Degli studi sperimentali di Valeria Coppola ci eravamo già occupati in precedenza (se ne legga cliccando qui. Coppola è una giovane psicologa ed è persona con disabilità motoria. La sua originale tesi di laurea, ideata a partire dall’osservazione dei bisogni specifici del proprio fratello, si incentrava sull’utilità di un confronto tra pari, in cui i fratelli e le sorelle di persone con disabilità potessero parlare insieme delle peculiarità del loro percorso di crescita.
In Italia non esistono molte realtà del genere. Ci sono gruppi dedicati ai genitori, ma raramente ai fratelli. Eppure, quando un anno e mezzo fa Coppola è riuscita a far partire il suo primo gruppo a Treviso, ha dimostrato di avere intercettato un bisogno reale e di avere trovato una risposta interessante a tale bisogno. Lo abbiamo visto con i nostri occhi, noi di Superando, ospiti privilegiati di una riunione. Quella volta i partecipanti non erano numerosi e l’argomento piuttosto ostico. Eppure, al di là degli imbarazzi e della difficoltà a entrare davvero nel vivo del tema, si percepiva anche una certa immediatezza nell’esporsi davanti agli altri. C’era insomma la percezione diffusa che i ragazzi parlassero apertamente e in modo diretto tra loro perché consapevoli di capirsi l’un l’altro e ci è parso questo l’elemento efficace, da valorizzare, di questa esperienza. Sapere di poter essere compresi, senza doversi soffermare a spiegare troppi dettagli, è una sensazione che dà sollievo e fa sentire più sicuri.
A dimostrare l’utilità di iniziative del genere c’è stato anche un recente convegno a Bologna (se ne legga cliccando qui), denominato Mio fratello è figlio unico. Fratelli, sorelle, famiglie di persone con disabilità, in cui neuropsichiatri e psicologi hanno affrontato proprio questo tema, con l’intenzione di aprire un nuovo spazio di rilfessione che dovrebbe proseguire nel tempo.
Esistono poi anche delle occasioni di confronto online – si veda il sito appositamente creato Siblings.it – ma la proposta della Coppola ha una specificità: quella dell’appuntamento mensile vis à vis, guidato – almeno nella fase iniziale – da un terapeuta. Una proposta impegnativa che, nonostante piaccia ai trevigiani che la stanno attuando, fatica ad attecchire nel nostro Paese. Coppola ci ha raccontato infatti che ad oggi esiste soltanto un secondo gruppo, a Cassano Magnago in provincia di Varese, accanto a quello veneto.
«Molte associazioni cui lo propongo – ci spiega – non hanno i fondi, oppure accettano l’idea, ma poi sono gli invitati a non partecipare. Alcuni gruppi sono stati iniziati, ma non hanno avuto seguito. Con uno abbiamo provato la strada dello scambio esclusivamente via mail, ma è stato infruttuoso».
Come mai i siblings – così, infatti, vengono definiti, “all’inglese”, i fratelli e le sorelle di persone con disabilità – non rispondono facilmente, se poi quelli che a Treviso si sono fatti coinvolgere testimoniano l’utilità degli incontri?
«Perché di solito pensano di non averne bisogno. Ritengono di non avere temi specifici da affrontare legati al fatto di essere cresciuti con un fratello disabile. Reclamano l’unicità della propria situazione e sono convinti che certe difficoltà siano legate esclusivamente alla storia personale e al carattere. E poi, anche quelli che invece riconoscono che ci siano temi su cui confrontarsi, spesso si vergognano di parlarne, specialmente i maschi. Di base, direi che per ammettere che ci sono dei temi da affrontare occorre prima aver accettato la presenza del fratello disabile nella propria vita. Chiaro che chi ha un rapporto conflittuale e non riesce ad accettarlo non ha nessuna intenzione di entrare in un gruppo come quello che propongo».
A Treviso com’è partito il gruppo?
