Dopo quindici-vent’anni trascorsi ad assistere assiduamente un figlio o una figlia con disabilità grave, si arriva a quella fase dell’esistenza che si potrebbe chiamare “l’’età della stanchezza” che non dipende, però, dall’età anagrafica del soggetto. Certo, più si è giovani – o meno si è vecchi – meglio è, ma non è questo il punto. Quello che determina il sopraggiungere dell'”età della stanchezza” è l’usura fisica e psicologica “patita” in tanti anni, magari accentuata da un episodio specifico che ha inciso negativamente (ad esempio il termine della scuola e di ogni forma più o meno organizzata di integrazione).
Il primo pensiero che passa al mattino per la mente del genitore “usurato” è un qualcosa del tipo: «Dove troverò le energie per un’altra giornata così faticosa?». Come resistere e come reagire a tali pensieri? Tre sono le componenti della “ricetta” elaborata a tal fine dalle nostre famiglie con disabilità: “mai soli!”, la disabilità come motivo di vita e la resilienza.
“Mai soli!” è una sorta di ordine: sentirsi o essere soli fa diminuire pericolosamente le nostre energie, fa credere che solo noi siamo così sfortunati, così abbandonati dalla società.
La disabilità come motivo di vita: vivere per la disabilità di una figlia o di un figlio significa farne un po’ il proprio “hobby” (lo so che suona un po’ blasfemo, ma può essere proprio vero), ovvero il proprio argomento di studio e di specializzazione.
La resilienza, infine, è quella virtù fondamentale che permette di trarre forza dalle avversità, di contrastarle con un’energia che si fa sempre più grande al crescere di quelle .
Ma sarà davvero una ricetta valida? È la migliore possibile, parola di vecchio farmacista.
*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).
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