Chiara Tartarini è professore a contratto di Psicologia dell’Arte presso l’Università di Bologna, vicecoordinatrice della sezione bolognese dell’International Association for Art and Psychology e caporedattrice di «PsicoArt. Rivista on line di arte e psicologia». Ho avuto modo di ascoltare un suo intervento sul tema Cinema e disabilità in occasione di un convegno e ne sono rimasta favorevolmente colpita. Ha accettato di incontrarci senza esitazione e con un sorriso. (Simona Lancioni)
Gentilissima professoressa Tartarini, cinema e disabilità costituisce un binomio più che collaudato. La lista delle opere cinematografiche che si sono occupate in vario modo di disabilità è così lunga da far escludere che se ne possa redigere una completa. Come mai tanto interesse per questo tema? Quali sono, se ci sono, i tratti distintivi di questa produzione?
«Il cinema che affronta tematiche genericamente “sociali” è quasi sempre percepito in chiave strumentale-analogica, cioè come mezzo di esemplificazione, positiva o negativa che sia. È utilizzato come strumento narrativo, capace di elaborare vere o false storie ad alto contenuto simbolico. Ma il cinema è anche uno straordinario laboratorio sulla corporeità, che agisce in maniera profonda sull’immaginario degli spettatori e ha un potenziale di cattura che va al di là degli argomenti trattati in maniera esplicita.
Per tale ragione la rappresentazione della disabilità – come giustamente lei sottolinea – è una tematica fluida, difficilmente circoscrivibile, nonostante la filmografia sull’argomento sia copiosa e variegata. Ma credo sarebbe sempre un catalogo imperfetto, perché i film che evocano il diverso – lo straniero, l’alieno, il “brutto, sporco e cattivo” – appartengono ai generi più diversi. La presenza di una corporeità di per sé atta a scatenare situazioni incontrollabili, infatti, è argomento fortemente cinematografico, perché si presta a dar vita alla rappresentazione di uno squilibrio, simbolico appunto, tra individuo e mondo, uno squilibrio che, in seconda battuta, viene percepito come vivificante di una relazione individuo-mondo spesso ritratta come passiva e passivizzante.
In un certo senso potremmo dire che il disabile, il diverso in tutte le sue possibili declinazioni, è un topos cinematografico che abita spesso gli estremi. Pensiamo al disabile “cattivo”, come molla scatenante di avvenimenti ingovernabili; ma pensiamo anche al disabile inesorabilmente presentato come il “buon ingenuo”.
Negli ultimi decenni il biografismo o l’autobiografismo sono diventati assai di moda e sono all’origine di tante favole moderne ispirate a storie vere. Ormai si tratta di un vero e proprio genere, letterario o cinematografico che sia.
Il sociologo Frank Furedi, nel suo Il nuovo conformismo, scrive che “la rievocazione autobiografica di un disagio trasforma la semplice sopravvivenza in un trionfo”. Ecco, credo che questo sia importante: il pubblico adora partecipare – e non utilizzo a caso il verbo “partecipare” – alla vittoria di un soggetto su una situazione che esso in partenza ritiene inconcepibile. Ed è questo, a mio avviso, un tratto costante di questa produzione: il fatto di dar vita a storie che permettono al pubblico di trarre una qualche eroica consolazione, derivante dal raffronto di situazione e di ruolo con l’altro da sé; e, assieme, la distanza che il pubblico, più o meno incoscientemente, conserva rispetto a questo altro, facendolo restare diverso, umanamente, teneramente, commoventemente diverso».
Ma è possibile individuare delle differenze tra le rappresentazioni cinematografiche delle donne con disabilità e quelle degli uomini disabili (ad esempio in termini di caratterizzazione dei personaggi o di assegnazione di ruoli)?
«La domanda è interessante. Credo che sul cinema che siamo abituati a vedere si riflettano gli stessi stereotipi di genere con cui abbiamo a che fare nel nostro quotidiano. Penso che talvolta il cinema li assecondi e altre cerchi di combatterli. Ma ritengo anche che, in generale, la disabilità crei un problema di rappresentazione proprio perché evoca nel pubblico l’alterità tout court.
