Le persone che soffrono di una patologia o di un disturbo cronico sono spesso preoccupate della reale efficacia delle proposte che vengono loro fatte, specie se ciò comporta un certo sacrificio. Inoltre, quando gli eventuali risultati si possono vedere solo nel lungo periodo, è ancora più difficile decidere se “vale la pena”, perché i risultati stessi non sono immediatamente riscontrabili. A volte, infatti, ci si accorge solo molto tempo dopo della reale utilità di una certa attività, magari quando si è già speso tanto tempo, risorse e danaro.
Per fronteggiare questo genere di incertezze, poi, le persone ripetono a volte ciò che hanno visto essere stato utile ad altri, ma spesso le differenze individuali rendono arbitrari alcuni accostamenti.
Utilizzerò dunque la Linea Guida n. 21, “Trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e adolescenti”, emanata dall’Istituto Superiore di Sanità nell’ottobre 2011 e presentata a Roma il 26 gennaio 2012, come esempio per spiegare come si valuta l’efficacia di un trattamento e cosa si intende nella comunità internazionale per metodo scientifico nella ricerca psicologica.
Il metodo scientifico usato nella ricerca
Accennerò innanzitutto ad alcuni aspetti metodologici sulla valutazione di efficacia, previsti dai criteri internazionali di affidabilità dell’indagine scientifica e applicabili a tutti i campi del sapere.
La metodologia della ricerca è caratterizzata da un procedere sistematico che muove dalla formulazione di un’ipotesi e – attraverso fasi successive – ne verifica l’adeguatezza, allo scopo di incrementare le conoscenze.
All’inizio di un nuovo lavoro, la ricerca bibliografica permette di acquisire quanto prodotto fino a quel momento, fornendo dati certi su cui basare la formulazione di ulteriori ipotesi. Nelle ricerche sperimentali, poi, sono sempre descritti i modi di procedere ed esplicitati i criteri di misurazione e verifica delle ipotesi: in questo modo ciascuna ricerca è ripetibile da altre persone. Inoltre, avere criteri di valutazione comuni consente la collaborazione tra ricercatori in luoghi tra loro distanti, come negli studi multicentrici.
Il metodo sperimentale è un modo di procedere che consiste nel formulare un’ipotesi, modificando un solo elemento alla volta di una situazione, per misurare i cambiamenti che ne possono derivare. Ad esempio: voglio sapere se l’acqua alla temperatura di zero gradi diventa solida e stabilire se questo cambiamento è conseguente alla temperatura, escludendo altre cause (ipotesi). L’elemento modificato dal ricercatore è definito come variabile indipendente, i cambiamenti che ne derivano rappresentano le variabili dipendenti.
Nell’esempio or ora riportato, la temperatura dell’acqua è la variabile indipendente, mentre il suo stato (gassoso, liquido o solido), sarà la variabile dipendente. Per poter poi essere certi che i cambiamenti non siano casuali, ma conseguenti proprio alla modificazione delle variabili indipendenti, si attua anche un confronto con una situazione del tutto analoga a quella sperimentale, tranne che per il cambiamento apportato. Così si può vedere se in questa situazione – di controllo -, la variabile dipendente resta inalterata.
Prenderò quindi due quantità uguali di acqua, in condizioni ambientali identiche, e solo nella condizione sperimentale l’acqua stessa verrà portata alla temperatura di zero gradi. Poi misurerò la variabile dipendente – lo stato liquido, solido, gassoso – in entrambe le situazioni (sperimentale e di controllo), lasciando inalterate tutte le altre condizioni. Se l’acqua a zero gradi solidifica, posso affermare che questo cambiamento è causato dalla temperatura e la conferma dell’ipotesi sperimentale può costituire una base di partenza per altre scoperte.
La ricerca psicologica
Ci sono situazioni in cui è facile misurare gli effetti di un’azione. Ne sono un esempio tutte le misure fisiche (temperatura, volume, peso, velocità, durata, intensità e frequenza) o la concentrazione di sostanze ecc. L’attendibilità di tali misurazioni è alta perché è possibile utilizzare strumentazioni, senza ricorrere a valutazioni basate su impressioni personali.