«L’ANFFAS locale (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) ha approvato il mio progetto. I fratelli e sorelle di persone con sindrome di Down o con ritardo mentale che fanno parte dell’associazione sono stati invitati al primo incontro. Non è stato facile. C’era diffidenza e inoltre la comunicazione non è riuscita a raggiungere tutti. Ma un po’ di persone hanno risposto con curiosità e il gruppo è partito. Si tratta soprattutto di ragazze e giovani donne, ma ci sono anche dei maschi. La cosa più interessante è che si sono resi conto che alcuni problemi che credevano di avere solo loro ce li hanno tutti. Alcuni comportamenti e atteggiamenti che credevano legati alla loro personalità risultano invece essere comuni e generati dall’esperienza con il fratello disabile».
Chiediamo a due ragazze del gruppo, Barbara e Veronica, di raccontarci come sono state avvicinate la prima volta.
Barbara: «Ho ricevuto una lettera dall’ANFFAS che mi invitava al primo incontro. Non mi era mai venuto in mente di partecipare a una cosa del genere. Nella busta c’era anche un questionario e l’ho compilato frettolosamente. Sono andata all’incontro così, tanto per vedere, senza pensare a cosa sarebbe successo».
Veronica: «Me ne ha parlato mio papà. Ho pensato che sarei stata contenta di parlare con altri ragazzi. Nemmeno io ci avevo pensato prima e non pensavo che questa iniziativa potesse rispondere a miei problemi specifici. Quando i genitori dell’ANFFAS facevano le riunioni, io li aspettavo giocando con i fratelli degli altri disabili, ma non ho mai pensato di parlare con loro. Poi, quando ho iniziato a frequentare, mi sono resa conto che questo gruppo è la risposta a un bisogno che c’era, ma che non avevo mai saputo formulare dentro di me».
E il primo incontro com’è andato? Ve lo ricordate?
«Il primo incontro è stato di conoscenza, abbiamo parlato in generale. Fin dall’inizio ci siamo trovati davanti a persone con qualcosa in comune con noi. Abbiamo entrambe quindi calato le nostre barriere sull’argomento. Con gli altri di solito all’inizio saremmo più timide. Il gruppo è un luogo dove possiamo dire qualcosa della nostra vita e nessuno ci giudica. Di quel primo incontro ricordiamo soprattutto il senso di fiducia provato nel vedere persone simili a noi e il desiderio di conoscerle meglio».
Torniamo a parlare con la psicologa. A distanza di un anno e mezzo dalla sua fondazione il gruppo continua. È un risultato incoraggiante.
«Sì, direi di sì. Adesso si incontrano con meno frequenza, a dire il vero, ogni due mesi circa. Ma in compenso sono aumentate le uscite serali. Si trovano senza di me, che abito distante, e bevono insieme un aperitivo o si mangiano una pizza. Gli incontri terapeutici, invece, continuo a condurli io, nonostante avessi pensato che a un certo punto si sarebbero potuti arrangiare».
Come mai non è accaduto?
«Forse proprio perché sono diventati amici. Se si trovano da soli chiacchierano in modo spontaneo e disordinato. Hanno invece bisogno di una struttura di dialogo organizzata per affrontare un argomento in modo terapeutico e sono loro stessi a chiedermi di continuare a partecipare. Poi di fatto le cose sono comunque cambiate, perché se all’inizio dovevo sempre proporre un argomento e utilizzare degli strumenti specifici per stimolare lo scambio di esperienze, ricorrendo a disegni, schede, eccetera, oggi invece fanno tutto da soli. Gli argomenti nascono spontaneamente e mi limito a tenere la discussione incentrata su di essi».
Come si è evoluto il gruppo nel tempo, a livello numerico, di età e di genere sessuale?
«Oggi sono in quindici, di cui cinque maschi. Hanno dai sedici ai trent’anni, ma c’è anche una donna quarantenne. Nel tempo sono passate alcune persone che poi hanno scelto di non frequentare più. Ancora adesso continuano ad arrivare persone nuove. C’è movimento, diciamo, ma alcune persone che sono rimaste fin dall’inizio costituiscono una specie di “zoccolo duro”».
