La prima comunicazione della disabilità in un documentario

a cura di Barbara Pianca
Si intitola “Una destinazione imprevista" il documentario che il regista Mirko Locatelli ha realizzato per conto dell’Associazione milanese L’abilità, quaranta minuti per ascoltare sette genitori che raccontano come hanno ricevuto dal medico la prima notizia della disabilità del figlio e per capire che, in tutti, lo stato d’animo prevalente è stato lo stesso: quello di sentirsi soli e abbandonati a se stessi

Disegno di un'ambulanzaEsce adesso, nel 2010, un documentario concepito e girato due anni fa. Dal 2008 al 2010 la post produzione ha imposto un’attenta supervisione e selezione dei materiali registrati per un’efficace composizione dell’insieme. Ma alla fine il  lavoro ha visto la luce. Si intitola Una destinazione imprevista ed è stato realizzato dal regista Mirko Locatelli per conto dell’Associazione milanese L’abilità.
Locatelli i lettori di Superando.it già lo conoscono, poiché il nostro sito ha seguito nel tempo il suo percorso registico. Ci eravamo avvicinati a lui fin dalla realizzazione di alcuni mediometraggi e documentari sul tema della disabilità (si veda ad esempio qui e qui) e successivamente lo avevamo intervistato in occasione dell’uscita in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 2008, nella sezione Orizzonti, del suo lungometraggio d’esordio, Il primo giorno d’inverno. In occasione di questa seconda intervista che ci ha gentilmente concesso, esordiamo chiedendo a Locatelli innanzitutto di aggiornarci sul destino del suo film, sapendo quanto è difficile per un prodotto indipendente trovare spazi per farsi conoscere dagli spettatori.
«Il film non è stato molto distribuito in Italia, siamo riusciti a conquistare una trentina di sale a fine marzo, distribuendoci autonomamente tramite Officina Film, proponendoci esercente per esercente, puntando a otto città della nostra penisola. A Milano è rimasto in programmazione per cinque settimane, passando da un cinema all’altro. Ora sta girando in qualche arena estiva ed è inserito in qualche programmazione speciale. Inoltre abbiamo portato la pellicola ad alcuni Festival internazionali, in Francia, Marocco, California e Turchia. E parallelamente all’uscita nelle sale italiane, lo scorso marzo abbiamo firmato un contratto di distribuzione per l’home video in Germania».

Avete recuperato i soldi investiti?
«Non siamo rientrati totalmente dall’investimento, ma ce lo aspettavamo. Con questo tipo di opere è molto improbabile che accada. Invece, è importante dire che abbiamo avuto grosse soddisfazioni e riconoscimenti».

Ora hai in progetto di realizzare un altro film?
«Certamente. Non posso dire nulla perché Officina Film non sarà da sola nella produzione, entreranno anche capitali francesi e dobbiamo aspettare loro per poter partire e ufficializzare la cosa».

Passiamo al documentario Una destinazione imprevista, come ti è stato commissionato?
«L’Associazione L’Abilità mi ha chiesto di dar voce a un piccolo gruppo di genitori per mettere in evidenza una questione delicata e cruciale, quella della prima comunicazione della disabilità del proprio figlio da parte del personale medico. L’Associazione aveva fatto alcune ricerche da rendere pubbliche in un convegno, durante il quale sono stati proiettati alcuni stralci delle interviste che ho realizzato. L’intento iniziale, quindi, era quello di usare il mio contributo per sostenere le tesi presentate al convegno. Durante quella giornata, però, ci siamo resi conto della potenza dell’impatto delle testimonianze e abbiamo pensato che sarebbe stato utile approfondirle e metterle insieme in un documentario».

A quando risale la registrazione delle interviste? Ci hai dedicato parecchio tempo?
«Lo abbiamo girato nel 2008, lo stesso anno delle riprese del mio film Il primo giorno d’inverno. Ci avevo dedicato parecchio tempo perché in tutto a raccontare la propria esperienza ci sono ben sette genitori».Scena tratta dal documentario: due genitori seduti a un tavolo, uno disegna

Come hai lavorato?
«Ho cercato di mettere i genitori nella condizione di parlare di comunicazione. Ho ottenuto una specie di racconto fiume che poi ho ritagliato e riassunto. Il documentario mostra solo i loro volti mentre raccontano i loro vissuti. Per mia scelta ho evitato di riprendere i loro figli e per arricchire le informazioni da trasmettere agli spettatori ho preferito piuttosto procedere in un altro modo. Ho consegnato a ciascuno dei fogli e delle matite, chiedendo loro di disegnare, qualora ne avessero sentito il desiderio, qualsiasi cosa fosse loro venuta in mente rispetto all’argomento di cui stavamo parlando. È venuto fuori una specie di racconto parallelo di momenti chiave che, disegnati, alleggerivano i contenuti e al contempo aprivano uno spazio comunicativo diverso tra me e gli intervistati. Alcuni non hanno disegnato e una donna ha appallottolato un foglio: anche queste azioni comunicano delle emozioni e degli stati d’animo agli spettatori».