Le misurazioni oggettive, però, sono più facili da realizzare nei modelli sperimentali in ambito fisico e chimico, ma di più difficile applicazione nella ricerca che coinvolge psicologia, sociologia e pedagogia. In questi settori, infatti, si può incorrere in valutazioni soggettive, sia perché è più difficile misurare, sia perché occorrono competenze specifiche in metodologia della ricerca, spesso poco diffuse in questo ambito.
Una prova soggettiva è il resoconto personale di qualcuno, quindi intrinsecamente non obiettivo e contraddittorio; ne sono esempi le biografie, le autobiografie, le affermazioni dei testimonial, gli aneddoti, le chiacchiere e i self report [questionario autocompilato, N.d.R.] non documentati.
I ricercatori in psicologia e scienze umane – per minimizzare l’influenza soggettiva – usano procedure specifiche che garantiscono l’oggettività delle prove, definendo il fenomeno di interesse in termini di eventi misurabili per intensità, frequenza e durata. Quindi, anche in psicologia, una buona ricerca parte sempre da una definizione operazionale di quello che vogliamo osservare. Le eventuali modificazioni si quantificano attraverso test standardizzati, cioè prove che sono state precedentemente ritenute valide e attendibili nel misurare una certa capacità umana, all’interno di una tipologia di popolazione.
Il ricorso all’osservazione oggettiva del comportamento è giustificato dal fatto che – nello studio di esperienze e capacità umane -, non è possibile utilizzare apparecchiature per osservare direttamente cognizioni, emozioni, credenze, atteggiamenti, motivazioni e scopi.
La valutazione di efficacia di un trattamento
Definire l’oggetto di studio e disporre di strumenti per rilevare i cambiamenti offre il vantaggio di poter replicare la ricerca, per valutare la concordanza dei risultati in differenti situazioni, con altre persone, in diversi contesti.
Questo è importante perché non sempre i risultati preliminari sono stati confermati in momenti successivi e perché alcuni trattamenti – erogati secondo determinate condizioni – non si sono rivelati efficaci in altre. Quando una ricerca, ad esempio, possiede una scarsa validità, i risultati non si possono generalizzare e i cambiamenti non si possono attribuire al trattamento stesso, ma ad altri fattori intervenuti in modo casuale.
L’utilizzo di procedure standardizzate permette quindi la ripetibilità della ricerca. Inoltre, garantisce dalla possibile parzialità dei ricercatori, specialmente quando questi desiderano dimostrare l’utilità di ciò che hanno scoperto o inventato. Questo non ci deve far pensare necessariamente a un “conflitto di interesse” o a cattiva fede perché – come è evidenziato dai contributi della psicologia sociale -, le aspettative e le credenze di una persona possono concorrere a determinarne gli atteggiamenti e condizionare il comportamento altrui (profezia che si autodetermina).
Siccome la definizione dell’oggetto di studio, e la possibilità di misurare le sue modificazioni, sono fattori necessari per la buona qualità di una ricerca, è facile capire come gli studi che hanno per oggetto la descrizione del comportamento – in termini di frequenza, intensità e durata – soddisfino meglio i canoni del modello sperimentale; è ovvio che gli approcci di tipo comportamentale siano i più adatti a questo tipo di concettualizzazioni, perché l’ottica di osservazione di un comportamentista è più facilmente traducibile in dati quantitativi. Questo però non significa che possano essere sottoposti a ricerca controllata solo gli studi che hanno per oggetto la validazione di trattamenti di tipo cognitivo comportamentale. Le ricerche in psicologia, infatti, sono senz’altro molto più ampie di quelle condotte dai soli comportamentisti: disponiamo di una grande quantità di ricerche, cui hanno contribuito la psicologia sociale, la psicopatologia, la psicologia della percezione, la psicologia clinica e molti altri settori, al punto che oggi nessuno scienziato dubita del fatto che la psicologia sia una scienza.
Quindi è interesse delle persone che vogliano diffondere un certo trattamento, promuoverne la validazione secondo disegni sperimentali rigorosi. Una ricerca con caratteristiche che non la facciano ritenere attendibile dalla Comunità Scientifica rappresenta uno spreco di danaro, tempo e fatica, perché i risultati che ne derivano non sarebbero successivamente considerati.
