È un libro che sta facendo indubbiamente parlare, quello pubblicato da Massimiliano Verga (Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, Milano, Mondadori, 2012), docente di Sociologia del Diritto all’Università Bicocca di Milano, che lo ha dedicato al figlio di 8 anni, elaborando il testo come una raccolta di pensieri e immagini quotidiane su che cosa significhi vivere accanto a una persona con grave disabilità.
E anche il nostro sito se n’è già occupato recentemente – come si può leggere in calce – e ora continua a farlo, con questo contributo di Igor Salomone, autore a propria volta, qualche anno fa, di un volume intitolato Con occhi di padre, del quale è uscita nei giorni scorsi la terza edizione ampliata.
È una scrittura tesa e potente, quella di Massimiliano Verga. Parole che sbattono in faccia scene di vita quotidiana ai limiti del tollerabile. Un album di fotografie, di istantanee crude e violente provenienti dal fronte. Guardi la prima e distogli lo sguardo dopo un istante, passando alla successiva nella speranza di una tregua. Ma non c’è via di scampo. Una dopo l’altra tirano per il bavero il Lettore, costringendolo a guardare sino all’ultima pagina. E a vedere.
Questa è la vita accanto a una persona disabile, sembra dirti dritto negli occhi l’Autore, e non ci sono cazzi. Piantiamola di prenderci in giro e di raccontarcela. Se sul fronte non ci siete mai stati, toglietevi quel mezzo sorriso di finta empatia e fatevi un giro per la piazza nella quale abitate: scoprirete che il fronte è lì, al vostro fianco, sotto i vostri piedi, davanti ai vostri occhi, mentre pensavate fosse lontano, altrove, anzi, mentre neppure sospettavate esistesse una guerra, solo per il fatto che non siete chiamati a combatterla.
Zigulì, la mia vita dolceamara con un figlio disabile, al primo impatto non sembra neppure un libro. Si presenta come quelle vecchie scatole di cartone riempite alla rinfusa di foto, che all’occorrenza ripeschiamo una a una sfruculiando con le mani. Anche Zigulì si può sfruculiare pescando a caso. Lo vendessero a capitoli, li si potrebbe mettere in un vaso e poi agitarli prima dell’uso, ricombinandoli tutte le volte. Ma non è così. Il libro di Verga è uno di quelli che apri, leggi la prima pagina e poi non puoi smettere perché col fiato corto devi vedere come va a finire. Solo che non va a finire da nessuna parte. Zigulì non è un viaggio, è una giostra che gira su se stessa e a ogni giro sai che un altro giro è andato e, per quanto te ne manchino ancora tanti quanti una vita, sai che è uno di meno.
Eppure è un libro sull’amore. Sull’amore e l’intera gamma di sentimenti che trascina con sé l’infrangersi dei sogni e il disgregarsi del futuro. Le parole di Verga distillano con un’efficacia straordinaria rabbia, cinismo e infinita tenerezza. Riescono a ribaltarti nel giro dei pochi capoversi che compongono i capitoli, sballottandoti tra la disperazione e la leggerezza, la dolcezza e la ferocia, il sarcasmo più amaro e l’esistenza possibile che lasciano intravedere.
Ma Zigulì è anche un libro reticente. Nonostante l’estrema esposizione di una vita, la nitida crudezza delle immagini ad alta definizione, la nudità delle fatiche e dei sentimenti. O forse proprio per questo. Occorre riaversi dall’abbaglio che produce una verità sparata senza veli, per accorgersi che quell’abbaglio getta un velo su altri pezzi di verità. Stropicciandosi gli occhi, vien da chiedersi che strano mondo disegni Massimiliano Verga in queste pagine. Un mondo unidimensionale costruito sull’esclusività del rapporto tra un padre e il figlio disabile. Tutto il resto è ambiente dal quale attingere motivi di rabbia e frustrazione, spesso, e occasioni d’aiuto, talvolta. Anche di soddisfazione alternata allo sconforto, ma si tratta solo dell’Inter.
Si può descrivere la propria paternità, raccontandola un figlio per volta? È possibile cercar d’essere un padre migliore, senza capire cosa hai imparato essendo figlio di un padre, anzi di due e contemporaneamente, come confessa e poi immediatamente tralascia Verga? Si può parlare del proprio esser padre senza incrociare lo sguardo con quello di altri padri al di là del “campionato di sfiga” cui tutti partecipano con risultati ovviamente diversi? Si può esporre la propria paternità senza chiedersi dove finisce il ruolo paterno e dove inizia la propria condizione di uomo? E come tra loro si parlino? La risposta è sì, si può. Ed è proprio ciò che fa Zigulì, lasciando però il nostro ascolto sospeso per aria.
Questo libro, alla fine, è un paradosso: è la massima esposizione pubblica di una paternità raccontata in totale solitudine.
Zigulì non dà risposte né vuole darne. Ma non apre neppure domande, tranne quelle che riusciamo a porci, se, dopo averne accolto le urla, gli schignazzi e le preziose carezze strappate agli schiaffi, proviamo ad ascoltarne i silenzi. Da qui ognuno può poi partire per cercar risposte, ringraziando in cuor suo il poderoso calcio nel culo regalato da quelle pagine.
*Autore del libro Con occhi di padre. Diario di un amore ai confini del possibile (Troina – Enna – Città Aperta, 2006) del quale è recentemente uscita (Spini di gardolo – Trento – Erickson, 2012) la terza edizione ampliata (Con occhi di padre. Viaggio intorno a quel che resta del mondo). Il nostro sito se n’è già occupato più volte (se ne legga ad esempio cliccando qui).
Il presente articolo è già apparso nel blog-sito di Salomone «Cronachepedagogiche», con il titolo Zigulì. L’urlo, le domande e la solitudine, e viene qui ripreso per gentile concessione.