Il 3% delle persone con disabilità nel nostro Paese ha come fonte principale un reddito da lavoro: un dato impietoso, che non merita troppi commenti, e che rende anche oggi quanto mai importante la nostra rilettura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – proposta grazie alla bella iniziativa denominata 10 giorni x i diritti umani, promossa dalla Tavola della Pace in occasione del 10 dicembre, Giornata Internazionale dei Diritti Umani – e che questa volta si occupa dell’Articolo 23, riguardante appunto il diritto al lavoro.
Come nei giorni scorsi, il commento è sempre quello di Antonio Papisca, direttore della Cattedra Unesco “Diritti Umani, Democrazia e Pace”, presso il Centro Interdipartimentale sui Diritti della Persona e dei Popoli dell’Università di Padova.
Articolo 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione.
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.
Il commento di Antonio Papisca
«Il contenuto di questo Articolo è ulteriormente specificato dagli Articoli 6, 7 e 8 del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966, dove è innanzitutto stabilito che le misure che gli Stati sono obbligati a prendere “per dare piena attuazione a tale diritto”, dovranno comprendere “programmi di orientamento e di formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo”.
Il messaggio che proviene dal Diritto internazionale è chiaro: il settore del lavoro non può essere lasciato al libero arbitrio del mercato, ma deve costituire oggetto di politiche pubbliche nel quadro di una più ampia programmazione di Stato Sociale; è inoltre stabilito che deve esserci “la possibilità eguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell’anzianità di servizio e delle attitudini personali“. La meritocrazia trova qui i parametri conformi a dignità umana, come tali prioritari rispetto a qualsiasi altra tipologia.
Il diritto umano al lavoro trova anche riscontro nella Convenzione Internazionale contro la Discriminazione Razziale, nella Convenzione Internazionale contro ogni Forma di Discriminazione nei Riguardi delle Donne, nella Convenzione Internazionale sui Diritti dei Bambini, nella Convenzione Internazionale sui Diritti dei Lavoratori Migranti e dei Membri delle loro Famiglie, nella Carta Africana sui Diritti dell’Uomo e dei Popoli e in tanti altri strumenti giuridici, internazionali e regionali-continentali [tra i quali anche la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in particolare all’Articolo 27, Lavoro e occupazione, N.d.R.].
Nell’interpretazione del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Economici, Sociali e Culturali, il diritto al lavoro è un diritto che inerisce ad ogni persona ed è allo stesso tempo un diritto collettivo. Esso comprende tutte le forme legittime di lavoro, dipendente o non.
La produzione di norme giuridiche internazionali in materia di lavoro ha il suo principale laboratorio nell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), con sede a Vienna. La sua Conferenza è formata da delegazioni nazionali “tripartite”, comprendenti i rappresentanti dei Governi, dei Sindacati dei Lavoratori, delle Organizzazioni Padronali. Alcuni organi interni di controllo sull’applicazione della normativa sono formati da persone indipendenti dagli Stati.
Tra le molte Convenzioni OIL, si segnala la numero 22, portante sulla politica dell’occupazione, la quale parla del diritto ad una “occupazione piena, produttiva e liberamente scelta”. Purtroppo questa prospettiva rimane molto lontana per milioni di esseri umani.
La disoccupazione e la mancanza di lavoro sicuro spingono i lavoratori a trovare occupazione nel settore informale dell’economia. Il vigente Diritto internazionale è molto deciso nello stigmatizzare sia il lavoro forzato sia il lavoro prestato in settori dell’economia informale. Il primo è definito dall’OIL come “qualsiasi lavoro o servizio esigito dalla persona sotto la minaccia di una qualsiasi penalità e per il quale la persona non si è offerta volontariamente”. Gli Stati sono obbligati ad abolire, vietare e contrastare qualsiasi forma di lavoro forzato, come anche prescritto dall’Articolo 5 della Convenzione sulla Schiavitù. Gli Stati devono altresì intervenire per ridurre quanto più possibile il numero di lavoratori che operano al di fuori dell’economia formale, obbligando i datori di lavoro a rispettare la legge e a dichiarare i nomi dei loro lavoratori, in modo da rendere possibile la garanzia dei loro diritti.