Per quanto riguarda l’osservazione del comportamento, essa si presta a ricerche sperimentali, perché gli elementi da prendere in considerazione sono semplici e lineari.
Ad esempio: voglio verificare se la frequenza di un comportamento problematico (variabile dipendente), in un bambino con disturbi dello spettro autistico, si modifica con la frequenza di un certo comportamento di attenzione da parte della sorella (variabile indipendente). Descriverò il comportamento di Mario: si butta per terra, sbatte la testa contro il pavimento e urla; e quello della sorella: si avvicina, dicendogli: «Mario cosa fai, alzati!», lo tocca e lo prende in braccio. Stabilirò il periodo di osservazione per misurare quante volte la variabile dipendente si modifica al variare di quella indipendente. Poi introduciamo cambiamenti nel comportamento della sorella: resta ferma, oppure tace, o si avvicina, ma non lo prende in braccio. In questo modo è possibile verificare se la frequenza del comportamento di Mario si modifica sulla base del comportamento della sorella.
L’osservazione sistematica del fenomeno – preferibilmente in diverse condizioni -potrebbe registrare un aumento nella frequenza dei “comportamenti-problema” di Mario, in rapporto al comportamento di attenzione della sorella, che quindi agirebbe da rinforzo positivo.
Nelle ricerche a soggetto singolo, è molto importante controllare ogni variabile, perché dobbiamo misurare aspetti riguardanti una persona rispetto al modificarsi di un elemento. In questo senso la ricerca psicologica tiene presenti le specifiche caratteristiche e differenze individuali.
Differenti sono invece i modelli sperimentali che utilizzano più persone. In questo caso, i confronti vengono condotti sulla base delle variabilità all’interno di un gruppo, i cui appartenenti sono selezionati per omogeneità di alcune caratteristiche. Questo consente di minimizzare il rischio di sottostimare alcuni fattori personali e di osservare come un fenomeno si verifichi indipendentemente da differenze individuali.
Un elemento, infine, che potrebbe invalidare il risultato di una ricerca, è l’errore nel reclutamento del campione, cioè del gruppo di persone da studiare.
A volte sono stati sottoposti a ricerca gruppi con particolari caratteristiche, non decise precedentemente, con conseguenti errori che hanno falsato i risultati. Per quanto concerne l’autismo, è famoso, ad esempio, l’errore che compì Leo Kanner, quando gli sembrò che le madri dei bambini con autismo fossero tutte più distaccate, di condizioni culturali ed economiche più elevate, deducendo che queste caratteristiche potessero essere correlabili alle cause dell’autismo.
L’autore non considerò che le famiglie da lui osservate – avendo tutte in comune l’essere utenti del suo servizio – si somigliavano per la possibilità di potersi permettere cure costose, accessibili e note solo ad ambiente, classe sociale e appartenenza culturale particolari. Da qui egli formulò la nota ipotesi della cosiddetta “madre frigorifero”, che molti anni dopo dichiarò non valida, allorquando ammise di aver considerato solo una parte molto peculiare, rispetto alla totalità delle famiglie con autismo diffuse nel resto della popolazione.
Osservare fenomeni e modificare situazioni
La ricerca psicologica analizza fenomeni a livello di comportamenti, cognizioni, emozioni ecc. ed è importante considerare tutte le variabili intervenienti, perché il comportamento umano è determinato dall’interazione di molti aspetti.
Per questo motivo a volte è difficile comprendere se un cambiamento sia dovuto proprio alla variabile che si è posta sotto l’osservazione, o derivi da elementi esterni (variabili di disturbo).
Le ricerche psicologiche presentano inoltre problemi comuni alle altre scienze dell’uomo: non possiamo provocare cambiamenti, quando ciò è eticamente inaccettabile, un limite, questo, condiviso sia dalla psicologia che dalla medicina. In altre parole, non possiamo procurare a una persona una patologia o una lesione, per poi osservare il modo nel quale questa si modifica quando viene sottoposta a una cura.
