«Aiutami a fare da solo». Ho riflettuto su questa frase leggendo, recentemente, l’interessante e bel libro Maria Montessori, una storia attuale, di Grazia Honegger Fresco (Edizioni L’Ancora del Mediterraneo di Napoli), dove vengono raccontate la vita e l’esperienza di una delle più significative figure della pedagogia mondiale.
Grazia Honegger Fresco – tra le ultime allieve di Maria Montessori – da oltre cinquant’anni ha fornito un contributo scientifico e professionale all’approfondimento del pensiero montessoriano ed è una delle più autorevoli autrici di opere divulgative in campo educativo indirizzate alle famiglie. Nel 2007 è stata insignita del Premio Unicef “Dalla parte dei bambini”.
La figura di Maria Montessori l’abbiamo vista «mortificata sulle monetine da duecento e sulla banconota da mille, ai tempi della lira, come una gloria nazionale, un “santino” di interesse puramente storico». Ma in Italia la sua figura non è mai stata ricordata e valorizzata nei suoi profondi valori formativi e propositivi quanto merita, nemmeno nel mediocre sceneggiato che la TV trasmise alcuni mesi fa. Invito dunque alla lettura di questo libro, per chi desidera approfondire la conoscenza di una figura di donna, «tutta protesa verso il futuro, con il pensiero sempre orientato alla causa dei bambini e dei ragazzi, al benessere dell’umanità intera attraverso il riconoscimento dei diritti della lunga infanzia umana».
«Aiutami a fare da solo» è il richiamo di Maria Montessori che ritengo centrale anche nel processo, cosiddetto dell’inclusione sociale, tema oggi molto evidenziato nella tematica della disabilità. Ho incontrato Grazia Honegger Fresco per parlare di questo aspetto del pensiero montessoriano. (Marco Buttafava)
Non mi sembra una forzatura associare la frase montessoriana al desiderio della persona con disabilità per una vita autonoma, non passivamente dipendente dagli altri.
«La cosa fondamentale osservata nel bambino piccolo è lo sviluppo dalla postura a “quattro zampe” alla posizione eretta, mentre già dai sei ai dodici mesi porta le cose alla bocca: conosce gli oggetti con la bocca ed è un atto di un’autonomia straordinaria. Se gli diamo un bicchiere, a otto mesi già beve da solo. Sembra troppo presto? Se lo sa fare, perché aspettare? Il giocattolo sì e il bicchiere no: perché?
Lo sviluppo umano è indirizzato alla conquista dell’indipendenza. È anche il destino di tutte le specie biologiche. L’essere umano, il bambino, con tutta la sua intelligenza, è tuttavia quello più ostacolato, perché gli adulti non lo capiscono assolutamente. Questo è tanto più grave quando il bambino ha delle difficoltà. Ho conosciuto bambini nati prematuri che arrivavano a scuola con molte incertezze, in situazione “disastrata”. Essendo prematuri, più delicati, le loro madri erano pronte a far loro di tutto. A cinque anni ancora imboccati, non sapevano aprire un rubinetto, cascavano loro le cose dalle mani: “bambini senza mani”. Oggi si verifica un po’ meno, perché ci sono più attenzioni, anche dal punto di vista del recupero.
Fondamentale è il periodo fino ai sei anni. Se non si favorisce lo sviluppo all’autonomia entro questi primi anni di vita, i bambini abituati ad essere sempre aiutati vengono privati della spinta interna e diventano passivi. Si osservano persone adulte ancora oggetto di protezione, passive.
Ricordo quel bambino di otto mesi e il nonno che gli porta una scatola di biscotti: il bimbo allunga la mano e il nonno dice: “No, aspetta”, perché ha paura che afferri malamente più biscotti. Allora prende un biscotto e glielo dà. Il bambino, preso il biscotto, lo posa sul tavolo, sta un po’ a guardarlo, poi lo riprende e lo mangia. Il bambino, quando può, vuole fare le cose da solo. L’adulto fa delle fantasie sui gesti o le azioni inadeguate o pericolose che il bambino potrebbe fare. È sufficiente invece offrire al bambino, in base all’età, oggetti adeguati, dandogli la possibilità di toccare e conoscere: ha un’intelligenza straordinaria e dopo pochi mesi capisce che “quello non si tocca”.
