A proposito di professioni nate dal processo di inclusione delle persone con disabilità, abbiamo di recente intervistato Giuseppina Mascaro (si legga l’intervista cliccando qui), assistente personale di Rita Barbuto, direttore di DPI Europe (Disabled Peoples’ International). Questa volta, invece, ci occupiamo dell’assistita – Rita Barbuto appunto – in qualità di esperta consulente alla pari. Barbuto è infatti una vera e propria “pioniera” in Italia di questa professione, riconosciuta da noi soprattutto all’interno dei Centri di Vita Indipendente e utilizzata dall’Università della Calabria come servizio per gli studenti con disabilità.
La figura del consulente alla pari (peer counselor) si inserisce in modo diretto nel processo di inclusione sociale che stiamo qui analizzando, costruendone le basi stesse della realizzazione. Inclusione, infatti, significa coinvolgimento attivo della persona con disabilità nei processi politici e sociali e perché ciò possa avvenire, occorre innanzitutto che la persona sia consapevole di se stessa, dei propri diritti, dei propri desideri, dei propri limiti e delle proprie potenzialità. Il consulente alla pari è dunque una persona con disabilità che ha svolto un percorso di crescita personale e al contempo ha raggiunto una formazione specifica per aiutare altre persone con disabilità a prendere confidenza con se stesse, privatamente o attraverso incontri di gruppo.
La metodologia del Peer Counseling nasce alla metà degli Anni Sessanta in California da un gruppo di studenti con disabilità dell’Università di Berkeley che, emarginati dalla vita sociale, iniziarono a incontrarsi tra di loro, a scambiarsi i vissuti personali e a sostenersi reciprocamente. Essi presero ispirazione da altre parallele esperienze di riscatto delle marginalità, che riguardavano in particolare gli afro-americani, le donne e gli omosessuali e svilupparono quello che, nel tempo, divenne un vero e proprio metodo. Negli Anni Ottanta, tale metodo venne poi importato in Europa dove fu diffuso da DPI Europe e da ENIL (European Network on Independent Living).
Tra il gennaio del 1998 e il dicembre del 1999, DPI Italia ha dato vita a un progetto pilota di formazione biennale finanziato dall’Unione Europea, intitolato Azioni a favore della parità di opportunità delle persone disabili – European Commission Directorate General Employment, Industrial Relations and Social Affairs. Al termine di tale esperienza risultarono formate venticinque persone che poi iniziarono ad operare all’interno di varie organizzazioni. Rita Barbuto è una di queste.
Più nel dettaglio, in che cosa consiste la consulenza alla pari?
«Si tratta di una metodologia di counseling dedicata alle persone con disabilità, maturata dalle esperienze di mutuo aiuto sulla base degli studi di Carl R. Rogers e Robert Carkhuff, che hanno applicato i principi della psicologia umanistica e della psicoterapia del mutuo aiuto alle problematiche specifiche delle persone con disabilità.
Secondo i principi del mutuo aiuto, le persone che condividono una stessa esperienza – come ad esempio la disabilità – confrontandosi acquistano consapevolezza della propria condizione, nei suoi limiti e nelle potenzialità. Durante gli incontri, che possono essere individuali o di gruppo, si utilizzano varie tecniche di comunicazione e si lavora molto sul corpo».
Le persone uscite dal corso di dieci anni fa sono le uniche in Italia con la formazione necessaria a operare come consulenti alla pari?
«Fuori dal DPI sono forse stati organizzati altri corsi di formazione, anche se probabilmente diversi dal nostro, sia per durata che per eccellenza dei docenti.
I nostri riferimenti sono stati lo psichiatra americano Jerome Liss per lo studio delle tecniche di gestione dei gruppi di auto-aiuto; il peer counselor olandese Peter van Kan per l’apprendimento delle tecniche di consapevolezza del corpo, in particolare della respirazione e del rilassamento; la studiosa Stefania Guerra Lisi per le tecniche di comunicazione non verbale e l’utilizzo dei linguaggi espressivi, collegati in particolare alla teoria della globalità dei linguaggi da lei stessa ideata.