Il diverso è il diverso, e allora sarà inabile, asessuato, non madre e non padre, zuccherosamente buono o insopportabilmente cattivo. E dove finiscono le differenze di genere? Credo che si diluiscano nella malattia, sfumino, cioè, in una dimensione sospesa da cui non esiste possibilità di uscita, tanto dagli stereotipi di genere quanto dagli stereotipi di malattia. È vero che la donna disabile viene spesso percepita come una “bambina”, ma non credo che all’uomo disabile capiti qualcosa di davvero diverso.
Nelle storie sui disabili funziona il “nonostante”: nonostante sia così, ecco quello che riesce a fare, ecco la sua forza inaspettata, ecco il suo ottimismo. “Nonostante”, appunto. E questo, devo dire, mi turba profondamente. Ho in mente alcuni film scientifici dei primi decenni del Novecento, di cui mi sono occupata anni or sono, che mostravano una serie di donne all’interno di una struttura sanitaria specializzata in terapie ortopediche. In queste pellicole i nastri tra i capelli, i vestiti della domenica indossati con cura in occasione della ripresa, ci rendono intimamente familiari queste malate, accentuano la loro normalità – stereotipa, ovviamente, e adatta al suo tempo – anche se il primo piano è riservato agli attrezzi per la rieducazione della loro andatura. Ma, a pensarci bene, esiste un genere, o un sottogenere, in cui mi pare di ravvisare l’utilizzo di uno stereotipo femminile portato alle estreme conseguenze. Penso alla serie di film sulla follia – inteso qui come sostantivo femminile singolare!
Riflettiamoci: se il “folle” è donna, spesso è doppiamente pericoloso. Il suo corpo è il più delle volte fatalmente attraente, così da rendere ancor più inesorabile un contatto. Dietro la presunta docilità del genere femminile, si nasconde una “furia”, una follia traditrice che sconvolge le certezze maschili e fa degli uomini le vittime designate per interposto peccato di seduzione di una diversità ingannatrice».
Supponiamo che lei debba tenere una lezione finalizzata a illustrare – attraverso il supporto di alcuni film – la condizione della donna con disabilità a una classe di alunni completamente digiuni dell’argomento. Su quali opere ricadrebbe la sua scelta, e per quali motivi?
«Ricadrebbe senz’altro sugli esempi che considero “sani”, cioè problematicamente sani. Detesto le formule ad effetto e tutto ciò che di per sé capovolge il problema in una dimensione falsamente politically correct, perché credo sia un modo per conservare le cose così come stanno.
Mi riferisco a formule del tipo “i disabili siamo noi”, che considero un pregiudizio mascherato, che tra l’altro ci spinge a non riconoscerlo neppure più come pregiudizio. Proferendo frasi di questo genere ci sentiamo rassicurati perché ci mettiamo al riparo da critiche, visto che, assieme alla patente di correttezza, riusciamo a conquistare anche quella, altrettanto vaga, di “sensibilità”.
Ciò detto, e mi scuso per l’asprezza, su quali film ricadrebbe la mia scelta? Su quelli che presentano (non che “rappresentano”) la quotidianità spesso invisibile del disabile, su quei film che raccontano la costruzione e la conservazione di un’identità non per forza avvertita come “sfortunata”. Difficoltosa, certo, ma presentata pienamente come un’identità, con la complessità che il termine veicola. Mi viene in mente, ad esempio, Paese del silenzio e dell’oscurità di Werner Herzog, un film che ormai ha quarant’anni, ma che continuo a pensare sia uno dei più adatti a parlare di disabilità.
Racconta la vita di Fini Staubinger, sordo-cieca (più precisamente sorda dall’età di 18 anni e cieca dall’età di 15) che fa da guida a Herzog in una struttura per sordo-ciechi a Monaco di Baviera. Lo trovo adatto per più ragioni: prima di tutto perché ha per soggetto una disabilità che, in realtà, è un deficit sensoriale, seppur gravissimo. Credo che il deficit sensoriale sia, almeno in prima battuta, più facilmente comprensibile da un pubblico di giovani. Che cosa significa non sentire e non vedere? Certo, non è sufficiente chiudere gli occhi, magari aiutandoci con le mani, o tapparci forte le orecchie, ma capiamo, concepiamo, immaginiamo che cosa significhi non poter vedere i volti che amiamo, i luoghi importanti, non poter sentire la voce dei nostri cari, o la musica che ci mette di buon umore. Adoro questo film anche perché credo sia un tentativo riuscito di riflettere sulle immagini del cinema e, assieme, di portarci a fare i conti con i nostri sensi ottusi dall’abitudine.