Gli Stati sono inoltre obbligati a proibire il lavoro dei minori di sedici anni.
E ancora, tra i loro obblighi, oltre a quelli di assicurare non discriminazione, pari opportunità ed eguaglianza, c’è quello di adottare misure che assicurino che le misure di privatizzazione non ledano i diritti dei lavoratori. In particolare, il Comitato delle Nazioni Unite afferma senza mezzi termini che “specifiche misure destinate a incrementare la flexicurity* dei mercati del lavoro non devono rendere il lavoro meno stabile o ridurre la protezione sociale dei lavoratori”.
Già, la flexicurity. Ci si può ubriacare (colpevolmente) di flexicurity, così come avvenne con la deregulation. Anche in sede di Unione Europea c’è il rischio che si istituzionalizzi il vizio della flexicurity.
Il Diritto internazionale dei Diritti Umani esige che, in tema di occupazione, si parta col piede giusto (anzi, obbligato), cioè dal diritto al lavoro come diritto fondamentale che è, allo stesso tempo, diritto alla piena occupazione e diritto allo Stato Sociale. Il diritto al lavoro come tale non ha pertanto nulla a che vedere con l’ideologia neoliberista e relative vischiose varianti.
Il diritto umano al lavoro è strettamente collegato ai cosiddetti “diritti sindacali”, a fondare e a far parte di sindacati. Il Diritto internazionale “riconosce” i sindacati, non parla invece di “partiti”, se non nel contesto regionale dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. Qui è il caso di ricordare che dal 1961 è in vigore la Carta Sociale Europea, più volte riformata, sulla cui applicazione veglia il Consiglio d’Europa, in particolare attraverso il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, organo formato da esperti indipendenti. Ad esso possono presentare reclami proprio le associazioni sindacali e le organizzazioni non governative.
La Dichiarazione universale non fa cenno allo sciopero. Ci pensa invece l’Articolo 8 (comma 1, lettera d) del citato Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, che impone agli Stati l’obbligo di garantire “il diritto di sciopero, purché esso venga esercitato in conformità alle leggi di ciascun Paese”. Il rinvio è dunque alla legge nazionale, la quale deve però essere conforme ai princìpi generali del Diritto Internazionale e considerare quindi lo sciopero quale articolazione connaturale al diritto fondamentale al lavoro; è appena il caso di sottolineare che l’esercizio di questo diritto deve avvenire nel rispetto di tutti gli altri diritti fondamentali, in uno spirito di alta responsabilità sociale.
Se ne dicono tante sui sindacati. Certamente, essi devono essere guidati da persone che abbiano nella mente e nel cuore i diritti dei lavoratori, e che non vengano a compromesso con istanze vetero-corporative. Si possono e si devono criticare quelle dirigenze sindacali che si sono burocratizzate o, più o meno palesemente, partiticizzate. Ma chiediamoci: se non ci fossero stati i sindacati, sarebbe stato possibile avviare la “civiltà del lavoro”? E se non ci fossero oggi, sarebbe possibile riprendere quel cammino?
Riflessione finale, forse troppo ovvia. L’Articolo 1 della Costituzione Italiana proclama che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. E se il lavoro non c’è? Senza fondamento(a) la Repubblica crolla. E se al posto del lavoro si mette il precariato o la flexicurity, quanto ne guadagna la statica della Repubblica?».
*Flexicurity è un termine inglese di recente conio (traducibile in italiano con il brutto termine di “flessicurezza”), composto da “flexibility” e “security”. Si può riferire in sostanza a un elevato livello di sicurezza occupazionale, tramite la flessibilità del lavoro.
I nostri primi quattro articoli, di questa serie di contributi (Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti, Vietato discriminare!, Il diritto alla ciitadinanza e La dignità integrale della persona) sono disponibili cliccando qui, qui, qui e qui.
Sulle questioni trattate nel presente testo, suggeriamo anche la lettura del recente contributo di Franco Bomprezzi, da noi pubblicato con il titolo Collochiamo al lavoro 50.000 persone con disabilità all’anno! (cliccare qui).
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