Per questo motivo le ricerche riguardanti l’uomo spesso devono essere realizzate seguendo protocolli che non possono quasi mai prevedere la totale modificazione della variabile indipendente.
In alcuni casi è possibile solo osservare la correlazione tra due o più fenomeni – in assenza di modificazioni – limitandosi ad analizzare l’andamento di un elemento in relazione ad altri. Vogliamo sapere, ad esempio, se il tabagismo è un comportamento che correla con il tumore dei polmoni. Non è possibile modificare nessuna delle variabili, ma solo registrare come questi due elementi sono presenti in un ampio numero di persone. La ricerca correlazionale può dare informazioni sul fatto che la frequenza del tumore al polmone è più alta tra le persone che fumano sigarette, rispetto a quelle che non lo fanno, e in che misura.
Non sempre, quindi, è possibile dedurre una relazione causa-effetto tra due eventi, ma spesso dobbiamo semplicemente limitarci a osservare fenomeni che si presentano con un’alta probabilità statistica.
In altri casi, invece, possiamo modificare solo le variabili che riguardano i trattamenti, mentre prenderemo “in natura” persone affette da un certo tipo di patologia, o in una certa situazione (che andranno a costituire il gruppo sperimentale).
Quello di seguito riportato è un esempio di valutazione dell’efficacia di trattamento in medicina: vogliamo studiare qual è il processo che determina l’osteoporosi e verificare l’efficacia di un farmaco per questa malattia. Non possiamo prendere persone fisicamente sane e causare una carenza di calcio, per valutare l’efficacia del farmaco testato. Dovrò quindi selezionare un gruppo di persone affette da osteoporosi, omogenee tra loro, e verificare se la somministrazione del farmaco induce un aumento del livello di calcio, in che misura e in quanto tempo.
Queste ricerche si annoverano tra quelle chiamate “quasi sperimentali”, perché non possiamo creare il fenomeno da studiare, ma lo dobbiamo cercare in natura.
La situazione di controllo sarà costituita da un analogo gruppo di persone con carenza di calcio, al quale non verrà somministrato il farmaco da testare. Il successivo confronto tra i livelli di calcio nelle ossa dei due gruppi permetterà di verificare se il farmaco è efficace per l’osteoporosi.
Il confronto tra i gruppi – va aggiunto – si attua attraverso l’analisi della varianza e altri strumenti statistici molto raffinati.
La valutazione di trattamenti abilitativi rivolti a bambini con disturbi dello spettro autistico si basa sull’osservazione di alcuni aspetti del comportamento, assunti come indicatori indiretti della presenza o assenza di alcune capacità e funzioni implicate nel disturbo. Questo perché non esiste la possibilità di misurare in modo univoco la presenza, natura e gravità di un disturbo autistico, non essendovi un unico indicatore assoluto della presenza del disturbo stesso.
Come è noto, i disturbi dello spettro autistico sono un insieme di condizioni – tra loro molto diverse -, caratterizzate da deficit variamente distribuiti in tre aree (quelle dell’interazione sociale, della comunicazione e del repertorio di interessi). Questi deficit possono essere presenti in vari modi e a diversi livelli di gravità. Ne consegue che la formulazione della diagnosi di autismo – o di un altro disturbo pervasivo dello sviluppo – non possa basarsi sulla misurazione di un unico indicatore, come invece si può fare con la quantità di calcio nelle ossa nel caso dell’osteoporosi.
La mancanza di un unico indicatore ci costringe pertanto ad analizzare molti fattori che, per ciascuna persona, possono essere variamente combinati tra loro (analisi multifattoriale); gli studi sull’autismo individuano un gruppo di variabili dipendenti, valutando la modificazione di ciascuna di esse.
Determinare l’efficacia di un trattamento consiste quindi nel misurare la modificazione nella gravità dei vari deficit a carico dell’interazione sociale, della comunicazione e del repertorio di interessi ed è anche possibile che un certo trattamento sia stato valutato efficace nel ridurre un deficit che investe una certa funzione, ma meno efficace per ridurre il deficit a carico di un’altra.