Pensi a quante volte il cinema ci ha presentato personaggi con deficit sensoriali giocando proprio sul corto circuito narrativo tra l’immagine mostrata, la parola o il suono uditi e tutto ciò che è precluso, dal punto di vista percettivo, al personaggio. Invece qui la nostra Fini riflette sulle sue immagini – immagini che, lo dice subito, vuole condividere con noi -, dice che essere sordi non significa silenzio totale ma sentire strani suoni, e che essere ciechi non significa buio ma strani colori. Con lei i sordo-ciechi accarezzano gli animali, vanno a visitare un orto botanico (con la raccomandazione di toccare piano i cactus), volano in aereo per la prima volta. Certo, dopo averci spiegato il Metodo Lormen per l’alfabeto tattile e digitale, Fini dice: «Se lascia la mia mano è come se fossimo lontani migliaia di miglia». Ma in tutto il film alla solitudine non è concesso alcuno spazio e domina un grande senso di normalità.
Ovviamente non è un unicum, ce ne sono altri, ma credo che in una classe inizierei proprio con questo film, seguito da Le pays des sourds di Nicolas Philibert, una pellicola che, direi, si spinge a definire una categoria: quella di “cinema silenzioso”.
È stato realizzato nel 1992, con il personale dell’Institut National des Jeunes Sourdes di Parigi ed è parlato nella Langue des Signes Français (LSF). Ne è nato un racconto in cui i gesti delle mani e le espressioni del volto hanno lo stesso valore di parole mute. Al punto che la critica definì un po’ troppo in fretta il professor Poulain, il maestro dei sordomuti nel film, “un mimo straordinario, che nell’infrangere le barriere dell’handicap arriva a vertici espressivi degni di Tati” (lo disse il critico cinematografico Tullio Kezich in un numero dell’epoca del “Corriere della Sera”). Un bel tributo, certo. Ma le lingue dei segni non sono pantomima: sono vere lingue visuali, con organizzazione lessicale e sub-lessicale, con meccanismi spaziali, dinamici, prossemici assolutamente peculiari.
Florent, uno dei piccoli protagonisti del film di Philibert, lo dice meglio di Kezich: “Per ascoltare, guardo“. Ecco perché Poulain non è Tati: la sua destrezza “architettonica” nell’esprimere il suo pensiero deriva dal fatto che la sua lingua si costruisce nello spazio, e che quello spazio, nel tempo del film, diventa il suo e in nostro spazio abitabile – anche se è uno spazio con mille sfumature che l’udente, il più delle volte, non riesce a cogliere. La sua lingua, cioè, ha una “struttura cinematica” intrinseca, se è vero che un segnante, come dice Oliver Sacks in Vedere voci, si comporta esattamente come un regista cinematografico.
Vi invito a immaginare questo film senza i sottotitoli per gli udenti: la loro assenza provocherebbe davvero un ribaltamento dei valori di norma e diversità! Ecco che cosa apprezzo in un film, e in un film sulla disabilità in particolare: il fatto che il contenuto, la storia, sia coerente con la forma, con il dispositivo scelto per raccontarla. E che il regista si faccia carico delle sue scelte con piena consapevolezza delle caratteristiche del mezzo e delle ricadute di questo mezzo sull’immaginario del pubblico».
Il fatto che il cinema si sia occupato spesso di disabilità non implica necessariamente che sia stato sempre all’altezza del difficile compito. Sempre in relazione alla rappresentazione della donna con disabilità, saprebbe indicarci qualche opera cinematografica alla quale, se potesse, assegnerebbe il poco ambito Razzie Awards (il premio per il peggior film) e le ragioni di tale assegnazione?
