Il discorso sulla strumentalizzazione del corpo della donna è lungo, profondo, tortuoso e a tratti quasi “disperato”. Qualche anno fa, il documentario Il corpo delle donne di Lorella Zanardo – con Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù – ha letteralmente spopolato, regalando agli Autori un successo che li ha portati ad andare in giro per le scuole e in altri luoghi di aggregazione e a scrivere un libro per la Feltrinelli.
Vuol dire che il tema interessa, “prende allo stomaco” molte donne e non solo le donne. Nel documentario si mostra quello che di brutto c’è in quest’Italia “televisiva”, fatta di soubrette mezze nude e di pubblicità scosciate, svestite, scollate. Da aggiungere – e non certo a gloria – c’è che questo fenomeno è quasi tutto italiano. Non che manchino altri Paesi dove il corpo della donna viene esibito come un oggetto – vedi la Francia – ma ciò non accade ad esempio nel Nord Europa, e se parli con una newyorkese delle veline, ti guarda con due occhi così.
Da loro le organizzazioni delle donne “se li mangiano”, programmi televisivi del genere. Pur con tutte le contraddizioni dell’industria hollywoodiana e dello star system in generale.
Alle donne piace piacere, e chi lo nega. È un istinto legato alla tensione riproduttiva innata nella specie. Ma svendersi è un’altra cosa, significa perdere il contatto con il proprio corpo anziché appropriarsene. Soprattutto, la sensualità è un’altra cosa, è fatta di capacità di essere incarnate e di vivere nei sensi. È un’energia, una vibrazione, una forza che emana la donna consapevole di sé.
C’è una danzatrice italiana, il suo nome è Giulia Mion, che propone un percorso intitolato Danza della Dea, inserendosi in una visione che ha a che fare con la percezione sacra del corpo femminile. Dico questo perché il documentario Il corpo delle donne lavora in negativo, condannando quello che di brutto in quest’Italia c’è.
Uno potrebbe dire: ma allora come faccio, non posso più mettermi una minigonna o non posso più fare la modella, altrimenti vuol dire che supporto una visione svilente del modello femminile? Certo che no, non è questo il punto. Il punto è trovare il coraggio di sé, e di riferimenti per approfondire questo percorso ce ne sono tanti. Ci sono donne che dedicano la loro vita a questi argomenti. Alla Bellezza come capacità di emanare una luce.
Ho scritto fin qui e non sto ancora parlando di disabilità. Perché le donne sono donne e il discorso sulla strumentalizzazione del nostro corpo ci riguarda tutte.
Certo, il corpo delle donne con disabilità ha delle caratteristiche peculiari e viene recepito dal mondo dell’immagine in modo particolare. Per lo più viene snobbato, come racconta l’aspirante modella Cinzia Rossetti, che con il suo book fotografico aveva sollevato l’attenzione di qualche agenzia di moda, salvo poi venire scaricata una volta dichiarata la propria disabilità (se ne legga in questo sito cliccando qui). Ma può anche venire sfruttato o manipolato.
In effetti a volte sembra che in questi ambiti la donna con disabilità (non tutte, alcune) corra un passo indietro rispetto alla donna senza disabilità (non tutte, alcune), cercando di raggiungerla. Per quella con disabilità fisica è un obiettivo inserirsi nel mondo dell’immagine, perché vuole sentirsi uguale a tutte le altre anche dal punto di vista del piacere di mostrare il proprio corpo.
Una peculiarità di Modelle & Rotelle sta proprio nell’aver messo a sfilare insieme modelle professioniste e donne in carrozzina, sottolineando ancor di più l’allineamento, l’integrazione. Un’integrazione che è anche un po’ inclusione, quando la donna con disabilità si inserisce nel mondo dell’immagine a suo modo, portando le sue caratteristiche specifiche, indossandoselo “a sua misura”. Intanto, però, le donne che del mondo dell’immagine fanno già parte (alcune) danno questo dato per acquisito e riflettono sulla possibilità di andare oltre. Lo fanno anche quelle che pur non facendone parte lo analizzano con spirito critico.
Il discorso della “salsa mediatica” delle iniziative solidali – mi riferisco sempre all’interessante stimolo offerto dall’articolo di Marta Pellizzi – è un discorso serio che ha a che fare con la dignità umana e che, in quanto tale, ancora una volta comprende tutte le situazioni e non solo quelle che hanno a che fare con il mondo della disabilità. Anche perché qualcuno allora potrebbe dire: perché posso pubblicizzare un’iniziativa commerciale con un linguaggio accattivante e invece nella campagna solidale devo restare sui temi sociali senza confondere i piani? Non è discriminazione anche questa? E si entrerebbe in un giro che non finisce più.
Quanto ai concorsi di bellezza “riservati”, chiedo a Marta: ma il punto è non farli proprio, questi concorsi, oppure farne di “misti”, dove la gara si sposti su altri piani? E su quali? Perché a Miss Italia, ad esempio, le ragazze mostrano anche delle “piccole abilità”, rendendosi per molti versi ben più ridicole di prima, o comunque non spostando il punto centrale. Che, secondo me, è cercare una strada che prescinda dalle categorie e vada nel senso della dignità umana e della sacralità (niente a che fare con la religiosità) del corpo.
E forse le donne con disabilità – proprio per la loro specificità corporea – hanno in sé, in potenza, la forza dirompente di rompere degli schemi terribili e violenti che oggi tengono incatenate molte di noi, alienandoci dai nostri corpi.