Ad esempio, a pagina 34 della Linea Guida inizialmente citata, nel paragrafo riguardante le ricerche che valutano gli strumenti di Comunicazione Alternativa Aumentativa, si legge: «Un primo studio […] confronta l’intervento di Picture Exchange Communication System (PECS) in aggiunta alla frequenza scolastica, con la semplice frequenza scolastica, in una popolazione (n=41) di bambini di età media 5,6 anni (range 3-7 anni) affetti da autismo, con compromissione cognitiva, inseriti in classi speciali. L’intervento sperimentale PECS, condotto presso la scuola stessa per una durata di circa cinque settimane e quindici ore totali, prevede che il bambino impari a comunicare utilizzando un set di disegni che rappresentano oggetti. […] Il gruppo di controllo non riceve nessun trattamento, oltre alla frequenza della scuola speciale. Lo studio rileva che il livello di interazioni comunicative tra il bambino e l’adulto è significativamente maggiore nel gruppo trattato con la PECS rispetto al gruppo di controllo».
Questo lavoro indica dunque che i quarantuno bambini che avevano ricevuto il trattamento erano divenuti più capaci di comunicare con gli adulti, rispetto a quelli che non lo avevano ricevuto. Il cambiamento interessa la loro funzione comunicativa – che è migliorata – con conseguente riduzione del disturbo a carico della comunicazione. Tuttavia non vi sono evidenze che il trattamento abbia procurato giovamento in altre aree, quali il repertorio degli interessi, oppure la quantità, la frequenza e la durata dei comportamenti stereotipati.
Studi longitudinali
Per valutare l’efficacia di trattamenti rivolti a bambini e adolescenti, occorre stimarne l’efficacia a lungo termine, per comprendere se un’attività può agire stabilmente sul corso dello sviluppo, migliorando le varie funzioni in rapporto alle differenti tappe della crescita.
Il disegno di ricerca – in psicologia dello sviluppo – implica l’osservazione delle modificazioni in lunghi periodi (studi di follow up).
La valutazione di un trattamento abilitativo si realizza attraverso studi longitudinali, nei quali i soggetti sono sottoposti a osservazioni per lungo tempo. Queste ricerche offrono molte informazioni sull’utilità di un intervento, perché consentono di verificare se gli eventuali cambiamenti positivi riconducibili allo specifico trattamento persistano a lungo termine e si stabilizzino, con ripercussioni positive sullo sviluppo globale. Ne deriva quindi la possibilità di determinare un realistico rapporto costi/benefici che includa gli effettivi vantaggi, in termini di salute, per la persona, rispetto alle risorse profuse sotto il profilo economico, sociale, educativo e sanitario.
Gli studi longitudinali prendono generalmente in considerazione persone divise per fasce di età (coorti). Alcuni aspetti saranno oggetto di osservazioni e misurazioni in età stabilite. Questo consente di valutare su larga scala gli effetti, osservando la correlazione tra la modalità di erogazione del trattamento, la sua durata e articolazione e il successivo sviluppo del bambino.
Anche negli studi longitudinali è utile paragonare i valori rilevati con quelli di un gruppo di controllo, di solito costituito da persone con un funzionamento e un livello di sviluppo equivalenti rispetto alle persone del gruppo sperimentale, ma che non ricevono il trattamento che si vuole valutare.
E ancora, gli studi longitudinali implicano un alto dispendio organizzativo ed economico, perché comportano la necessità di seguire per molti anni molte persone. Infatti, quanto più numeroso e ben selezionato sarà il gruppo di persone osservate, e quanto più lungo l’arco di anni di osservazione, tanto più dettagliate saranno le informazioni che si potranno ricavare.
Riporto sempre dalla Linea Guida sull’autismo (pagine 27-28), il riferimento a uno studio che valuta l’efficacia di un trattamento mediato dai genitori (definito anche Parent Training): «[…] è stato valutato uno studio randomizzato, multicentrico, condotto secondo una valida metodologia di ricerca e su un campione numeroso (n=152), che indaga l’efficacia nel lungo termine (follow up a 13 mesi) di un intervento mediato dai genitori e finalizzato a migliorare la comunicazione (Preschool autism communication trial, PACT) in aggiunta al trattamento standard, a confronto con il solo trattamento standard, in una popolazione di bambini (età 2-5 anni) con autismo. Dallo studio emerge che l’intervento non produce miglioramenti sulla gravità dei sintomi dell’autismo (outcome primario, item su comunicazione sociale, […]), ma determina un miglioramento nell’interazione genitore-bambino (outcome secondario, così come rilevato da tre componenti importanti della interazione: la frequenza con la quale all’iniziativa comunicativa del genitore corrisponde una risposta “sincrona” del bambino, la frequenza delle comunicazioni avviate dai bambini e il tempo speso in attenzione reciproca condivisa)».
