Qualche tempo fa, su queste colonne, è stato pubblicato un articolo che ha aperto interrogativi e riflessioni non indifferenti sul tema della disabilità. I due autori, Giorgio Genta e Dario Petri della Federazione Italiana ABC – bambini cerebrolesi – [l’articolo cui si fa riferimento, pubblicato dal nostro sito e rintracciabile cliccando qui, era stato però firmato a titolo personale, N.d.R.] espongono una riflessione assai preoccupante e propongono una riduzione degli aventi diritto all’assistenza e al sostegno economico sulla base di criteri del tutto discutibili.
Al termine di una ricerca condotta da Cecilia Maria Marchisio e Natascia Curto nella città di Torino [se ne legga in questo sito cliccando qui, N.d.R.], per raggiungere il fine di una riduzione della spesa pubblica, gli Autori propongono la nascita di un nuovo tipo di disabilità: quella gravissima.
In base alla Legge 104/92 (articolo 3, comma 3), il maggior livello di disabilità riconosciuta è quella grave, qualora «la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione».
Secondo questa definizione, la gravità non dipende dalla percentuale d’invalidità posseduta, anzi è valutata attraverso l’uso di parametri qualitativi e non quantitativi, in modo da sottolineare che non è legata al numero di azioni che la persona invalida non può più compiere, ma alla sua possibilità di inclusione nella società, di autorealizzazione, di riconoscimento di un’identità personale.
Per questo motivo la Legge 104 è molto democratica perché riconosce il pieno diritto alla dignità umana delle persone con disabilità. Infatti, sostenere che la disabilità è grave anche quando la persona non vede realizzati i suoi bisogni di inclusione sociale, di socializzazione, di realizzazione di sé, di autostima e di riconoscimento significa riconoscere alle persone disabili il diritto alla vita piena e non solo il diritto alla sopravvivenza (così sarebbe se la gravità fosse assegnata solo a chi non può mangiare e vestirsi in piena autonomia).
Per questo motivo le disabilità gravi sono molto eterogenee tra di loro: ci sono le disabilità intellettive e relazionali, le disabilità di ritardo mentale, le disabilità sensoriali e quelle motorie, tutte categorie che possono vedersi riconosciuta la gravità, qualora il livello della disabilità sia tale da richiedere l’assistenza continua, per sopperire alle difficoltà «nella sfera individuale o in quella di relazione».
Non ci sono, quindi, disabilità gravi più gravi di altre perché non viene, giustamente, fatta una scala dei bisogni più bisogni di altri.
È grave chi a causa della perdita totale della vista debba essere accompagnato quando esce da casa, perché è riconosciuto il bisogno di socializzazione e di inclusione alla pari con tutti gli altri; è grave colui che per tetraparesi deve essere imboccato per mangiare.
L’articolo di Genta [in realtà di Genta e Petri, N.d.R.] ha creato un precedente non indifferente su questo tema. Gli Autori intendono, all’interno della disabilità grave, “scorporare” una serie di disabili che secondo loro meriterebbero il riconoscimento di una disabilità gravissima: «tale definizione dovrebbe essere centrata sulla “complessità assistenziale”, evitando il riferimento a specifiche patologie, ed essere basata sull’innegabile assunto che anche una breve interruzione dell’assistenza può risultare molto rischiosa per una persona con disabilità gravissima». In poche parole, per ricevere assistenza e sostegno economico, bisogna essere in fin di vita.
Ma come mai questa necessità impellente di vedere riconosciuto giuridicamente un nuovo tipo di disabilità? Questa definizione è stata creata ad hoc in vista dei tagli del Governo sulla spesa pubblica, proprio con l’intento di “ridurre notevolmente il numero dei soggetti da tutelare”. In poche parole la cortissima coperta degli investimenti economici in questo settore dovrebbe servire almeno per coprire i gravissimi e le loro famiglie, ignorando bellamente i bisogni di tutti gli altri che fino a questo momento sono riconosciuti gravi.
Come risparmiare, dunque? Limitando le speculazioni? No. Controllando la qualità dei servizi? No. Eseguendo dei controlli sulle commissioni mediche che rilasciano i certificati? No. Favorendo la domiciliarità (si sa che l’assistenza in comunità o RSA [Residenza Sanitaria Assistita, N.d.R.] è molto più costosa per lo Stato rispetto all’assistenza domiciliare)? No. Per risparmiare riduciamo semplicemente il numero degli aventi diritto. Mi sembra proprio corretto e rispettoso nei confronti di chi fino al giorno prima era riconosciuto come un avente diritto e il giorno successivo, senza che la sua disabilità abbia subito riduzioni, sarebbe escluso da ogni prestazione sanitario-economica e di fatto escluso dalla società.
