Il cambiamento sociale è un lavoro complesso, che parte però principalmente da chi vive le condizioni di maggiore negatività, da chi è escluso, emarginato, da chi vive le violenze, gli abusi, le violazioni di diritti umani. Nel momento in cui si crea la consapevolezza e si costruisce la volontà di cambiare lo stato delle cose, ricerche, alleanze e capacità di analisi sono le armi per produrre una strategia di azione che sia realmente efficace.
L’articolo di Simona Lancioni pubblicato nei giorni scorsi da Superando [“Violenza sulle donne con disabilità: alcune riflessioni critiche”, disponibile cliccando qui, N.d.R.], documentato e puntuale, pone la questione cruciale di come si costruisca un cambiamento sociale, nell’area della condizione delle donne, in particolare delle donne con disabilità.
Simona riconosce la condizione di svantaggio sociale, di stigma culturale e di violenze e abusi che le donne subiscono ancora in molti ambiti della società (sia nei paesi industrializzati, sia, spesso in maniera più pesante, in quelli in cerca di sviluppo), ma si interroga se questa condizione di vittima non nasconda una sottile deresponsabilizzazione da parte di chi discrimina, perpetra abusi e violenze, di chi viola diritti umani. In questa chiave di lettura individua un elemento assente nelle pratiche di emancipazione femminile: il maschio, il suo ruolo, le sue responsabilità per le violenze… E così, mettendo in evidenza le diverse posizioni dei maschi verso l’emancipazione femminile – distinguendo tra i “conservatori”, chiusi alla messa in discussione dei loro privilegi e gli “aperturisti”, disposti a mettersi in gioco – chiede che anche i maschi partecipino al dibattito sulla violenza verso le donne (e verso le donne con disabilità).
Credo che la posizione di Simona debba essere discussa partendo da dati di fatto. Il ruolo sociale ed economico delle donne è andato crescendo in Italia, ma vede ancora un divario considerevole tra donne e donne con disabilità. Queste ultime, infatti, vivono una condizione di multidiscriminazione di cui non sempre sono consapevoli; sul mercato del lavoro, ad esempio, il rapporto tra donne e uomini occupati è di 46 a 54, mentre per le donne con disabilità rispetto agli uomini con disabilità è di 34 a 66.
Una recente ricerca sulla condizione delle donne con disabilità nel mercato del lavoro nel Lazio faceva emergere le forme sottili o pesanti in cui si esplicitava la multidiscriminazione. Un primo elemento che emerge con chiarezza è la condizione oggettiva di svantaggio cui però spesso non corrisponde un’adeguata consapevolezza e capacità di reagire. Quante donne con disabilità sanno esprimere e concettualizzare la loro condizione di multidiscriminazione?
Da qui la scelta strategica di DPI (Disabled Peoples’ International) – unica associazione mondiale che prevede nel proprio Statuto la parità di genere nelle cariche sociali e nelle delegazioni ufficiali – di lavorare per creare uno spazio dove potesse esprimersi liberamente il pensiero, il confronto, la crescita di consapevolezza delle donne che vivono condizioni di violenze, abusi e violazioni dei diritti umani.
La pratica della separatezza – soluzione che è ancora quella utilizzata per tutti i movimenti di emancipazione, politica, sociale, culturale – è all’inizio una pratica necessaria, per costruire quell’empowerment individuale e collettivo [costruzione di una valutazione positiva di sé e della propria autoefficacia, N.d.R.] che aiuterà – in questo caso – le donne con disabilità ad avere strumenti e consapevolezze utili a farle confrontare alla pari con i differenti interlocutori.
Purtroppo i processi di impoverimento sociale e individuale, la mancanza di occasioni di confronto, di spazi autogestiti e dedicati ad affrontare questo primo livello di rifiuto dei ruoli tradizionali, di rottura con gli stereotipi, di progressiva consapevolezza della condizione di violazione di diritti umani che si vive quotidianamente, fa sì che ciò sia ancora poco praticato in Italia. Quante sono le associazioni che hanno deciso di affrontare il tema della multidiscriminazione che vivono le donne con disabilità? Quante donne con disabilità in Italia possono dire oggi di partecipare a gruppi, attività e iniziative che offrono uno spazio libero di confronto tra di loro?
Nel mondo il tema della crescita di una consapevolezza della propria condizione e della costruzioni di leader capaci di rappresentarla è nata da queste pratiche. Se il confronto dei vari attori coinvolti nei processi di multidiscriminazione è impari, quel confronto nascerà già sbilanciato verso chi ha più potere e capacità di rappresentarsi. Magari in Italia ci fossero gruppi di donne che lavorassero sulla discriminazione di genere nelle associazioni, nei luoghi di lavoro, nelle università e nelle scuole! Basta analizzare lo scarso peso che hanno negli organismi direttivi delle associazioni le leader donne. Se pensiamo che anche all’interno del mondo delle donne, le donne non ancora disabili non hanno avviato una riflessione approfondita sulla disabilità (e pensiamo all’assenza di una riflessione sulla disabilità da parte del movimento femminista o dell’assenza nella Convenzione delle Nazioni Unite contro le Discriminazioni delle Donne – siamo nel 1979 – di qualsiasi riferimento al mondo della disabilità), vediamo che il campo da dissodare è ancora vasto.
Quindi il primo compito del movimento italiano per il superamento della multidiscriminazione è quello di offrire alle donne con disabilità occasioni per confrontarsi, per discutere di strategie, per rafforzare la propria consapevolezza sui diritti e appropriarsi degli strumenti di difesa e di attacco.
Il confronto con il mondo maschile (e con il mondo femminile che non se ne occupa) è assolutamente necessario e tuttavia deve avvenire “ad armi pari”. Quando questo processo di empowerment delle persone e dei gruppi di donne avviene, allora sì che diventa essenziale aprire un confronto e costruire le alleanze necessarie.
L’approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità è un evento epocale e uno strumento da utilizzare nei suoi stessi elementi costitutivi: legge internazionale, che impegna gli Stati che l’hanno ratificata a rispettarla [l’Italia l’ha ratificata con la Legge 18/09, N.d.R.]; base per un approccio alla disabilità basato sul rispetto dei diritti umani; strumento di promozione e tutela dei diritti, da rivendicare in tutte le forme opportune, giudiziarie, politiche, sociali.
Io appartengo a quella parte dei maschi che si sono messi in discussione, ma non perché siamo “più bravi”, bensì perché ho incontrato donne consapevoli della loro condizione, dei loro diritti, che sapevano difendersi e attaccare, che in altre parole hanno messo in discussione comportamenti stereotipati, hanno ricostruito stigmi sociali negativi, hanno saputo elaborare e mettere in pratica un nuovo modello di donna, che si liberava delle sue catene, senza scimmiottare i modelli maschili di potere e di dominio.
Oggi queste donne – e non parlo solo delle donne con disabilità – capaci di esprimere modelli di etica e pratica sociale egualitaria, rispettosa dei diritti e della dignità delle persone, mi sembra scarseggino. Dilaga infatti il modello “escort” della donna di successo, l’accettazione di ruoli subalterni, purché si consegua uno spazio di visibilità e di potere, senza mettere in discussione il ruolo e i poteri maschili.
Mi pare quindi necessario lavorare perché quel confronto auspicato da Simona, tra maschile e femminile, avvenga su posizioni e campi dove si possa realmente riequilibrare la condizione di svantaggio del femminile, rimuovere la multidiscriminazione e favorire l’equalizzazione delle opportunità tra i generi.
*Componente dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).