La valutazione dell’efficacia a lungo termine può essere condotta anche confrontando lo sviluppo di bambini sottoposti a trattamenti diversi.
A pagina 44 del documento, si legge ad esempio: «I dati prodotti dalla metanalisi su studi di coorte concorrenti hanno dimostrato che l’ABA [“Applied Behaviour Analysis”, ovvero “Analisi applicata del comportamento”, N.d.R.] è superiore all’educazione speciale per vari outcome (comportamenti adattativi, comunicazione/ interazione, comprensione e espressione linguistica, funzionamento intellettivo) nel medio termine (12 mesi), ma non nel lungo termine (3 e 9 anni). Dai pochi RCT [studi randomizzati controllati, N.d.R.] inclusi nella revisione sistematica risulta che quando l’intervento ABA è posto a confronto con altri modelli di intervento altrettanto strutturati, come il DIR (Developmental individual-difference relationship based intervention), oppure con interventi strutturati che racchiudono alcuni elementi del modello ABA stesso, non emergono differenze di efficacia. Non sono quindi disponibili dati definitivi a sostegno dell’efficacia del modello ABA secondo il metodo Lovaas rispetto ad altri trattamenti attivi e altrettanto strutturati, cioè non ci sono ancora dati sufficienti per stabilire quale tra i vari modelli strutturati di intervento terapeutico sia il più efficace».
Spesso la ricerca in età evolutiva si concentra su studi di prognosi, cioè lavori che analizzano l’andamento della salute di gruppi di bambini, per individuare, a posteriori, gli elementi predittivi di una certa situazione.
E vi sono anche ricerche di meta-analisi, in cui il confronto è operato partendo dalla letteratura esistente, per analizzare in dettaglio i molti studi realizzati sullo stesso argomento, tra loro omogenei, in quanto basati sugli stessi parametri di valutazione.
L’utilità delle meta-analisi deriva dalla possibilità di paragonare i vari studi, quindi di valutare la validità dei risultati alla luce di altri particolari, quali campioni poco numerosi o distorsioni dovute all’eterogeneità delle variabili che emergono dal confronto. Alle pagine 50-51 della Linea Guida si legge ad esempio: «[…] per quanto riguarda il QI [quoziente d’intelligenza, N.d.R.] l’ABA, rispetto all’intervento di controllo, ottiene maggiori miglioramenti sia sul QI totale (18 studi […]) sia sul QI non verbale (10 studi […]). Per quanto riguarda il linguaggio l’ABA, rispetto all’intervento di controllo, ottiene maggiori miglioramenti su tutte e tre le misure di esito considerate: linguaggio ricettivo (11 studi […]) linguaggio espressivo (10 studi […]) e abilità generali di linguaggio (5 studi […]). Per quanto riguarda i comportamenti adattativi l’ABA, rispetto all’intervento di controllo, ottiene maggiori miglioramenti in tutte le aree valutate: comunicazione (11 studi […]), abilità di vita quotidiana (11 studi […]), socializzazione (11 studi […]), abilità motorie (3 studi […]) e comportamenti adattativi in generale (cioè punteggio ottenuto combinando le 4 aree analizzate, 15 studi […]). I risultati sono gravati da elevata eterogeneità (vedi valori di I2, nella maggior parte dei casi >75%) e da publication bias [“distorsioni da pubblicazione“, N.d.R.]».
Etica e ricerca di efficacia
Nella mente di un ricercatore, specialmente quando l’obiettivo è migliorare la salute delle persone, dovrebbero essere sempre presenti problemi etici, riferibili ai possibili conflitti di interesse, alla selezione del gruppo di controllo, alla scelta del disegno sperimentale. In particolare, è evidente che le persone appartenenti ai gruppi di controllo non possono avvalersi dei possibili vantaggi derivanti dall’efficacia del trattamento oggetto di studio.
