Cosa fa una pietra quando la si lancia nelle acque putride di una stagno? Muove le acque! Ed è quello che ha fatto il noto giornalista Gian Antonio Stella, con un articolo sul quotidiano per cui scrive [«Corriere della Sera»; l’articolo di cui si parla è visionabile cliccando qui, N.d.R.] dal titolo emblematico: I disabili (veri) dimenticati dallo Stato. In esso si parla anche di sclerosi multipla e di autismo e si snocciolano dati per nulla scontati, che provengono da una ricerca del Censis, promossa dalla Fondazione Cesare Serono [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, all’articolo di Liana Baroni, intitolato Autismo: la famiglia italiana «tiene» ancora, N.d.R.], che dice ad esempio che una persona affetta da autismo richiede ogni giorno 17,1 ore di assistenza. Tale fatto ha un impatto sulla famiglia devastante. Un membro – di solito la madre – nel 25,9% dei casi lascia il lavoro per accudire il figlio e un altro (23,4%) chiede il part-time, il che vuol dire che quasi una donna su due rinuncia al lavoro o se lo riduce per accudire il figlio autistico. Ancora, dice il Censis, le ore di terapia cognitivo-comportamentale necessarie a queste persone ad imparare a vivere nella nostra società sono in media ogni settimana 5,2, delle quali 3,2 a carico della famiglia e solo 2 dello Stato.
La conclusione del Censis è che lo Stato ignora il problema, scaricandolo interamente sulle famiglie.
Ricordo che una famiglia normalmente non è “attrezzata” per avere un figlio disabile e nello specifico autistico; si aspetta al contrario un figlio “normale” e solo dopo aver notato qualcosa di strano nel comportamento del piccolo, si mette in cerca di professionisti che possano fare una diagnosi. Per avere una diagnosi i tempi sono lunghi – anche se in questi ultimi anni la situazione è migliorata – ma comunque il 45,9% degli intervistati, su un campione di 302 famiglie, ha dovuto attendere da uno a tre anni.
Le terapie per l’autismo sono poi le più disparate: basta andare in internet e digitare la parola autismo per trovare i rimedi più bizzarri e lontani da ogni evidenza scientifica, che con disinvoltura promettono la guarigione del paziente, naturalmente dietro lauto pagamento. Nella ricerca di cui si è detto, circa il 50% degli intervistati si dice tuttavia favorevole agli interventi cognitivo-comportamentali, che sono poi quelli consigliati anche dalla Linea Guida pubblicata recentemente dall’Istituto Superiore di Sanità [“Trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e adolescenti”, N.d.R.].
La scuola ha un grande ruolo nell’integrazione dei ragazzi con autismo, ma naturalmente ci vuole personale preparato perché la buona volontà o l’esperienza disgiunta dalla conoscenza non solo non incidono, ma possono fare danni.
Terminato comunque il ciclo scolastico, i giovani adulti con autismo diventano solitamente invisibili. Solo il 13,2% frequenta un centro diurno, mentre gli altri sono a casa, dove per lo più perdono quelle capacità di socializzazione imparate a scuola.
Si torna quindi alla famiglia, che è lasciata sola e che con il passare del tempo guarda al cosiddetto “dopo di noi” con apprensione sempre maggiore. Questa condizione di solitudine è dovuta anche alla scarsa informazione sulla sindrome che vi è fra la gente, per cui è anche difficile per una famiglia trovare qualcuno che capisca di cosa si sta parlando, senza limitarsi alla pietà. L’indagine del Censis e della Fondazione Serono, infatti, dice che gli italiani hanno una vaga idea dell’autismo, che solo una metà degli intervistati sa ad esempio che le cause sono di natura genetica e che se si approfondisce il tema, si cade inesorabilmente negli stereotipi. Ad esempio, i nostri concittadini pensano che le persone con autismo siano quasi sempre dei “geni in matematica, musica e arte”, cosa che in generale non è assolutamente vera, ma che i media e alcuni film di successo hanno invece accreditato.
E veniamo in ultimo ai costi. In maniera progressiva negli anni sono stati tagliati i fondi statali per l’handicap. Dal 2008 al 2013 il Fondo per le Politiche Sociali è passato da 929,3 milioni di Euro a 44,6, quello per l’Autosufficienza da 300 milioni a zero. Il carico sulla famiglia, quindi, non è solo psicologico, ma anche banalmente materiale.
Chiudiamo perciò con un paradosso: se le famiglie decidessero di richiedere tutte insieme per i loro congiunti una sistemazione in una residenza a vita, quello che nel gergo si chiama “un dopo di noi”, che cosa succederebbe? Di quante di queste strutture ci sarebbe bisogno? Quanto personale si dovrebbe assumere per una sorveglianza 24 ore su 24 e con quali costi per lo Stato?
Appare pertanto evidente che la famiglia, per amore del proprio congiunto, dà una grossa mano allo Stato, scegliendo, volente o nolente, di accudirlo in casa fino a quando può. Se però le cose stanno così, uno Stato che vuole essere civile e democratico non può certo lasciare sole queste famiglie.
*Direttore generale della Fondazione Bambini e Autismo ONLUS di Pordenone.
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