Di cosa si parla alle riunioni?
«Gli argomenti che abbiamo affrontato riguardano il lavoro, la sessualità, il Dopo di Noi, la genitorialità. Sull’ultimo punto abbiamo affrontato ad esempio il fatto che la sindrome di Down è genetica e quindi ereditabile. I partecipanti al gruppo che desiderano avere figli si interrogano sulla possibilità che questi abbiamo la stessa disabilità. Devo dire che però tutti finora hanno detto che vorrebbero comunque tenere il bambino perché, in base all’esperienza che hanno avuto con il fratello, ritengono che si tratti di un’esperienza da vivere e non da evitare.
Sempre riferito alla genitorialità, abbiamo parlato anche del confine tra il ruolo del fratello e quello del genitore, specie quando quest’ultimo invecchia e progressivamente delega al fratello. A dire il vero ci sono genitori che delegano anche troppo e altri che al contrario faticano a tirarsi indietro. Confrontarsi su questi temi per i ragazzi è molto importante».
Sulla sessualità cosa è stato detto?
«Si è parlato di masturbazione. Cosa fare se il fratello o la sorella disabile ti viene a chiedere come si fa a masturbarsi o comunque ti parla della sua esperienza di autoerotismo?».
Che risposte sono venute fuori?
«Dipende dal carattere di ognuno, dall’età e anche da come i genitori impostano questo argomento a casa. Alcuni evitano l’argomento. Altri invece lo trattano con naturalezza, suggerendo al fratello di fare quello che si sente, spiegando che capirà da solo cosa e come fare. Altri, vedendo che il fratello aveva comunque trovato delle immagini esplicative, si sono limitati ad ascoltarlo senza esprimersi in merito».
Ci sono anche altri argomenti legati alla sessualità?
«Ce n’è uno che è legato sia alla sessualità che all’affettività: cosa rispondere quando tuo fratello ti chiede perché tu sei fidanzato e lui no? Cosa dire quando fantastica sul farsi una famiglia, sposarsi e avere dei figli? Anche qui i comportamenti variano. Di solito c’è la tendenza a riportare il fratello o sorella sul piano della realtà attraverso una battuta scherzosa. Per esempio alcuni dicono: “Ma guarda che avere il fidanzato sempre intorno è una noia, sei sicuro di volerlo? Non è che invece da solo ti diverti di più?”. Più in generale, quando si ha a che fare con la sindrome di Down, si parla molto del tema dell’affettività, perché di solito si tratta di persone estremamente espansive».
Avete anche parlato di Dopo di Noi.
«I genitori diventano sempre più anziani e l’interrogativo su quello che accadrà quando non saranno più in grado di prendersi cura dei figli disabili è nella testa di tutti i partecipanti sopra i venti, venticinque anni. Si interrogano sul proprio ruolo: accoglierano il fratello nella loro casa? Durante le riunioni ci sono anche scambi pratici di informazioni su cooperative e centri diurni, per quanto riguarda l’inserimento lavorativo e le attività quotidiane. E si parla anche di educazione, di come, cioè, i genitori hanno educato il fratello o la sorella. A volte, infatti, emerge che un atteggiamento eccessivamente protettivo può recare danno anche ai fratelli. “Se lo viziano troppo, lo lavano, lo vestono, non lo stimolano a essere più autonomo, come farò io a stargli dietro?”, si chiedono alcuni».
Per Chiara, ventiquattrenne da poco sposata, il problema da affrontare, prima ancora di capire se un giorno suo fratello diciassettenne con sindrome di Down andrà a vivere con lei, è stato quello di uscire dalla casa d’infanzia nel modo meno traumatico possibile per lui.
Ci facciamo raccontare com’è andata e quale ruolo ha avuto il gruppo di siblings in questo passaggio chiave della vita sua e di quella del fratello.