Per minimizzare questo aspetto, in alcuni casi il gruppo di controllo è costituito da persone che non possono accedere al trattamento per motivi indipendenti dalla ricerca, quali incompatibilità organizzative, distanza, tempi d’attesa ecc.
A pagina 29 della Linea Guida sull’autismo, uno studio analizza l’efficacia di un trattamento mediato dai genitori, operando il confronto con un gruppo di bambini di pari livello, non sottoposti a trattamento perché in lista d’attesa: «Il primo studio […] indaga l’efficacia di un intervento di affiancamento dei genitori finalizzato a facilitare le capacità di socializzazione con i propri coetanei (Parent-assisted social skills intervention) in una popolazione di soggetti con disturbi dello spettro autistico e QI verbale =70, a confronto con un gruppo inserito in una lista di attesa, che riceverà lo stesso intervento, ma ritardato nel tempo».
A pagina 42, poi, nell’esaminare alcuni studi sull’efficacia del Metodo TEACCH [TEACCH sta per “Treatment and Education of Autistic and Related Communication-Handicapped Children”, N.d.R.], il confronto viene operato tra tre gruppi di bambini, due dei quali hanno ricevuto il trattamento in oggetto, seppure con modalità diverse, mentre l’ultimo non è stato coinvolto in un metodo educativo specifico: «Lo studio […], condotto in Italia, fornisce i dati del follow up di lungo periodo (3 anni) di un confronto tra 3 gruppi di intervento: il primo gruppo è costituito da soggetti che ricevono il programma TEACCH in un contesto naturalistico (i genitori hanno seguito un training specifico TEACCH); il secondo gruppo è formato da soggetti che ricevono il programma TEACCH in un contesto residenziale; del terzo gruppo fanno parte soggetti inseriti in un contesto scolastico inclusivo senza un metodo specifico educativo (non TEACCH). […] Dai risultati emerge che entrambi i programmi TEACCH (erogati nel setting naturalistico e in quello residenziale) producono esiti significativamente migliori rispetto al confronto e non ci sono differenze di efficacia tra i due programmi. In particolare, entrambi i programmi risultano più efficaci del confronto nel migliorare la motricità grossolana (ma non quella fine), le performance cognitive (misurate alla scala Psycho educational profile revised, PEP-R), la socializzazione e i comportamenti mal adattativi […]».
Negli studi randomizzati (random significa casuale), le persone vengono assegnate casualmente al gruppo sperimentale o a quello di controllo, secondo procedure che garantiscono sia l’imparzialità della scelta, sia l’omogeneità dei due gruppi.
I lavori considerati più rigorosi e attendibili, sono quelli cosiddetti “in doppio cieco” nei quali, per ridurre le principali fonti di errore, le diagnosi sono fatte da specialisti diversi da quelli che erogano il trattamento; i riabilitatori, come pure coloro che registrano o analizzano i dati, sono lasciati all’oscuro delle ipotesi del ricercatore. Anche le persone che ricevono il trattamento dovrebbero ignorare l’appartenenza al gruppo sperimentale o a quello di controllo o, quanto meno, dovrebbero essere all’oscuro di quale sia la variabile oggetto di studio, per evitare l’interferenza di fenomeni tipo “effetto placebo” [serie di reazioni a una terapia, da parte dell’organismo, non derivanti dai princìpi attivi della terapia stessa, ma dalle attese dell’individuo, N.d.R.].
Chi partecipa poi a progetti di ricerca dovrebbe essere sempre informato del fatto che i procedimenti cui verrà sottoposto non si configurano al momento come cure certe, tranne quando essere a conoscenza di sottoporsi a un trattamento sperimentale potrebbe inficiarne l’efficacia. Solo quando i risultati di una ricerca vengono confermati da successivi studi e il vantaggio del trattamento oggetto di sperimentazione viene a sua volta confermato, la sua somministrazione cessa di essere sperimentale, per passare alla fase di utilizzo nella pratica assistenziale.
