Se n’è già parlato in questo stesso sito, con il testo intitolato Si terrà conto dell’accessibilità per i due nuovi stadi romani? (disponibile cliccando qui): è ormai prossima la presentazione da parte delle società Roma e Lazio dei progetti per la realizzazione di due nuovi stadi, che ricalcheranno molto presumibilmente il modello inglese di complessi non solo adibiti alla visione delle partite di calcio, ma che potranno anche caratterizzarsi come veri e propri centri di aggregazione.
E tuttavia – come già ci si chiedeva da queste colonne – si sta prendendo in considerazione per tempo la reale fruibilità di questi spazi da parte di tutti? Ne parliamo con Fabio Casadei, ex calciatore professionista e oggi presidente di una delle associazioni più rappresentative sul territorio laziale, vale a dire l’Associazione Paraplegici (AP) di Roma e del Lazio.
«Personalmente – esordisce Casadei – sono favorevole alla realizzazione di queste due nuove realtà, che presumono una rimodulazione della fruibilità delle strutture da parte degli spettatori, i quali saranno messi in condizioni di non trovarsi esclusivamente di fronte a “cancello-sedile-partita”, ma avranno a disposizione dei settori ad hoc, mirati a fare di queste “città dello sport” dei veri e propri punti di aggregazione per il tempo libero. Solamente questo fattore dovrebbe incidere in maniera ancora maggiore sull’impegno profuso in fase di progettazione per rendere – senza forzature dell’ultimo momento – le complessità di questi spazi accessibili alle persone con disabilità motoria».
Non abbiamo ancora elementi maggiormente indicativi per una riflessione complessiva su come si sia tenuto conto dell’accessibilità di questi due nuovi complessi. Le norme ovviamente non mancano, ma è dietro l’angolo il rischio che il concetto di accessibilità possa essere inteso solamente nell’accezione di entrata e posizionamento all’interno dello stadio, come – se non sbaglio – succede attualmente all’Olimpico, anche se in una posizione non svantaggiosa.
«All’Olimpico l’accessibilità può essere definita buona rispetto a quanto accade in altre strutture nel nostro Paese, perché in effetti il punto in cui le persone in carrozzina possono vedere la partita è uno dei migliori per distanza dal campo e centralità della visione. Ma ci sono delle criticità che non andranno di certo replicate. Ad esempio la persona che ti accompagna – intimo/a o assistente che sia – non può godere di un posto a sedere. Inoltre si è obbligati ad essere concentrati tutti in uno stesso luogo, deciso da altri, cosicché alle persone in carrozzina non è consentito accedere ad altri posti che non siano quelli della Tribuna Tevere. Ovvero, chi è particolarmente appassionato o fa parte di un gruppo non può andare in curva».
E quindi cosa sarebbe necessario per ovviare a queste imperfezioni non da poco nei nuovi stadi?
«Ritengo che per prima cosa nelle nuove strutture dovrebbe essere lasciata il più possibile alla persona la scelta di dove vedere la partita. Offrirmi cioè la possibilità di vederla nel punto che a me piace: questa penso sia la prima risposta che dovrebbe essere data. Ovviamente ciò pone delle sfide dal punto di vista logistico e degli spazi, ma se ponderate per tempo, non credo che queste possano creare problematiche insormontabili e potrebbe nascere davvero nella nostra città qualcosa di super-innovativo».
In virtù anche del suo coinvolgimento nel mondo del calcio, pensa che si stia effettivamente tenendo conto di queste esigenze?
«Proprio per i passi culturali – a volte invero molto lenti – che stiamo facendo in Italia e nella nostra città, non posso immaginare che non via sia un’attenzione forte a questo tipo di tematica. Probabilmente ci saranno delle difficoltà, ma bisogna fare uno sforzo per dimostrare che a Roma l’obiettivo è quello di superare ogni forma di ghettizzazione, come può essere considerata l’immagine di persone in carrozzina tutte raggruppate in uno stesso posto».
Una sorta di flash, questo, che ricorda alcune foto degli anni Settanta, con le persone in carrozzina ai bordi del campo, subito a ridosso dei cartelloni pubblicitari…
«Se è per questo, in alcuni stadi succede ancora, con i posti “riservati” che a volte sono anche dietro le porte. Dal punto di vista del coinvolgimento essere lì è di certo più bello, ma non è una scelta. Detto un po’ crudamente, sei lì perché solo in quel punto “non rompi le scatole” e non crei problemi!».
