Diverso da chi? Un disabile prova stimoli, sensazioni e sentimenti, forse in alcuni casi più semplici, ma non meno profondi. Un disabile ha pensieri, forse segue logiche proprie nei ragionamenti, ma pensa e riflette. Un portatore di handicap vuole realizzarsi nel lavoro esattamente come qualsiasi donna e uomo.
Diverso da chi, quindi? Da standard o stereotipi, da persone codificate dalla società, ingessate dentro armature troppo strette, fatte di regole e usi sociali. Oppure simile a qualunque uomo e donna che vuole amare, lavorare, trascorrere momenti di felicità e svago con gli amici, che vuole realizzarsi nella vita, sentirsi importante, essere un aiuto alla società o semplicemente non essere considerato un peso. L’invito ad abbandonare le logiche delle diversità, quella che esclude non quella che ci rende unici, arriva proprio dal mondo del lavoro.
«Cominciamo a non parlare di diversità, ma di persone», attacca deciso Giuliano Calza, direttore Formazione, Sviluppo e Comunicazione Interna di Indesit Company. «Io, portatore di handicap [paraplegico N.d.R.], non sono diverso, ma mi sento tale quando qualcuno mi mette in difficoltà per esempio parcheggiando sugli scivoli dei marciapiedi» [un’intervista completa di Simone Fanti a Giuliano Calza è pubblicata nel blog Disabili: una vita a quattro ruote di «Oggi.it» ed è disponibile cliccando qui, N.d.R.].
La reale diversità nasce dunque quando ci sono impedimenti alla realizzazione di qualcosa. Piccole vittorie e grandi frustrazioni accompagnano la vita di tutti noi, e anche in questo non c’è differenza con chi si considera “normale”. Provate a pensare alla rabbia che provereste se un semplice gradino, spesso abbattibile con poche decine di euro, vi impedisse di realizzare un vostro desiderio. Ecco come Annamaria D’Anello, una bella ragazza di 30 anni, racconta con delicatezza questa frustrazione: «Dell’esperienza universitaria [e la laurea in Legge, N.d.R.] conservo bei ricordi fatti di lotte vinte per l’abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di rapporti affettivi nati tra una lezione e l’altra, che durano ancora nonostante siano passati diversi anni. Il vero scontro con la realtà è stato dopo aver conseguito il tanto sospirato titolo di studio, quando ben contenta e soddisfatta del sogno realizzato ho iniziato a cercare lavoro. Ahimè… è stato l’inizio di una serie di no detti e non detti».
«Il vero nodo è la mancata accessibilità dei luoghi esterni allo studio in cui dovevo recarmi per svolgere la pratica», prosegue Annamaria. E poi la diffidenza verso la diversità: i tanti tentativi e concorsi a cui «l’animo ambizioso che mi contraddistingue, mi incitava a partecipare. Sempre con esito negativo. Stesso scenario per i colloqui di lavoro che, già al primo impatto con la carrozzina, facevano sospettare una risposta scontata» [un servizio interamente dedicato da Simone Fanti ad Annamaria Anello è disponibile nel citato blog di «Oggi.it», Disabili: una vita a quattro ruote, disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Disabilità e lavoro, un binomio che fatica a decollare. Da una lato le aziende che cercavano candidati, e dall’altro disabili a caccia di una rivincita sociale e personale, ottenibili anche attraverso l’inserimento nel mondo del lavoro. In mezzo agenzie di collocamento tradizionali e gli uffici delle risorse umane non sempre in grado di valutare i candidati o semplicemente di trovarli.
Negli ultimi mesi diverse iniziative e alcuni imprenditori hanno scoperto nel collocamento dei disabili una ragione di vita e uno strumento per fare affari senza tralasciare il lato umano. Perché, come racconta Daniele Regolo, fondatore del sito jobdisabili.it, «per molti la società di collocamento è anche un centro di ascolto. Ricevo, ogni giorno, tanta posta da parte di persone che trovano in me, per via del comune denominatore della disabilità – sono un non udente -, un interlocutore privilegiato al quale affidare confessioni, sfoghi, ma anche speranze» [di Daniele Regolo si legga sia nel citato blog di «Oggi.it», Disabili: una vita a quattro ruote e anche nel nostro sito, cliccando rispettivamente qui e qui, N.d.R.].
Speranze spesso deluse. Le cifre parlano chiaro: il tasso di occupazione delle persone con disabilità è pari al 19,3%, mentre per le persone senza disabilità si aggira intorno al 55,8% (fonte Istat). Al 31 dicembre 2009, ultimo dato disponibile, risultavano iscritte al collocamento obbligatorio 751.258 persone di cui il 49% donne (fonte Isfol-Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2010).
Dove si inceppa il meccanismo? «Si insiste – aggiunge Regolo – per un approccio esclusivamente economico al problema: l’azienda che assume può contare su sgravi fiscali. Credo sia necessario, anche, un approccio culturale: l’azienda assume un candidato disabile perché intende investire su di lui».
Sia “iniziative spot” come Diversitalavoro, che sembra aver aperto la strada a un nuovo metodo, ma che resta relegata ai grandi agglomerati urbani [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.], sia i siti di consultazione delle offerte di lavoro come Lavoroperdisabili.it o Handimpresa stanno pian piano colmando il gap. Anche perché se è vero che con la crisi le aziende assumono solo potenziali talenti, non è detto che non ce ne siano tra i portatori di handicap.
*Il presente testo, qui riproposto con alcuni minimi riadattamenti al contesto, è stato pubblicato da InVisibili, blog del «Corriere della Sera», con il titolo Nel lavoro (e nella vita) cancelliamo la parola diversità. Viene qui ripreso (immagini comprese) per gentile concessione dell’Autore e del blog.