Il fatto è che mentre negli Stati Uniti il consulente alla pari è una figura professionale formalmente riconosciuta tanto quanto quella dello psicologo, in Europa manca ancora un riconoscimento ufficiale. Questo significa che non esiste nemmeno un percorso di studi ufficiale. Ciò non toglie, però, che il movimento delle persone con disabilità consideri la consulenza alla pari come un eccellente strumento di empowerment [crescita, rafforzamento dell’autoconsapevolezza, N.d.R.] e l’Università della Calabria, inserendolo tra i propri servizi, ne abbia dato un primo riconoscimento».
Perché non è più stata ripetuta l’esperienza formativa del ’98-’99?
«Principalmente per il costo. È molto elevato. Abbiamo affrontato tre seminari residenziali di dieci giorni ciascuno e altri nei fine settimana. Da anni chiediamo il finanziamento per organizzare un altro corso, ma finora non lo abbiamo ottenuto, nonostante ci siano moltissime richieste di persone con disabilità che vorrebbero iscriversi».
Chi può diventare consulente alla pari?
«Innanzitutto deve trattarsi di una persona con disabilità, perché la sua esperienza deve fungere da modello e da ispirazione per gli altri che devono poter pensare: “Se lui ce l’ha fatta, ce la posso fare anch’io”. Proprio per questo, accanto alla formazione personale, deve anche avere intrapreso un percorso di crescita personale».
Che cosa si verifica durante un percorso del genere?
«La prima fase della consulenza ha un’impronta concreta: si condividono i problemi e ci si aiuta a sopravvivere materialmente fino a raggiungere un certo equilibrio rispetto alla disabilità. La tecnica della condivisione presuppone nel conduttore un atteggiamento non giudicante, di accettazione incondizionata di quanto l’altro sta comunicando. Inoltre, il consulente non deve mai dare consigli, perché i consultanti sono stimolati a riconoscere la propria capacità di decidere ed agire.
Una volta avviato questo processo, il Peer Counseling diventa uno strumento di empowerment sociale perché, rafforzando la persona, di riflesso migliora anche il suo operato sociale, ad esempio lavorativo. Ecco perché questo metodo si è fortificato soprattutto collegandosi alla filosofia della Vita Indipendente, visto che per quest’ultima – per sviluppare percorsi di vita autonoma – è importante rielaborare il proprio vissuto relativo alla disabilità».
In che cosa si vede concretamente il legame tra Vita Indipendente e Peer Counseling?
«Lo stretto legame risulta evidente soprattutto in alcune realtà come quelle del Nord Europa, dove il peer counselor opera all’interno dei Centri di Vita Indipendente, perché il suo scopo esplicito è appunto quello di rafforzare le persone, in modo tale che possano avere una reale vita indipendente».
Esistono dei testi di riferimento per la formazione?
«Per l’Italia ne abbiamo scritto uno sulla metodologia noi di DPI. Si intitola Consulenza alla Pari. Da vittime della storia a protagonisti della vita, è edito dalla Comunità Edizioni e dal Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza ed è stato realizzato da me insieme a Vincenza Ferrarese, Giampiero Griffo, Emilia Napolitano e Gianna Spinuso [di questo manuale si occupò a suo tempo anche il nostro sito, con il testo disponibile cliccando qui, N.d.R.]. Il manuale ha una parte teorica e una esperienziale, inquadrata dal punto di vista dei diritti umani».
Come si misura la bontà del metodo?