«Gli ho spiegato un po’ alla volta che andavo via di casa e non è stato facile per lui. Non ha vissuto bene il giorno del matrimonio perché si prefigurava l’allontanamento ed era nervoso, si sentiva abbandonato. Poi ogni settimana l’abbiamo invitato a mangiare da noi e a giocare con la Playstation. Ora gli ho ceduto la mia vecchia camera e se ne sta finalmente facendo una ragione. Il gruppo mi ha aiutato, anche se nessuno aveva avuto la mia esperienza. Ma certo rimangono persone che mi possono capire meglio delle altre. Posso raccontare loro, ad esempio, queste difficoltà con mio fratello senza tante spiegazioni e arrivando dritta al punto».
Cosa ti piace del gruppo?
«Vengono sempre fuori degli argomenti che mi permettono o di dare un sostegno a chi è più piccolo di me e non ha ancora vissuto determinati momenti – così nel frattempo ho anche modo di rianalizzare il mio comportamento – oppure al contrario di essere sostenuta da chi è più grande e per certe cose ci è già passato. E poi c’è anche il fatto che mio fratello conosce molti degli altri fratelli. Anche per il futuro mi sembra che così stia creando dei ponti, delle reti tutto attorno a noi».
C’è anche qualcosa che non ti piace?
«Abbiamo avuto la sfortuna che si è sempre aggiunta gente progressivamente, che poi magari non è neanche più tornata. Da una parte è arricchente, ma ogni volta che arriva una persona nuova che non sa quello che si è già raccontato, magari anche di forte e intimo, occorre tornare indietro e ricominciare per certi versi daccapo. Certo, accogliamo volentieri tutti, ma così si viaggia a più livelli».
Come mai alcune persone se ne vanno, secondo te?
«Bisogna essere pronti a livello personale a fare questo tipo di incontri. Le “meteore” che sono passate da noi si vedeva subito che non lo erano. Se non si è a buon punto con un percorso di accettazione del fratello, alcune tematiche possono essere traumatiche. Io ho avuto il supporto di una psicologa dai quindici anni in poi. A volte il fatto è anche semplicemente che sono ancora troppo giovani».
Ad esempio?
«Mi ricordo una ragazzina tredicenne che c’era la volta che abbiamo parlato del futuro. Non puoi, a tredici anni, pensare già che un giorno ti troverai con il problema di tuo fratello da tenere. Forse, se ci fossero più adesioni, questi gruppi andrebbero divisi per periodi della vita. E ancora, se ci fosse ancora più gente, li dividerei anche per tipologia di disabilità».
Per Veronica invece la differenza di età è un elemento arricchente.
«Ascoltare persone in fasi diverse della vita mi permette di conoscere le varie tappe. Ho diciannove anni e ci sono cose a cui non ho ancora pensato. Mi colpisce anche la differenza dei vissuti. Qualcuno vive la situazione con più difficoltà degli altri. Ho notato anche una differenza tra chi ha il fratello più grande e chi più piccolo».
Che differenza c’è?
«Più grande è più difficile».
Tu hai un fratello più grande o più piccolo?
«Ho una sorella quattordicenne con sindrome di Down. Avevo cinque anni quando è nata. All’inizio non capivo quando mi dicevano che era “speciale”; poi, quando mi sono resa conto, l’ho presa bene, gradualmente. Anzi, a dire il vero non avevo mai notato che mi avesse creato dei problemi finché non ho incontrato il gruppo. Allora ho detto: “Ah, è vero!”».
Che tipo di problemi hai individuato? Nel tuo rapporto con gli altri?
«Non è mai stata un problema con gli amici perché si fa ben volere, è facile affezionarsi a lei. Ogni tanto però mi piacerebbe avere un fratello con cui parlare. Adesso poi un po’ mi dispiace per lei perché inizia a rendersi conto di essere trattata diversamente dagli altri. Ad esempio, dice che non vuole più l’insegnante di sostegno e vuole prendere la patente».
Parlare di queste cose con il gruppo ti è di aiuto?