«Mmm… Ci sono tanti brutti film, su donne e uomini disabili. È possibile un ex aequo tra decine di titoli? A parte gli scherzi, detesto il patetismo e i film ricattatori. Non mi piacciono film come Risvegli o Rain Man, ad esempio… ma neppure quelli ideati programmaticamente per sconvolgere, tipo Idioti di Lars von Trier…
La scelta è davvero difficile. A quale film assegnerei il Razzie Award? Preferirei la qualità del film o la sua natura “esemplare” rispetto alla storia che racconta? Non saprei, anche se temo che privilegerei la qualità cinematografica. Non vorrei eludere la sua domanda, ma scelgo di non assegnare nessun Razzie, sia perché la selezione, proprio in ragione della difficoltà di circoscrivere il genere, dovrebbe muoversi su un’infinità di titoli, e dunque non mi sento all’altezza del gravoso compito, sia perché preferisco pensare che dietro alla scelta di affrontare tematiche complesse ci sia sempre il desiderio, da parte di sceneggiatori e registi, di rapportarsi ad esse in maniera problematica e ponderata».
Lei è caporedattrice di «PsicoArt. Rivista on line di arte e psicologia». Vuole raccontarci qualcosa rispetto alla rappresentazione della donna disabile nell’arte?
«Ho una formazione da storica dell’arte e questo, le assicuro, non è affatto un vantaggio. Gli storici dell’arte si appassionano molto a questioni filologiche. Ma certamente la storia dell’arte è piena di esempi visivi che riguardano la disabilità femminile. Penso qui alle rappresentazioni della Monstrua, ritratta con curiosa morbosità da Juan Carrero de Miranda, e oggi al Prado; penso ai nani e alle nane di Velázquez, alle donne barbute, alla “bambina pelosa” della straordinaria Lavinia Fontana; penso alle mirabilia umane del periodo rinascimentale. Ma penso anche alle donne e agli uomini rappresentati dal Pitocchetto, al volto dell’Alienata con la monomania dell’invidia di Géricault, alle schiere di melanconiche, da Dürer a Hayez e Munch, alla Sala delle agitate di Signorini; penso ovviamente alle tante immagini uscite dalla Salpêtrière di Charcot, dal Surrey County Asylum o, per restare in Italia, dal Manicomio di San Servolo e di San Clemente, dal San Lazzaro di Reggio Emilia. Penso anche agli autoritratti di Frida Kahlo, un’artista che non amo particolarmente, anche se è una star degli ultimi anni, alle splendide fotografie di Diane Arbus o a quelle programmaticamente scioccanti di Witkin.
Insomma, credo che l’arte visiva rappresenti la donna “diversa” in maniere differenti, tante quante sono quelle con le quali le varie epoche si rapportano alla diversità. Pensiamo a come nella seconda metà del Novecento la rappresentazione del disagio mentale sia spesso diventata stereotipa, d’effetto, facilmente lirica.
Credo sia necessario prestare sempre molta attenzione e tentare di comprendere che cosa si celi dietro la volontà degli artisti, in quella di affrontare la disabilità così come in qualsiasi altra tematica a forte impatto sociale. Solo in questo modo è possibile attuare scelte corrette e agire davvero per uscire dall’isolamento».
*Intervista già apparsa, con il titolo La rappresentazione della donna disabile nei film e nell’arte, nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), a cura di Simona Lancioni. Viene qui ripresa, con minimi riadattamenti, per gentile concessione del Coordinamento Gruppo Donne UILDM.
13 eventi, 12 pubblicazioni della collana Donna e disabilità, un centinaio tra articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, circa 80 segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, più di 450 segnalazioni bibliografiche e circa 600 risorse internet schedate: parlano da sole le cifre del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto attualmente da Francesca Arcadu, Annalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani, Gaia Valmarin e Marina Voudouri) ha deciso di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i suoi obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità (il nostro sito se n’è occupato con l’articolo disponibile cliccando qui).
L’indirizzo del Gruppo Donne UILDM è www.uildm.org/gruppodonne. Al repertorio di cui si è detto, si accede cliccando qui. Il Gruppo Donne UILDM è anche su Facebook (cliccare qui).