In realtà – nel variegato mondo dei servizi psico-socio-educativi – abbiamo assistito frequentemente a un iter differente: molti trattamenti, infatti, sono stati a lungo inseriti nella pratica assistenziale e riabilitativa ordinaria, per essere sottoposti solo successivamente a verifica sperimentale. In tutti questi casi, la ricerca di efficacia ha dovuto prima raccogliere i numerosi e spesso disomogenei dati delle ricerche retrospettive, e poi allestire protocolli di valutazione propriamente detti.
Partecipare a studi sperimentali è un’attività che solo indirettamente e solo successivamente potrà essere utile ai singoli pazienti, in quanto essi si avvantaggeranno davvero della ricerca solo al suo termine, assieme a molte altre persone. Prima di questo momento, un paziente che partecipa a uno studio sperimentale, mette a disposizione la propria persona per fare acquisire informazioni a beneficio di tutti gli altri. Questo è il motivo per il quale, di norma, la partecipazione a protocolli di ricerca per la sperimentazione di un trattamento non dovrebbe rappresentare un costo economico per i pazienti. Le ricerche, gestite presso enti specifici, prevedono sempre la gratuità per i partecipanti.
Le persone affette da patologie hanno tutto l’interesse a promuovere ricerche e a conoscerne i risultati, per poter ottenere al più presto la diffusione delle conoscenze, presso coloro che si occupano di erogare servizi alla persona o di pianificare politiche sanitarie.
Parallelamente, vi è l’interesse – da parte di coloro che lavorano nei servizi alla persona – ad accedere a conoscenze aggiornate, per poter migliorare costantemente la qualità dei servizi erogati. In realtà non è possibile, e forse neppure utile, replicare pedissequamente nella pratica clinica i risultati delle ricerche sperimentali. Questo perché, di fatto, le persone dei gruppi studiati sono molto meno eterogenee e complesse degli effettivi utenti dei servizi, che spesso si differenziano per molte caratteristiche, non ultima la presenza di doppie diagnosi, cioè più di una problematica sanitaria alla volta, oppure di quadri clinici non convenzionali. Per questo motivo, le decisioni riguardo ai trattamenti dovrebbero essere determinate dall’aggiornamento delle conoscenze, dalle caratteristiche e dalle opinioni del paziente, oltreché dalle possibilità del contesto di applicazione.
Un buon clinico, in conclusione, dovrebbe essere abituato a porsi domande, in modo che la conoscenza di una nuova persona o di una situazione particolare gli susciti dei quesiti, utili a orientare la sua ricerca di informazioni per indirizzare al trattamento.
Avere la laicità e la libertà intellettuale necessaria per tollerare di modificare le proprie abitudini terapeutiche, grazie alle nuove conoscenze, è indispensabile per contribuire a creare salute.
*Psicologa e psicoterapeuta. Esperta nelle problematiche psicologiche, riabilitative ed evolutive delle persone con disabilità. Consulente sul deficit visivo dal 1994, psicoterapeuta dal 1997, ha scritto numerosi articoli e libri. Lavora come psicoterapeuta e consulente di private famiglie e pubbliche istituzioni ed è docente di corsi e seminari di formazione per operatori, insegnanti e riabilitatori. Per accedere al suo sito cliccare qui.
La nostra redazione la ringrazia con particolare affetto per avere voluto mettere a disposizione di Superando.it questi suoi approfondimenti.
Per quanto poi riguarda i più recenti testi da noi dedicati alla Linea Guida n. 21 dell’Istituto Superiore di Sanità, sui disturbi dello spettro autistico, suggeriamo la lettura di: Che sia vera consapevolezza sull’autismo e che si applichi quella Linea Guida (di F.A.N.T.A.Si.A. – Federazione delle Associazioni Nazionali a Tutela delle Persone con Autismo e Sindrome di Asperger, cliccare qui); Più etica e più serietà nella cura dell’autismo (di Liana Baroni, presidente dell’ANGSA – Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici, cliccare qui); Anche l’ANFFAS chiede l’applicazione di quella Linea Guida sull’autismo (di ANFFAS – Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale, cliccare qui).
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