È possibile organizzare eventi in tema di moda e disabilità senza ghettizzare o strumentalizzare la persona disabile?
Mettendo a fuoco il fenomeno con un grandangolo, potremmo chiederci: è possibile fare comunicazione sulla disabilità senza incorrere in stereotipi e strumentalizzazioni? La risposta è sicuramente affermativa. Proprio in questi giorni Franco Bomprezzi, direttore responsabile di Superando.it, raccontava un’esperienza positiva relativa a una puntata del programma di Canale 5, Matrix.
Se dunque questa buona comunicazione è possibile in TV, niente lascia supporre che essa non sia possibile in altri settori, e dunque anche in quello della moda.
Poste queste premesse, sono certamente condivisibili le perplessità di chi sostiene che creare “concorsi riservati” a determinate categorie di disabilità possa essere letto come «un terribile modo per dire a quelle persone che non possono essere ammesse e non possono tentare di partecipare ai tradizionali concorsi di bellezza», e circa la considerazione che iniziative come ad esempio la sfilata Modelle & Rotelle sembrano rispondere maggiormente all’esigenza di visibilità delle agenzie organizzatrici che a quella di connotarsi come eventi solidali. Ciò nonostante, non è auspicabile affrontare queste problematiche rinunciando a promuovere eventi tesi a includere nel settore della moda le persone disabili che lo desiderano. Più opportunamente sarebbe corretto lavorare per correggere le distorsioni, se e quando vengono riscontrate. Ecco due esempi, uno ipotetico, l’altro reale.
Se alcune persone disabili provano a proporsi alle agenzie di moda e vengono respinte in ragione della loro disabilità, è legittimo che esse scelgano di organizzare un “evento dedicato”, ma invece di presentare questa soluzione come un percorso libero e “naturale” per una persona disabile, potrebbero connotare quell’evento come l’esito di una discriminazione subita. In tal modo l’iniziativa in questione non potrebbe più essere letta come l’accettazione di una situazione ghettizzante, ma verrebbe recepita per quello che è: un atto di denuncia.
Il messaggio che ne scaturisce suona così: «Ci piacerebbe tanto partecipare da protagonisti/e agli eventi di moda, ma veniamo sistematicamente respinti/e. Allora continueremo a mostrare la nostra bellezza anche in luoghi distinti/separati perché non abbiamo motivo di vergognarci dei nostri corpi e del nostro aspetto, e anche per denunciare la discriminazione a cui siamo soggetti/e». In questo modo la persona con disabilità non si connota più come soggetto passivo. Infatti, se da un lato è vero che subisce una discriminazione, è parimenti vero che è consapevole di subirla, che si oppone ad essa denunciandola, e che rilancia la propria immagine in modo assertivo, proponendo un canone di bellezza non omologato.
Rimanendo poi nel settore della promozione della femminilità e della bellezza della donna disabile, è degna di attenzione l’iniziativa Donne che Vincono, il calendario foto-biografico promosso dall’Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro (ANMIL), dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) e da Miss Italia, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla tutela della salute delle donne sul luogo di lavoro.
Esso è stato realizzato con le immagini della famosa fotografia italiana Tiziana Luxardo. In questa iniziativa, dodici donne che hanno riportato una disabilità in seguito a un infortunio sul lavoro posano accanto e insieme ad altre dodici donne che hanno partecipato al Concorso di Miss Italia. Le fotografie sono molto belle e sono integrate dalle storie delle donne infortunate. Queste ultime non sfigurano affatto accanto alle Miss. Inoltre, la circostanza che la disabilità di queste donne sia insorta come conseguenza di un evento incidentale, pone la disabilità stessa come una questione che riguarda tutti, come un fatto che può capitare nella vita di ognuno… alzi la mano chi si sente immune da incidenti (tutte le fotografie di Donne che Vincono sono visibili cliccando qui).
Non sembra insomma di scorgere in questa iniziativa un qualche tipo di strumentalizzazione della donna disabile. Sembra invece che ci sia molta attenzione alla dignità e alla storia delle persone.
Un’altra visione stimolante del fenomeno in questione si ottiene calando la tematica Moda e disabilità all’interno della più ampia riflessione sulla strumentalizzazione del corpo della donna. Ed è questa la prospettiva utilizzata da Barbara Pianca in una vibrante riflessione pubblicata anch’essa dal presente portale (Forse proprio le donne con disabilità potrebbero rompere certi schemi), che ha il merito di non cadere nella trappola che spesso tendono alcuni media quando trattano questo tema: quella cioè di contrapporre “donne perbene” a “donne permale”; donne con tacco dodici a donne senza tacco; donne belle e sciocche che si fanno strumentalizzare a donne poco attraenti e competenti per ripiego; donne dalla sessualità disinibita a moraliste.
Chi denuncia la strumentalizzazione del corpo della donna non intende dividere le donne in “buone e cattive”, intende invece contrastare il dilagare nel nostro Paese di un modello femminile degradante. Non che gli altri Paesi siano esenti da manifestazioni di questo tipo, ma in nessuno di essi questo fenomeno ha assunto le proporzioni che ha raggiunto in Italia.
I corpi (tutti i corpi) non hanno in sé niente di vergognoso e di volgare e il problema non è certo quello di mostrarli o di non mostrarli, il problema è invece la continua e massiccia rappresentazione (in TV, nei giornali, nella pubblicità…) di donne ridotte all’unica dimensione di “oggetti sessuali”.
Il corpo non è un “oggetto” qualunque. In esso si realizza la sintesi paradossale tra avere ed essere: noi abbiamo un corpo e contemporaneamente siamo il nostro corpo. Se trattiamo il corpo come una cosa, stiamo trattando come una cosa anche la persona incarnata in esso: questo non può e non dev’essere accettato.
Dunque non sbagliano le donne (disabili e non) quando curano la propria persona, quando scelgono come vivere la propria sessualità, quando decidono quale idea di bellezza intendono promuovere e valorizzare, quando valutano se stanno meglio in jeans o in minigonna, coi tacchi o in scarpe da tennis, quando ambiscono a lavorare nel mondo dell’immagine… non c’è niente di sbagliato in tutto questo, se e fino a quando la persona verrà considerata nella sua interezza. Se e fino a quando non saremo obbligate a conformarci a modelli scelti da altri.
Ci sarà un grande avanzamento culturale il giorno in cui la nostra natura di persone incarnate ci renderà capaci di riconoscere e apprezzare la bellezza di un corpo diverso e quella della persona che ci abita dentro. Quel giorno, ne sono certa, saremo tutte un po’ più libere.