Bossi che attacca Brunetta («Nano di Venezia non rompere i c…»), Grillo e il suo “psiconano”, Travaglio e il “nano” condito in mille salse. Domanda: ma non si può proprio fare a meno di indicare in maniera dispregiativa caratteristiche fisiche per criticare o fare politica? Che cosa c’entra usare “nano” come fosse un insulto per ridicolizzare una persona?
In Italia le persone con acondroplasia o altre forme di nanismo si stima siano 2.500, una ogni 25.000 nati. Essere bassi non è una malattia, solo una condizione. I rischi di esclusione sociale sono grandi, la stigmatizzazione dietro ogni angolo, dai racconti alle fiabe al circo, con espressioni entrate nell’uso comune, come “nani e ballerine“, per indicare anche in politica persone servili e stupide. Non stupisce, allora, che in Italia la quasi totalità delle persone con acondroplasia si sottoponga ad allungamento degli arti, intervento che dà anche un aiuto funzionale e una maggiore autonomia.
In realtà, le persone di bassa statura si portano dietro profondi retaggi culturali e storici [si veda a tal proposito, cliccando qui, la trattazione di Gabriella Cetorelli Schivo, intitolata Nani dal mondo antico. Aspetti storici, archeologici e sociali dell’acondroplasia nell’antichità, N.d.R.]: alle corti di nobili e re, addirittura nell’antico Egitto dei faraoni, erano considerati giullari o buffoni, ma anche consiglieri; nel circo, usati come persone goffe o clown; nelle tradizioni popolari e nei racconti, vivono nei boschi, come gli elfi e gli hobbit, magari insieme ai giganti, “diversi” come loro; con le fiabe, Biancaneve su tutte, sono entrati nell’immaginario dei bambini.
C’è molto da fare, dunque, sul piano culturale, oltre che dell’integrazione sociale, come spiega Marco Sessa, presidente dell’AISAC (Associazione per l’Informazione e lo Studio dell’Acondroplasia): «Lavoriamo per una società maggiormente orientata ai diritti dei deboli e all’integrazione delle diversità, anche con campagne di sensibilizzazione, come D-mostriamo. La diversità in mostra, che portiamo nelle scuole. Facciamo una battaglia per essere considerati persone e tante stigmatizzazioni, pur se non volute, entrano poi nella quotidianità. Vogliamo solo vivere come tutti, con difetti e pregi, ma senza ridicolizzazioni».
In questa situazione si inserisce poi il dibattito sull’allungamento degli arti, tecnica sviluppata negli ultimi trent’anni. Siamo uno dei pochi Paesi al mondo in cui questo tipo di intervento viene erogato dal Servizio Sanitario. Nei Paesi anglosassoni e nel Nord Europa è ritenuto invece un intervento estetico. Ma là c’è una cultura un po’ diversa, un’altra considerazione sociale, strutture più adeguate.
Nessun giudizio di merito su chi lo sceglie, solo su una società che – ancora una volta – non accetta chi ritiene diverso. «Ne vale la pena?», si chiede Sessa, che pure l’allungamento fu tra i primi a farlo, quasi trent’anni fa, andando anche nell’allora Unione Sovietica, dove erano e sono all’avanguardia.
Per discutere di questo e anche per festeggiare i propri venticinque anni, l’AISAC ha in programma un convegno internazionale a Milano, per il 5 e 6 maggio [se ne legga cliccando qui, N.d.R.], con la partecipazione dei migliori specialisti del settore da tutto il mondo, basato su una domanda fondamentale domanda: Gli allungamenti nell’acondroplasia: una scelta terapeutica o culturale?.
Si tratta anche di un intervento lungo e doloroso, che può durare dai due agli otto anni. Spiega Sessa: «C’è una cultura dove si dà molto valore all’estetica. Ci sono persone di bassa statura, non con acondroplasia, che ci vengono a chiedere informazioni. Chi non lo fa non ha però una qualità della vita inferiore. Anche se ci sono miglioramenti magari in molte situazioni, perché la società non è costruita non solo a misura dei nani, ma anche delle persone basse. Per questo vogliamo discuterne e approfondire».
Non si capisce come non si riesca a costruire una società per tutti. Dalle grandi alle piccole cose. Come dicono all’AISAC, crediamo in un mondo «in cui le differenze siano vissute come valore, ogni essere umano conti per quello che è e non per come appare, vi sia consapevolezza che “c’è qualcosa di grande in ognuno di noi”».
*Il presente articolo è apparso (con il titolo Nani non da giardino) anche in InVisibili, blog del «Corriere della Sera» (di quest’ultimo si legga anche nel nostro sito cliccando qui). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al contesto, per gentile concessione di tale testata.
Su un altro versante, poi, anche dei testi All’altezza di una vita dignitosa (a cura di Simona Lancioni, cliccare qui) e A misura di Marta (intervista a Renata Ciomei, cliccare qui).