Vorrei aggiungere un tassello alla discussione su Gardaland e rispondere alla domanda che spesso ci viene posta da più parti, riguardo al perché le persone con sindrome di Down rivendichino il diritto di non essere considerate in massa “eterni incapaci” (come avviene per le norme restrittive del parco giochi di cui si parla), nonostante non rinuncino alle tutele e ai benefici della Legge 104/92 e alla qualifica di persone con “disabilità grave”, su presentazione del cariotipo, senza ulteriori accertamenti [come da Legge 289/02, articolo 94, comma 3. Il termine “cariotipo” è sinonimo di “mappa cromosomica”. N.d.R.].
La difficoltà intellettiva, nelle persone con sindrome di Down, è molto variabile, e potenzialmente recuperabile nel tempo. In seguito a percorsi adeguati di sviluppo, la maggior parte di tali persone raggiunge buoni risultati di autonomia e dà un contributo attivo alla società; in alcuni casi, poi, le capacità intellettive e le competenze acquisite nel tempo arrivano ad essere paragonabili a quelle di persone senza disabilità, come dimostrano in tutto il mondo persone con sindrome di Down che lavorano (non solo manualmente), che si diplomano, che si laureano, che si sposano (alcune con figli) e che vivono o vanno in vacanza da sole, che guidano l’automobile ecc. ecc.
Di per sé, quindi – e qui concordo con chi ci pone davanti a questa apparente contraddizione – la mera difficoltà intellettiva è assolutamente insufficiente ad essere considerata indice generalizzato di grave disabilità, per tutte le persone con sindrome di Down.
Va ricordato però che la difficoltà intellettiva è solo una delle caratteristiche della sindrome di Down e che la “disabilità grave”, nella sindrome di Down stessa, non sta tanto nei singoli aspetti ad essa connessa, ma nel grosso svantaggio dovuto alla condizione genetica in sé, che ha diverse altre manifestazioni oltre a quella intellettiva. Ad esempio una maggiore fragilità e predisposizione a diverse patologie, maggiori rischi di degenerazione neurologica precoce, maggiori difficoltà di inserimento sociale rispetto a persone con pari capacità – a causa dell’evidenza somatica della sindrome e dei preconcetti che tale evidenza genera – e, nonostante i progressi degli ultimi anni, un’aspettativa di vita che, sebbene soddisfacente, è ancora in media di dieci anni più bassa rispetto a chi ha i cromosomi in ordine (e dieci anni non sono pochi!).
Il complesso di questi svantaggi (sottolineo il complesso, e non il singolo svantaggio intellettivo) implica già di per sé, a mio avviso, una condizione più che sufficiente per poter definire la sindrome di Down come “disabilità grave”, attraverso la presentazione del cariotipo, mentre il singolo aspetto intellettivo non rappresenta affatto una condizione sufficiente a dedurre l’incapacità di una persona con sindrome di Down dai suoi tratti somatici o a considerarla necessariamente come “un pericolo” per la sicurezza di se stessa e degli altri. Cosa che, come ormai ampiamente provato, non corrisponde al vero.
Detto questo, è pur vero che la norma in questione [sempre la citata Legge 289/02, articolo 94, comma 3, N.d.R.] fa riferimento esplicitamente alla disabilità intellettiva quale motivo di concessione della “disabilità grave”, a fronte della presentazione del cariotipo ed è questo il punto in cui le obiezioni che ci vengono rivolte trovano un appoggio, che pare però più legato a un limite nella stesura della norma, piuttosto che alla reale opportunità di non considerare la sindrome di Down come “disabilità grave”.
Se è vero quindi che alla luce di quanto detto la norma è da migliorare, nel senso di considerare la sindrome di Down nel suo insieme di condizione genetica immutabile e non solo sotto l’aspetto intellettivo (quello sì, variabile e mutabile), è anche vero che non pare ragionevole cancellare una norma giusta nella sostanza e nella sua conclusione, ancorché basata su motivazioni e premesse da articolare meglio. Motivazioni che – poste nel modo in cui lo sono oggi nella norma in questione – sicuramente danneggiano le persone con sindrome di Down, generando gli equivoci di cui stiamo discutendo e rischiando di giustificare anacronistiche discriminazioni come quelle che avvengono a Gardaland, ma che non sono certo sufficienti ad invocare un errore ancora peggiore e dannoso, quale l’abrogazione della norma stessa.
Per le ragioni di cui sopra, mi pare priva di fondamento la richiesta alle persone con sindrome di Down di rinunciare alla definizione di “disabilità grave” e pertanto ai conseguenti benefìci previsti dalla legge; né il diritto a tali benefìci è in contraddizione con la sacrosanta pretesa di non essere considerate indiscriminatamente prive delle facoltà intellettive, in totale spregio all’evidenza dei risultati possibili, sotto questo singolo aspetto (quello intellettivo) della sindrome di Down.