«La mia esperienza personale e quella di tutto il DPI è estremamente positiva: la metodologia ha un grande successo. Ad esempio, dal 2001 viene applicata nell’Università della Calabria all’interno dei servizi dedicati alla disabilità. I due consulenti siamo io e un collega uscito insieme a me dal corso del ’98-’99. Quando abbiamo iniziato a lavorare, c’erano centoventi studenti con disabilità. Oggi la cifra supera i cinquecento. Inoltre, nel corso degli anni gli studenti sono cresciuti e diventati consapevoli dei propri diritti e doveri, portando dei cambiamenti concreti in tutta l’Università. Alcune sue strutture inizialmente inaccessibili non lo sono più grazie a loro segnalazioni e a richieste di abbattimento delle barriere. Oggi, infatti, si può dire che l’Università della Calabria sia completamente accessibile».
L’attività del Peer Counseling si rivolge solo alle persone con disabilità?
«Sì, tecnicamente è uno strumento con questa finalità specifica. Però il suo operato implica delle azioni parallele, che nascono a partire dalla progressiva presa di coscienza delle persone coinvolte. Ad esempio, anche se su questo punto siamo solo all’inizio, stiamo proponendo delle esperienze all’interno delle famiglie, sulla base della considerazione che, affinché la persona con disabilità rafforzi la propria autonomia, è necessario un lavoro su tutta la sua famiglia.
Un altro esempio viene ancora dall’Università della Calabria, dove DPI propone dei percorsi formativi per chi lavora con gli studenti con disabilità. Gli impiegati agli sportelli e alle segreterie didattiche e altro personale hanno affrontato con noi un percorso basato soprattutto sulla presa di coscienza del cambiamento culturale in atto, per cui le persone con disabilità non vanno più viste come persone di cui prendersi cura. Rivolgersi professionalmente a loro oggi chiede un lavoro di partecipazione e allo stesso tempo di conoscenza di bisogni specifici».
Il consulente alla pari può essere una figura ben remunerata?
«Al momento no. Ma come DPI Italia non ci siamo posti il problema economico perché ci interessava aumentare la capacità di empowerment nelle persone. La mancanza di un riconoscimento formale a questa professione impedisce per altro di stabilire delle tariffe di riferimento».
Dove andrebbe collocato il consulente alla pari?
«Oltre che nelle Università, anche nei centri per l’impiego, nelle scuole, nelle associazioni e nelle cooperative sociali, nei servizi di integrazione lavorativa, nei centri informahandicap, in quelli di formazione professionale e nei servizi di riabilitazione. Gli psicologi pensano che ci vogliamo sostituire a loro, ma il percorso che proponiamo è diverso e non sovrapponibile. Noi proponiamo uno scambio e un sostegno alla pari, sul tema specifico della disabilità».
A che punto è il processo di inclusione in Italia?
«Avverto una situazione “schizofrenica” tra leggi e princìpi da una parte e la realtà dall’altra. L’Italia ha una legislazione altamente inclusiva, a partire da quella scolastica e quella lavorativa. Ma l’applicazione delle leggi è difficile e, soprattutto, avviene a macchia di leopardo. Ci sono Regioni italiane più ricche e in grado di offrire servizi migliori e altre più in difficoltà. Anche se poi, proprio in alcune delle zone più povere, emergono realtà all’avanguardia. Di fatto, non vorrei dire che siamo addirittura più indietro degli altri Paesi dell’Europa Occidentale, ma di certo c’è un grosso lavoro da fare».
Come si sta sviluppando la figura del consulente alla pari nel resto dell’Europa?
«È diffusa in quasi tutta l’Europa. Come DPI abbiamo curato alcuni progetti con l’Ungheria ed esiste qualcosa anche in Romania, seppure non ben strutturato. Però nell’Est c’è più strada da fare. Nell’Europa Occidentale, invece, dove i servizi per la Vita Indipendente sono ormai sviluppati, la figura del consulente alla pari si sta consolidando». (Barbara Pianca)
– Se le persone con disabilità vengono incluse nella società, disponibile cliccando qui.
– Inclusione e nuove professioni: insegnare Tecnologie per l’Autonomia, disponibile cliccando qui.
– Inclusione e nuove professioni: l’assistente personale, disponibile cliccando qui.
– Inclusione e nuove professioni: assumere un assistente personale, disponibile cliccando qui.
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