Un confronto «non armato» tra il mondo maschile e quello femminile

di Simona Lancioni*
Di fronte alle violenze che colpiscono le donne con disabilità e le donne in generale, non è il caso di investire nella qualità delle relazioni, di fabbricare anche fiducia, per non dover scegliere una vita "in attacco" o "in difesa", che priva le persone di spazi di libertà e felicità? Ecco perché il confronto tra il mondo maschile e quello femminile dev'essere "non armato"

Foto di Luigi De Frenza (Expiria.com)Ho molto apprezzato l’intervento di Giampiero Griffo [“Come sradicare la violenza e la discriminazione verso le donne con disabilità?”, disponibile cliccando qui, N.d.R.] in risposta alle sollecitazioni da me sollevate in tema di violenza delle donne con disabilità [si veda: “Violenza sulle donne con disabilità: alcune riflessioni critiche”, cliccando qui, N.d.R.], e non posso che concordare sulla complessità che sta alla base del lavoro di cambiamento sociale, come pure sulla necessità di protagonismo dei soggetti interessati al cambiamento.
Non sono invece d’accordo sul fatto che per chiedere una riflessione degli uomini sulla violenza maschile occorra aspettare che la generalità delle donne (disabili e non) abbia maturato la consapevolezza della propria posizione di svantaggio. Per usare una metafora: c’è davvero bisogno che una donna diagnostichi “la febbre” perché gli uomini che ce l’hanno scoprano di avercela e si decidano a curarla? Se la donna – per ipotesi – non arrivasse mai ad avere la forza di sostenere le proprie posizioni e di difendere i propri diritti, questo esimerebbe l’uomo violento dal riflettere su di sé, sulla violenza che agisce, sulle origini della stessa?
Scrive Giampiero: «Il confronto con il mondo maschile (e con il mondo femminile che non se ne occupa) è assolutamente necessario e tuttavia deve avvenire “ad armi pari”». Possiamo provare a pensare a un confronto “non armato”?

Quando con il Gruppo Donne UILDM (di cui faccio parte) ci siamo rivolte a una Casa della Donna chiedendo perché non si fossero mai occupate di disabilità al femminile, loro ci hanno risposto che in tutto il periodo della loro attività nessuna aveva mai posto questo tipo di sollecitazione (1). Quando noi l’abbiamo fatto ci hanno accolto, ci hanno ascoltato, hanno partecipato alle nostre attività (2), ci hanno coinvolto nelle loro. Loro non erano “armate”, noi neanche. Non c’era da imporsi, o da sostenere un “braccio di ferro” dialettico, solo da ascoltare. Da tutte e due le parti.
Con i gruppi di uomini probabilmente il percorso è più complesso per una serie di motivi: questi gruppi hanno posizioni molto eterogenee, hanno problemi di rappresentanza (nel senso che non possono parlare a nome degli altri gruppi), propongono letture molto diverse del disagio maschile alle quali conseguono risposte differenziate. Nonostante ciò credo che sia necessario e importante quanto meno chiedere/sollecitare/incoraggiare un lavoro sui modelli maschili.

Le donne non possono mettere mano ai modelli maschili, per lo stesso motivo per cui gli uomini non dovrebbero ingerirsi nelle questioni prettamente femminili, o le persone non disabili nelle scelte di autodeterminazione delle persone con disabilità. Il fatto è che esiste un problema maschile o – se si preferisce – una “questione maschile” che precede il confronto con le donne. Lo stesso tema della violenza sulle donne, da cui molti uomini sono partiti per iniziare a riflettere su di sé, è (per ammissione di alcuni di loro) solo un alibi.
Stefano Ciccone che fa parte del gruppo «Maschile Plurale» – parla a tal proposito di «alibi del dovere» (3): visto che non era socialmente previsto che gli uomini eterosessuali provassero un disagio interiore legato alla loro maschilità, questi uomini, per parlare del loro disagio, hanno dovuto inventarsi “un pretesto”, vale a dire la “doverosità” di occuparsi della violenza sulle donne.Alcune componenti del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) Ma la questione maschile prescinde dalle donne, affonda le sue radici nell’accessorietà riproduttiva degli uomini (solo le donne partoriscono), nella censura del corpo maschile imposta dai modelli patriarcali (perché molti uomini non sanno stare in un abbraccio maschile senza sentire il bisogno di allontanare da sé lo spettro dell’omosessualità?), nella scoperta della parzialità del sapere maschile (4), nella precarietà di una virilità che dev’essere sempre esternata e dimostrata per avere l’approvazione degli altri uomini ecc.

Non è necessario aspettare che le donne siano “pronte” a contrastare gli uomini per porre la questione maschile: molti problemi degli uomini non dipendono dalle donne, si riversano anche sulle donne, ma non dipendono da loro.
I cambiamenti dell’identità femminile hanno messo in luce alcune problematicità del maschile, ma non le hanno create, le hanno solo illuminate. Solo gli uomini possono decidere cosa vogliono essere, come vogliono vivere, inventarsi una libertà non oppressiva per nessuno, decidere come relazionarsi con se stessi, con gli altri uomini, con le donne. E questo non per fare un favore alle donne – che pure ne sarebbero felicissime (visto che poi finisce che alcuni se la rifanno con loro) -, lo devono fare per sé.

Per questi motivi io penso che la questione vada comunque posta. Non credo sia opportuno porre il problema in termini accusatori o di rivalsa, non penso sia questo il modo migliore per ottenere ascolto. D’altra parte anche a proporsi in termini normativi (di rivendicazione di diritti) si rischia di incassare solo risposte formalmente corrette, ma non inclusive.
Io credo più semplicemente che si tratti di dare voce a una domanda di senso che è presente, è forte e fatica a trovare luoghi in cui esprimersi. La violenza ha una matrice relazionale. Se non investiamo abbastanza nella qualità delle relazioni, se non fabbrichiamo anche fiducia, stiamo scegliendo una vita “in attacco” e/o “in difesa”. Una scelta simile può rendere le persone felici? Dà senso o priva le persone di spazi di libertà e di felicità? Lo chiedo agli uomini come alle donne.

*Componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).

Note:
(1) 
Si veda a tal proposito Simona Lancioni (a cura di), Pari opportunità, femminismo e disabilità, Padova, Gruppo Donne UILDM, 2008 (URL: cliccare qui).
(2) Si veda Simona Lancioni (a cura di), Ruoli imposti e ruoli negati, Padova, Gruppo Donne UILDM, 2008 (URL: cliccare qui).
(3) Stefano Ciccone, Oltre la miseria del maschile. Un percorso di ricerca e liberazione, in Elisabetta Ruspini (a cura di), Donne e uomini che cambiano. Relazioni di genere, identità sessuali e mutamento sociale, Milano, Guerrini Scientifica, 2005, p. 170.
(4) Si veda a tal proposito Sandro Bellassai, L’invisibile parzialità del maschile nella storia, «Maschile Plurale», 2008 (URL: cliccare qui).
Ricordiamo che i due testi da cui prende spunto il presente intervento (Violenza sulle donne con disabilità: alcune riflessioni critiche di Simona Lancioni e Come sradicare la violenza e la discriminazione verso la donna con disabilità? di Giampiero Griffo) sono disponibili cliccando rispettivamente qui e qui.
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