire, di approfondire, di partecipare.
Sono colpito dall’efficienza esibita, ma vera, della Protezione Civile; è uno spettacolo che inorgoglisce, avendo nella memoria altri terremoti, altri ritardi. Ricordo bene anche i luoghi, una città antica, dignitosa, ricca di storia e tutto attorno piccoli centri abitati da vecchi, da donne, da bambini. Le braccia cercano lavoro ovunque, perché gli abruzzesi sono migranti nati, e li puoi trovare in ogni angolo di mondo.
Vedo rughe, volti bellissimi scavati nella roccia, dignitosi. Ma adesso le telecamere frugano davvero ovunque, non so quanto sia giusto. L’intento di documentare, di far partecipare è ovvio, ma a volte mi sembra sopra le righe, condito di retorica, di patriottismo, di superficialità. Quasi tutti parlano di ricerca della “normalità”, come se davvero una tendopoli potesse assomigliare a un quartiere del proprio paese…
Nel terremoto tutti si sentono investiti dell’eccezionalità dell’evento, si vorrebbe, paradossalmente, raccontare in diretta nuovi disastri, a ogni nuova scossa sismica c’è un sussulto di protagonismo, si evita di creare allarme, ma si trasmette la sensazione che il peggio potrebbe ancora venire.
Le lunghe dirette televisive sono spesso ripetitive e creano un senso di disagio. Il meglio è quando i cronisti riescono a trovare personaggi veri del volontariato, che parlano solo di quello che stanno facendo, mai di se stessi.
Nel sisma scompaiono le categorie. Persone con disabilità sicuramente ce ne sono tante, ma dalle cronache di carta o televisive non risultano, probabilmente risucchiati nella categoria dei “malati”, delle “persone da assistere”.
I “disabili fantasma”, dunque, in una terra nella quale già facevano fatica a difendere i diritti alla mobilità, al lavoro, alla vita quotidiana. Per loro il futuro è un incubo annunciato, una lunga parentesi in attesa di una ricostruzione che si annuncia difficile, lunga e contrastata.
Noto il senno di poi, tutti bravi adesso a denunciare gli scempi edilizi, in Abruzzo e ovunque nelle zone sismiche d’Italia. L’ottimo Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera» si accorge che il decreto per il cosiddetto “piano casa” viene cambiato in fretta e furia, visto che prevedeva all’articolo 6 anche delle deroghe alle norme antisismiche. Adesso all’articolo 2 niente deroghe, anzi obbligo assoluto di rispettarle. Che dire? Il provvedimento del Governo era condiviso dalle Regioni, niente male.
Noto l’ossessiva contabilità dei morti, dietro la quale solo adesso si intravedono le persone, i volti, specie quelli dei bambini. Il terremoto unisce le persone buone, esalta i mascalzoni. E così i veri “sciacalli” sono quelli che alzano alle stelle i prezzi dei generi alimentari, forse non i poveracci che in qualche modo si dedicano alla visita di case pericolanti.
Osservo l’attaccamento patriarcale alla casa, alla roba, agli oggetti. La perdita della propria dimora è pianta quasi quanto la morte di un parente, perché è la scomparsa della propria storia, della propria identità. La ricostruzione dovrà essere prima di tutto morale, “con” le persone, non “per” le persone che abitavano lì. Ma per questo c’è tempo, forse troppo.
*Testo già apparso in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog (con il titolo Il premio “Vita indipendente”), con il titolo Le parole, le persone, il senno di poi e qui ripreso per gentile concessione.
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