Forse non erravano gli antichi quando ritenevano vi fosse una forza intrinseca nel nome delle cose, le quali cose, per il sol fatto di essere nominate, acquisivano le attribuzioni insite nel loro nome.
Esaminiamo ad esempio la parola taglio, che naturalmente acquista significati diversi secondo i contesti nei quali è situata. Il termine in sé deriva da tagliare, ovvero separare, far più parti di una cosa sola. Ma anche ridurre, accorciare, regolare.
Nella grande fucina della politica, ove si fondono i nomi per dar loro significati nuovi, il termine taglio ha una connotazione essenzialmente economica e tale connotazione, carica di significati punitivi, è appannaggio di specifiche classi sociali, in particolar modo lavoratori dipendenti, pensionati e persone con disabilità.
Vero è che talvolta, in un raptus giustizialista, il termine viene usato anche per indicare la riduzione del numero dei Parlamentari e delle loro prebende, nonché di inutili carrozzoni e dei loro cocchieri, ma l’attuazione del provvedimento dovrà necessariamente essere preceduta dalla determinazione del sesso degli angeli e quest’ultima querelle dura da una quindicina di secoli.
Tornando però alle persone con disabilità, il taglio previsto dalla recentissima “manovra” (peggioramenti sempre possibili a parte, da determinarsi in manovre successive) si spoglia di ogni significato allusivo e sfumato: tagliare (e spaventosamente tanto) i fondi destinati all’assistenza, alla non-autosufficienza, alle pensioni di invalidità, agli assegni di accompagnamento significa semplicemente tagliar loro la gola.
*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).
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