Dialoghi con loro nel documentario?
«Nel montaggio finale non si sente mai la mia voce. Ho voluto fare un lavoro sul flusso comunicativo, che deve funzionare in modo unidirezionale, senza mai l’interferenza dell’intervistatore».

Come hai scelto le famiglie da intervistare?
«Mi sono state proposte dall’Associazione che ha proceduto scegliendo casi rappresentativi di situazioni diverse per situazione familiare, estrazione sociale, tipo di disabilità, dalla Sindrome di Down, all’autismo, ad alcune malattie rare. Ad esempio, c’è una coppia che ha adottato un bambino e solo successivamente ha scoperto che era disabile, ma c’è anche una donna abbandonata che ora ha trovato un nuovo amore».

Che cosa hanno raccontato gli intervistati?
«Come hanno vissuto la nascita del figlio (a parte il caso dell’adozione) e soprattutto come ha influito la comunicazione che il medico ha fatto loro e, successivamente, come si sono comportate tutte le altre persone che sarebbero preposte a sostenerli nell’accudimento del figlio».

Cos’è venuto fuori?
«Soprattutto un grande dolore per il senso di abbandono. Queste famiglie devono elaborare una sorta di lutto per il figlio atteso, in più si trovano a farlo in solitudine».

Cosa ti ha colpito particolarmente di questo lavoro che hai fatto?
«Soprattutto la grande dignità di queste persone, che si sono ritrovate sole ma hanno affrontato la situazione a testa alta. Adesso fanno parte di questa Associazione, che è l’unica a Milano che si occupa di bambini, quindi si può dire che sono storie finite bene. Anche se comunque rimangono ogni giorno dubbi e paure, perché il loro bambino cresce e la sua disabilità si modifica. Voglio dire, già una madre si preoccupa del figlio sano che cresce e deve curargli il raffreddore, il morbillo, la varicella, è ovvio che la madre di un figlio con disabilità si deve inoltre occupare di un sacco di altre cose. Per questo il sostegno di un medico preparato, che ti dice dove andare e cosa fare sarebbe fondamentale. Altrimenti ci si sente veramente persi. Per dire, una mamma mi ha detto che non voleva chiamare troppe volte il medico perché aveva timore di disturbarlo. E poi ha aggiunto: “però, quando lui smonta dal turno può farsi l’happy hour, mentre io rimango sempre, anche mentre lui si beve lo spritz, a pensare a mio figlio che non respira bene o a come devo fare perché non so come nutrirlo”.Una scena tratta dal documentario: due genitori seduti sul divano, uno disegna
Un’altra cosa che mi ha colpito molto, in generale, è la grande capacità di riflessione, di dare nome alle cose e agli stati d’animo, una consapevolezza di sé e del proprio vissuto che non mi è parsa comune».

Dunque nel documentario vengono segnalati i limiti dei medici nel sostenere le famiglie. Viene anche definito il modello di una buona comunicazione?
«Sì, vengono proposte dagli intervistati una serie di soluzioni. Infatti, finora questo documentario è molto richiesto dalle patologie neonatali per fare formazione ai medici e dalle Associazioni che organizzano convegni e conferenze a tema. Il fatto che sia utilizzato per la formazione mi rende molto soddisfatto, essendo io un regista che sceglie di occuparsi di temi sociali».

Quali sono le soluzioni proposte?
«La cosa più importante che è emersa, la mancanza più deprecabile, è che non c’è nessuno a fare da collante tra i vari specialisti a cui si rivolgono i genitori. Quello che manca, insomma, è la rete. Quando il medico comunica ai genitori che il proprio figlio ha una disabilità e che per tutta la vita dovranno lottare con questa malattia è come se li pugnalasse e poi non tendesse loro una rete per salvarli. Manca la rete di dialogo tra neopatologo, psicologo, insegnante di sostegno e così via».

Chi fosse interessato a vedere il documentario cosa deve fare?
«Il film è in vendita e i proventi vanno all’Associazione per finanziare le proprie attività. Sono contento di aiutare questa Associazione, girando il documentario ho evitato che se ne parlasse troppo per evitare l’effetto spot pubblicitario, ma mi piacciono le attività che propongono e che sono tutte mirate al sostegno dei genitori. Ad esempio, nella loro sede hanno uno spazio gioco protetto per i bambini che possono trascorrere lì dei pomeriggi in sicurezza, sorvegliati da volontari, in modo da lasciare liberi i genitori che devono lavorare. Sono importanti anche i gruppi di auto mutuo aiuto tra i genitori, uno spazio per confrontarsi tra persone con problematiche simili e non sentirsi soli».

Dicevi che il documentario è in vendita. Come si deve fare per acquistarlo?
«Basta rivolgersi all’Associazione, visitare il loro sito internet. Inoltre, da settembre Officina Film aprirà uno spazio online per lo shopping delle sue pellicole. Il documentario, quindi ,si potrà trovare anche lì e i proventi andranno comunque all’Associazione».

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