In molte scuole c’è ancora questa idea punitiva, del giudizio: non solo per cercare i suoi errori, ma addirittura arrivare prima dei suoi errori. Il bambino, invece, ha bisogno di sbagliare per crescere, nell’ottica di fare da solo. Ricordo un bambino distrofico che seduto su un seggiolino con le ruote, quando voleva un materiale andava a prenderselo spingendosi con i piedi. Se il materiale era grande, chiedeva aiuto ad uno dei suoi compagni. “Aiutami fino a che mi serve”. Nella scuola montessoriana, se un bambino vuole fare da sé, la maestra non interviene: lascia fare, anche gli sbagli. Gli sbagli aiutano a crescere».
Soffermandomi tra le pieghe del suo libro che dedica al bambino “diverso”, leggo l’importanza di due aspetti: da un lato l’intensa sensibilità emotiva e affettiva manifestata dai bambini “speciali”, dall’altro la capacità dei loro compagni (che emerge spontaneamente in un clima nonviolento, come è quello delle strutture montessoriane) a lasciare provare a far da soli quello che sanno fare, a sostenerli con delicatezza nel caso di oggettivo bisogno…
«Anni fa visitai una grande scuola a Monaco (presso l’ex villaggio olimpico), che fu la prima esperienza di integrazione, promossa da Theodore Hellbrügge. Avendo egli lavorato in precedenza in scuole speciali, osservò che i bambini affetti dalle medesime patologie sviluppavano delle difficoltà di tipo sociale, che chiamava sociosi, legate al rapportarsi tra uguali.
Hellbrügge conobbe a Francoforte la scuola Montessori, dapprima con una certa riluttanza, perché il metodo era considerato “superato”, rimanendo invece colpito dal livello di scambi e di autonomia dei bambini e, con la collaborazione di Margarete Aurin, diede inizio all’esperienza con un gruppo di venti bambini più altri cinque con difficoltà differenti. Il massimo di eterogeneità possibile favorisce lo sviluppo: così come per l’età, dai tre ai sei anni, così i bambini con difficoltà: erano un sordo, un cieco, un down, uno autistico e uno spastico. Quest’ultimo, di cinque anni, si muoveva solo strisciando. Osservammo che, giunto a scuola accompagnato dalla madre, lentamente si spogliava da solo senza aiuto, anche se con fatica (la madre non interveniva, come consigliato dall’insegnante), salvo appendere il cappotto poiché non arrivava all’attaccapanni. Per entrare poi nella sua classe, una corda appesa alla maniglia gli consentiva di aprire la porta. La maestra lo salutava, i suoi compagni anche. Lui conosceva tutte le posizioni dei materiali predisposti, in modo da poter operare da solo con essi.
L’idea era quella di predisporre tutti gli aiuti indiretti che consentissero al bambino un’autonomia, senza l’aiuto diretto da parte degli altri. Anziché appendere l’asciugamano ad altezza dell’adulto, basta infatti predisporlo all’altezza adeguata per consentire l’autonomia».
È importante rilevare che l’ambiente montessoriano è concepito su misura del bambino: l’ambiente costruito su misura degli adulti presenta infatti barriere per l’accessibilità e l’agibilità dei bambini. Così anche la logica dell’abbattimento delle barriere architettoniche e dell’uso di ausili è proprio quella di porre la persona con disabilità in condizioni di non dipendere dall’altro, di agire autonomamente, per quanto possibile, di “fare da sola”.
«Sì, è proprio questa la linea forte che guida tutte le scuole montessoriane, dal nido alla scuola elementare, dove tutto è ad altezza adeguata per dare la possibilità ai bambini di fare da soli. C’è una cura assoluta dell’ordine, funzionale alle capacità del bambino, anche per chi ha difficoltà. Ricordo in questo senso Lina Mannucci, che lavorò per molti anni con Adriano Milani Comparetti presso il Centro “Anna Torrigiani” di Firenze, dove operavano secondo lo stesso principio di favorire l’autonomia del bambino con difficoltà.