Analizzando la citata ricerca svolta da Marchisio e Curto, Genta [in questo caso il riferimento non è all’articolo finora citato di Giorgio Genta e Dario Petri, ma ad un altro articolo da noi pubblicato, a firma di Giorgio Genta, rintracciabile cliccando qui, N.d.R.] fa un calcolo eventuale del risparmio economico qualora fosse riconosciuta giuridicamente la disabilità gravissima. Sulla base dell’indagine, effettuata sul territorio di Torino, delle 630 persone seguite dal sistema assistenziale, solo 38 sono risultate appartenere a questa nuova categoria. Rapportando questo numero a livello nazionale, ci sarebbero circa 4.000 persone con disabilità gravissima che secondo gli Autori [in questo caso, come detto, l’Autore, N.d.R.] sarebbero gli attuali veri bisognosi di cura e assistenza.
E tutti gli altri? Che fine dovrebbero fare? A questo proposito gli Autori non dicono nulla; semplicemente, secondo loro, una persona con disabilità grave, in nome dei tagli al settore socio-assistenziale, dovrà di punto in bianco adattarsi a non ricevere più nulla perché c’è qualcuno che è stato riconosciuto più grave di lui.
Un attacco così frontale alla Legge 104, che tutela tutti, in nome di un necessario livellamento della spesa pubblica, comporterebbe un arretramento della visione dell’assistenza come qualcosa che va riconosciuta solamente quando la persona ha bisogno di aiuto nel soddisfacimento dei bisogni primari. Vengono così declassati con un colpo di spugna tutti gli altri bisogni, come se fossero meno fondamentali per il benessere psicofisico dell’individuo.
Va bene mangiare ed evacuare, ma la vita di una persona con disabilità dev’essere solo questo? E tutti i disabili gravi che sono autonomi nel mangiare e nell’evacuare sono anche autonomi nel resto dello svolgere della giornata? Chi è in grado di decidere di andare al cinema può poi realmente andarci (mezzi pubblici) e vedere il film (accessibilità)? Chi è in possesso di capacità lavorative è poi effettivamente inserito nel mondo del lavoro? Domande che da parte degli Autori non hanno ricevuto risposte, ma con le quali voglio evidenziare il gap che c’è tra ciò che la persona disabile potrebbe fare e ciò che realmente le è concesso di fare, a fronte di una società incapace di includere.
Eppure, questa tiritera sul riconoscimento giuridico della disabilità gravissima prende spazio nei media e avvicinandoci sempre più al momento in cui Monti & Co. affronteranno l’applicazione del terribile articolo 5 della recente Manovra [Legge 214/11, articolo 5, “Introduzione dell’ISEE per la concessione di agevolazioni fiscali e benefici assistenziali, con destinazione dei relativi risparmi a favore delle famiglie”, N.d.R.] potrebbero cogliere al balzo una richiesta simile: con una semplice definizione, cancellerebbero la maggior parte degli aventi diritto all’assistenza e al sostegno economico.
Ma quale sarebbe il risultato? Sarebbe una cancellazione in toto della disabilità grave che, nonostante in alcuni casi sia in grado di autodeterminarsi, ovvero di decidere della propria vita, ha bisogno continuo di assistenza per svolgere una vita riconosciuta come dignitosa: un disabile grave, con la SLA [sclerosi laterale amiotrofica, N.d.R.], può chiedere di bere, ma se non c’è nessuno a darglielo la sua autodeterminazione è inefficace. Un disabile grave può studiare e laurearsi, ma se durante i colloqui di lavoro i disabili gravi sono esclusi a priori perché la loro disabilità è troppo evidente, non è servito a nulla l’impegno scolastico e non potrà mantenersi. Un disabile grave può decidere di acquistare e imparare a usare un bastone per ciechi, ma se nella città non ci sono dei segnali a terra che lo aiutano con il percorso, non sarà il bastone a ridurre il suo handicap.
Quello che non mi piace in queste proposte è la superficialità con la quale si giudica la disabilità, prendendo come unico punto di riferimento la propria storia personale e valutandola come la peggiore di tutte le altre che, di conseguenza, non meriterebbero più un sostegno socio-economico. Si tratta di una conseguenza inevitabile, quest’ultima, dei tagli e visto che la spesa sociale non può essere aumentata, c’è chi chiede di direzionarla verso qualcuno togliendo a qualcun altro.
Il mio punto di vista invece è differente. Ritengo che ogni disabilità che assume il carattere di gravità lo sia perché ne ha pieno diritto, anche dal punto di vista del riconoscimento di bisogni che magari al primo impatto non possono sembrare essenziali.
Non può e non dev’essere l’autonomia un nuovo criterio classificatorio, perché l’autonomia di ciascuno dipende strettamente dalla capacità inclusiva della società in cui vive, come la Classificazione ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] sottolinea: «Ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale».
Ci sono persone con disabilità grave che in casa sono autonome, ma che a causa della mancanza di servizi di trasporto (o del loro costo eccessivo), della presenza di barriere architettoniche e dell’indifferenza della gente, trascorrono la vita chiuse in casa, senza lavorare, senza compagnia. Come si può ritenere che il bisogno di inclusione sociale di queste persone sia un bisogno poco importante da decidere che, siccome riescono a mangiare e vestirsi in modo autonomo, non hanno diritto all’assistenza e al sostegno economico, in poche parole a una vita dignitosa?
*Testo già pubblicato da «24Emilia», con il titolo I gravissimi non esistono, e qui ripreso, con lievi riadattamenti al contesto, per gentile concessione.