«Non mi vergogno neanche a farlo fuori dal gruppo, sono gli altri che si imbarazzano. Specialmente se non l’hanno mai conosciuta. C’è sempre un silenzio imbarazzante. Ma nel gruppo non ho trovato solo la possibilità di condividere delle situazioni difficili. Ho anche notato che alcune caratteristiche che credevo tipiche del mio carattere sono comuni a tutti noi».
Qualche esempio?
«Sono diventata responsabile presto, prima dei miei coetanei. Sono attenta agli altri, mi metto a disposizione. Non mi arrabbio mai con nessuno. Non so dire di no e piuttosto faccio qualcosa che fa male a me, pur di fare piacere agli altri. Con i miei genitori ho un rapporto tranquillo, ma tendo a tenere i miei problemi per me, per evitare di appesantirli. Pensavo di essere fatta così di carattere, ma nel gruppo siamo tutti uguali in questi aspetti, e poi quasi tutti facciamo studi o lavori che in qualche modo servono ad aiutare gli altri».
Riconosci qualche beneficio specifico legato alla frequenza del gruppo?
«Ora anche in generale, anche fuori dal gruppo, ho più voglia di raccontare le mie cose personali agli altri, ho guadagnato più fiducia nel mostrarmi».
Per Barbara, invece, il beneficio principale sta nell’aver trovato un appoggio in più.
«La mia vita in sé non è cambiata, ma ora so che ho un appiglio in più, un posto dove poter parlare di questioni intime. Se succede qualcosa legato a mia sorella, penso sempre che posso dirlo al gruppo. Sapere che qualcuno ti capisce non è un fatto scontato e mi rincuora».
La sorella con sindrome di Down della venticinquenne Barbara ha trentun anni. Una sorella più grande: secondo Veronica, si tratterebbe di una situazione «più difficile». Quando ti sei resa conto che tua sorella era disabile?
«A quattro anni guardavo i suoi occhi a mandorla senza capire, ma è stato a cinque che per la prima volta una vicina di casa mi ha detto “tua sorella è malata”. Ero piccola, ma me lo ricordo ancora».
Come ha influenzato la tua vita la sua presenza in famiglia?
«Mi ha reso più coscienziosa, più matura degli altri bambini. All’asilo giocavo sempre con mia sorella, vedevo che era isolata e giocavo con lei. Alle medie ero titubante a invitare le amiche a casa perché avevo angoscia che potesse succedere qualcosa che le mettesse a disagio. Ma non parlavo mai con nessuno di queste emozioni, ero molto timida. In generale anche ora faccio fatica a confidare le mie difficoltà e su questo argomento in particolare pensavo che nessuno potesse capirmi. Neanche a mia mamma dicevo nulla perché aveva già troppi pensieri. Da piccola la situazione a casa era abbastanza pesante, infatti ho poi fatto l’Università a Bologna in modo da avere degli spazi tutti per me, anche se mi sentivo in colpa per aver lasciato soli i miei genitori. Adesso son tornata a casa, ma, lavorando di giorno, mi è più facile gestire la situazione. Nei fine settimana, però, tendo a non uscire e a stare con mia sorella, in modo da dare più respiro ai miei».
Il gruppo, quindi, è stato importante per te.
«Sì, tra di noi ci capiamo, mi rispecchio negli altri. La prima persona che mi capisce è il mio ragazzo, siamo insieme da sei anni. Fa volontariato in un’associazione per disabili, se fosse stata una persona del tutto digiuna sull’argomento, forse per me sarebbe stato più difficile».
Adesso che ti stai abituando a parlare di questo argomento, puoi dirci cosa provavi quando eri piccola e non parlavi con nessuno?
«Pensavo di avere una sfortuna assurda. Vivevo sempre in ombra perché mia sorella è molto esuberante, chiacchierona, impone la sua volontà e ho sempre dovuto adeguarmi a quello che voleva lei. Quando capitava che con gli amici si parlasse dei propri fratelli, ero tesa: non mi vergognavo, ma pensavo al loro imbarazzo».