Diritto a fare da sé e non giudizio, sono due punti fondamentali che impediscono che nel gruppo, nella classe, nella scuola si sviluppi il pietismo, la protezione del “poverino” che dev’essere aiutato. Ogni intervento non necessario è come tagliare le ali; Maria Montessori affermava: “Ogni aiuto inutile è un arresto dello sviluppo”.
Alla scuola di Monaco di cui ho parlato, dove vi sono studenti dai tre ai diciotto anni, osservammo in una classe di ragazzi già grandi – diciassette anni – una ragazza con difficoltà di comunicazione, di linguaggio, che per parlare impiegava un tempo molto lungo, diversi minuti per dire una frase. Ciò che mi ha colpito è stata la pazienza e l’attenzione dei compagni per ciò che lei, con fatica e sforzo, stava esprimendo.
Anche la famiglia ha tutta un’altra vita se riconosce che il proprio figlio, pure avendo qualcosa di meno rispetto a un ideale di “normalità” (del tutto relativo), ha altre risorse e capacità grandi, sociali, affettive».
Penso al tema dell’integrazione sociale delle persone con disabilità, della cosiddetta “inclusione sociale”. Da ciò che mi sta descrivendo, capisco che l’ambiente ha la funzione di favorire l’inclusione, ma che questo processo deve muovere proprio dalla persona stessa…
«Maria Montessori lavorò molto per la socializzazione (anche se alcuni erroneamente sostengono che non se ne occupò), mirando all’indipendenza e allo sviluppo delle capacità di essere attivi in modo costruttivo; tendeva a fare in modo che i bambini, insieme alle loro diversità (quanto più sono diversi tanto meglio stanno), riuscissero a costruire una collettività, una comunità, che Maria Montessori chiamava “società per coesione”.
Ebbene, una società per coesione può essere costruita da persone che – grazie a questo ambiente preparato e all’atteggiamento non violento degli adulti, quindi senza giudizi, senza voti, senza confronto e competizione – hanno maturato. Il cosiddetto “bullismo” matura dove c’è un clima e un atteggiamento giudicante e di competizione, come nello sport agonistico, dove il valore è quello del vincere, di “chi vince”. Anche nella scuola si trasmette questo atteggiamento. Chi si occupa degli esclusi? Un bambino in difficoltà, che ha difficoltà motorie, come gioca? Gioca come può. Bisogna iniziare subito su tutto quello che permette al bambino di fare da sé.
Il bambino sordo, il bambino cieco possono fare tantissimo da sé. Bisogna guardare a ciò che hanno e non a quello che non hanno. Perché se la scuola è basata sul giudizio, sul “tu non sei capace, quindi non vali”, è come dire “ti metto da parte, ti affido a qualcun altro, io non me ne occupo”. La soluzione non sta nel separare per meglio addestrare, ma nel creare un clima sociale non competitivo, evitando di programmare a priori. Dobbiamo mettere nelle mani del bambino la chiave del suo sviluppo, riconoscendogli capacità autocostruttive».
Al termine dell’interessante colloquio con Grazia Honegger Fresco, si può dunque concludere che la logica della “vita indipendente” sia quella di avviare un processo che, fin dai primi anni di vita, rispetti la persona, creando e favorendo tutte le condizioni che la pongono in grado di “fare da sola”, in contatto diretto con la realtà, interagendo e partecipando alla vita sociale, respingendo le situazioni che conducono ad un’indesiderata dipendenza, a una passiva assistenza.
Ritengo che il messaggio di Maria Montessori possa essere fatto “nostro”. È stato poco ascoltato, da un secolo, da pedagogisti e mondo della scuola, soprattutto in Italia. Per questo ho voluto ricordarlo e riconoscerlo, a rinforzo e a sostegno dei progetti di vita autonoma e di inclusione sociale per i quali molte associazione si sono mobilitate ormai da anni.
*Testo già apparso in «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e qui ripreso per gentile concessione.