Le motivazioni legate alla sicurezza potrebbero rappresentare un problema a questa fruibilità globale che auspica?
«La sicurezza va rispettata, ma non deve diventare un ostacolo. Poche sere fa ero in un teatro e ho preso posto nella parte centrale tra le due file, dove non erano posizionati i sedili fissi. A quel punto i pompieri mi si sono fatti incontro e mi hanno fatto spostare “per motivi di sicurezza”. Ma se succede qualcosa, anch’io voglio scappare! E quindi, nell’eventualità di fatti gravi, la sicurezza deve riguardare tutti. Non sono un esperto, ma evitare troppi gradini o ascensori potrebbe rappresentare un aspetto positivo per la sicurezza di tutti».
Uguale attenzione dovrà essere dedicata anche ai luoghi di aggregazione. Penseranno a realizzare un bancone accessibile dove tutti potranno ordinare una birra?
«Questa cosa la subisco da venticinque anni. Spero che si faccia e che si rompa con standard superati, come ad esempio quelli di chi produce i banconi all’altezza di un metro e trenta, cioè a misura di persona in piedi o su sgabello. Si tratta infatti di una concezione vecchia, anche se radicata, che dev’essere superata».
Un consiglio per i presidenti della Roma e della Lazio Rosella Sensi e Claudio Lotito?
«Non perdete questa grande occasione. Proprio qui in Europa stiamo notando come godere di uno stadio di proprietà possa diventare un fatto importante anche dal punto di vista economico, per il marketing della società, e per l’immagine. Riuscire quindi a creare un punto di riferimento per i tifosi della propria squadra, ma anche per i simpatizzanti di fuori Roma che vogliono visitare il campo – come accade a Madrid, dove lo stadio è divenuto una “tappa turistica” – sarebbe un grande successo. Ma questi complessi romani dovranno essere ancora più innovativi dal punto di vista della fruibilità per rappresentare la vera eccellenza». (Giuliano Giovinazzo)
A vent’anni esordisce nel Genoa di Gigi Simoni, Bruno Conti e Roberto Pruzzo, con i quali vince il Campionato di serie B. L’anno successivo disputa – sempre con il Genoa – le partite della Coppa Italia, lasciando poi la squadra del capoluogo ligure per nuove esperienze, con il Trento, la Cavese e altre squadre ancora.
Nel 1985, in forza al Nissa di Caltanissetta (Serie C), è vittima di un incidente automobilistico presso la stazione autostradale di Messina-Gazzi e riporta una frattura della V e VI vertebra cervicale, con conseguente tetraplegia.
Dopo un’esperienza che Casadei non esita a definire «terribile» presso il Policlinico di Messina – struttura allora del tutto impreparata ad accogliere un paziente con tali patologie – viene trasferito con mezzi propri nella Clinica Ortopedica Universitaria di Heidelberg in Germania, dove resta ricoverato per quasi due anni a causa delle pessime condizioni derivate anche dall’errato trattamento iniziale.
Colpito dall’esperienza, resterà in Germania fino al 1992, aderendo al Gruppo Sportivo di Heidelberg, studiando psicologia presso l’Università della città tedesca e insegnando la lingua italiana.
Su sollecitazione di Volkmar Paeslack, storico paraplegista fondatore dell’Unità Spinale di Heidelberg (vista anche la padronanza della lingua tedesca), Casadei si specializza nella consulenza alla pari, anche in virtù della purtroppo folta comunità di italiani che in quegli anni avevano solo nel ricovero all’estero una speranza di ricevere trattamenti adeguati e senza drammatiche conseguenze.
Al suo rientro in Italia entra subito in contatto con le realtà associative della capitale e nel 1995 diventa consigliere dell’Associazione Paraplegici (AP) di Roma e del Lazio. Un militanza importante, questa, in un momento di grande fermento che proprio grazie agli sforzi dell’AP, porterà all’apertura dell’Unità Spinale Unipolare del CTO di Roma.
Dal 1998 diventa – e lo è tuttora – presidente dell’AP; è stato inoltre vicepresidente della FISH Lazio (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e componente del Consiglio della Consulta Regionale Laziale sull’Handicap, all’insegna di un impegno coerente, serio e costante nella tutela delle persone con lesione al midollo spinale. (G.G.)
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