I benefìci in questione, oltretutto, non sono (o non dovrebbero essere) pensati per attribuire una sorta di attestato di incapacità alle persone che ne usufruiscono, ma per bilanciare quegli svantaggi di partenza che la natura ha loro riservato, al fine di facilitarne un percorso di sviluppo, soprattutto durante l’infanzia e l’adolescenza, che consenta loro un futuro di integrazione, il raggiungimento di competenze e il recupero, totale o parziale, del ritardo motorio e intellettivo da cui sono partiti.
Rinunciare all’essere qualificati come “persone con grave disabilità” significherebbe pertanto rinunciare a benefìci che non sono un capriccio, o un indebito privilegio, ma strumenti indispensabili di aiuto alle famiglie e alle persone con sindrome di Down, al fine di poter svolgere più serenamente e con maggiori possibilità di successo quel percorso integrativo e di sviluppo che ha favorito, nel corso degli anni, i progressi evolutivi e sociali grazie ai quali tali persone possono oggi godere di una qualità di vita sorprendente e inimmaginabile soltanto fino a pochi anni fa e di raggiungere risultati in seguito ai quali pretendono giustamente di non essere più considerati – indiscriminatamente – come degli “incapaci pericolosi per sé e per gli altri”. Percorso di cui, penso e mi auguro, anche chi solleva queste obiezioni condivida le finalità, e per cui non auspichi passi indietro con la cancellazione di norme che lo favoriscono, ma caso mai ci aiuti a fare passi avanti nella direzione di una definizione normativa più adeguata della sindrome di Down che, pur mantenendo intatti i benefìci e lo status di disabilità grave (innegabilmente indispensabile al percorso di sviluppo di cui sopra), non lasci spazio a interpretazioni discriminatorie, prive di buon senso, come quelle di Gardaland.
Il fatto che poi questi benefìci giustamente concessi alle persone con sindrome di Down non vengano concessi, ingiustamente, ad altre categorie di persone con disabilità che dovrebbero averne diritto, non è certo una buona ragione per toglierli a chi li ha ottenuti, ma tutt’al più per fare una battaglia che li estenda a tutti coloro che ne avrebbero necessità. Battaglia che sono prontissimo ad appoggiare.
Vorrei aggiungere poi qualche considerazione in relazione al fatto – sollevato anch’esso in più occasioni – che la legge sia poco chiara in merito, per la mancanza di un’esplicita definizione del tipo di disabilità relativa alla sindrome di Down (psichica, intellettiva, motoria?). Mi pare verosimile che – più che da una dimenticanza del legislatore – tale “omissione” derivi dall’oggettiva difficoltà nel definire quale sia esattamente la disabilità, l’handicap, della sindrome di Down.
Credo che quest’utlima non sia definibile o identificabile con un singolo aspetto circoscritto, ma soltanto nella sua natura di “condizione genetica immutabile“, indice di per sé di quel complesso di risvolti molto variabili se presi singolarmente, ma che connotano comunque nel loro insieme un notevole svantaggio di partenza, di entità sufficiente da poter consentire la definizione di disabilità, e di disabilità grave.
Pertanto, non credo affatto che Gardaland abbia ragione e non penso che le lacune della legge – su cui comunque condivido la necessità di aprire una riflessione approfondita, per cercare di superarle – siano sufficienti a sostenere questa tesi, a maggior ragione se alla luce della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia [con la Legge 18/09, N.d.R.].
Al di là di ogni considerazione tecnica, resta il fatto che a Gardaland avviene sistematicamente – sulla pelle delle persone – una discriminazione incompatibile con una società evoluta. E questo, sicuramente, va ben al di là di un “giro di giostra“, di cui, francamente, in sé ci interessa poco. Se fosse questo a interessarci, andremmo in qualunque altro parco al mondo o in Italia (ad esempio a Mirabilandia, dove ci sono le stesse attrazioni che a Gardaland), in cui tali discriminazioni non avvengono. Gardaland, in questo senso, è un’eccezione. A noi interessa poter vivere in una società in cui non siano consentite oasi malsane di discriminazione. Che abbiano o meno fondamenti formali su lacune lessicali della legge italiana sarà da verificare in sede giudiziaria (nazionale e internazionale), ma non cambia comunque la sostanza.
Gli altri parchi – non solo quelli con caratteristiche diverse, come il Parco Sospeso nel Bosco, citato da questo sito [è a Spiazzi di Gromo, in provincia di Bergamo. Se ne legga cliccando qui, N.d.R.], ma anche quelli con le stesse caratteristiche di Gardaland, come Mirabilandia, Eurodisney ecc. – si limitano a sconsigliare (non a “proibire”!) alcune attrazioni, per determinati tipi di disabilità (intellettiva, psichica, motoria ecc.). Ma in nessun parco viene imposto, come a Gardaland, sulla base di tratti somatici comuni a una categoria di persone, un divieto discriminatorio, frutto di una generalizzazione irrispettosa dell’individualità delle persone e delle loro singole capacità.
– Gardaland: cambierà quel regolamento sulle persone Down? (cliccare qui)
– Gardaland e persone Down: proviamo a ragionare (Marco Vesentini) (cliccare qui)
– A Gardaland hanno ragione (Carlo Giacobini) (cliccare qui)
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